3.9. Sulle tracce della fuggitiva: l’addomesticamento (mancato) di Albertine tra cinema, letteratura e fotografia*

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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A partire dalle pagine della Recherche proustiana, Albertine è divenuta personaggio femminile sfuggente quasi per antonomasia. Eppure la sua inafferrabilità viaggia in parallelo al tentativo di impossibile addomesticamento perpetrato dal suo apparente demiurgo: accessibile a chi legge solamente attraverso il punto di vista del narratore, senza che ci sia la possibilità di assumere, in alcun momento, la prospettiva di lei, Albertine si trasforma da colei che viaggia in bicicletta sulla spiaggia alla ‘prigioniera’ confinata nella casa del protagonista e, in particolare, nella camera da letto a lei deputata. Eppure, nelle rielaborazioni più o meno consapevoli delle sue sorti da parte di alcune autrici e artiste contemporanee, proprio la dimensione domestica viene rielaborata alla luce di una nuova possibilità di affermare il soggetto femminile, secondo una tensione perennemente ambigua tra confinamento e liminalità cercata. Così in Proussade (1967) Pia Epremian rielabora la propria tesi su Proust in un film sperimentale girato in un appartamento, in cui il volto ieratico di una giovanissima Patrizia Vicinelli pare sintetizzare l’isolamento, ma anche la spregiudicatezza, di un’Albertine finalmente resa anche soggetto della visione; nella plaquette poetica The Albertine Workout (2014) Anne Carson, in un esperimento letterario a cavallo tra indagine forense e analisi quantitativa, ci riporta l’immagine di un’Albertine che si fa pianta domestica quasi a mo’ di strategia biologica di sopravvivenza; infine, nella serie fotografica a colori di Francesca Woodman, lettrice vorace di Proust, ambientata nel proprio appartamento newyorkese (1979-1980) possiamo immaginare il fantasma di Albertine che anima strategie iconografiche di fuga e superamento delle soglie (porte, specchi, pareti) leggibili nella geometria del corpo femminile.

Albertine Simonet, from Proust’s Recherche, is the elusive female character par excellence. Yet her elusiveness runs parallel to an impossible domestication perpetrated by the narrator: she transforms from the one who travels by bicycle on the beach to the ‘prisoner’ confined to the protagonist’s house and, in particular, to the bedroom assigned to her. However, in the more or less conscious revision of its fate by some contemporary female authors and artists, the domestic dimension is refashioned in the light of a new possibility of affirming the female subject, according to a perennially ambiguous tension between confinement and liminality. In Proussade (1967) Pia Epremian reworks her thesis on Proust in an experimental film shot in an apartment, in which the hieratic face of a very young Patrizia Vicinelli seems to synthesize the isolation, but also the unscrupulousness, of Albertine, who finally becomes the gazing subject; in The Albertine Workout (2014), a plaquette by Anne Carson, Albertine becomes a domestic plant who struggles to survive; finally, in Francesca Woodman’s color photographic series set in her New York apartment (1979-1980), we can imagine Albertine’s ghost hiding herself in the geometry of the female body.

1. Dalla ninfa gradiva alla casa della ‘prigioniera’

A partire dalle pagine della Recherche proustiana, Albertine Simonet è divenuta il personaggio femminile più osservato e, al contempo, più sfuggente della modernità letteraria europea. Accessibile a chi legge solamente attraverso il punto di vista del Narratore, senza che ci sia mai la possibilità di assumere la prospettiva di lei, Albertine è fatta oggetto di una scopia ossessiva che tuttavia non riesce a penetrare l’enigma e l’alterità di cui la giovane donna si fa portatrice (Dubois 1997; Jenny 2005). Il desiderio sessuale e la gelosia patologica del Narratore trasformano lo sguardo di lui in uno strumento di controllo concentrazionario, intervenendo in modo significativo sull’organizzazione dello spazio dal quale dipende, in larga parte, l’immagine esteriore che il Narratore – e di conseguenza chi legge – è in grado di cogliere di Albertine.

La metamorfosi più significativa della giovane donna, che nel corso dell’intera Recherche viene insistentemente descritta come mutevole, molteplice e inafferrabile, si avverte nel confronto fra i ritratti ricorrenti all’interno dei due volumi che maggiormente mettono al centro la sua fantasmatica presenza: À l’ombre des jeunes filles en fleur e La prisonnière. Nel secondo tomo della Recherche la prima apparizione compiuta di un’Albertine ragazzina, mentre si trova con le compagne della piccola banda di Balbec, si cristallizzerà in una visione imperitura, vero e proprio leitmotiv che accompagnerà il Narratore anche negli anni successivi. La «fille aux yeux brillantes, rieurs, aux grosses joues mates, sous un “polo” noir, enfoncé sur sa tête, qui poussait une bicyclette avec un dandinement de hanches si dégingandé» (Proust 1920, p. 86) pare un’incarnazione moderna di forza, agilità e spavalderia, in contrasto con l’atteggiamento, l’abbigliamento, ma anche la spazialità che contraddistingue le ragazze al di fuori della piccola banda. Benché a più riprese le giovani in fiore vengano accostate – e confuse fra loro – dal Narratore alle silhouette di vergini elleniche, alle passanti di baudelairiana memoria o a manifestazioni floreali dei giardini botanici, a poco a poco il profilo di Albertine comincia a distinguersi dalle altre, a uscire da un più generico bassorilievo proprio per la sua particolare vitalità, per la rudezza del linguaggio spesso gergale, per la luminosità degli occhi e di un profilo sempre accostato allo sfondo del mare. La mobilità di Albertine, che costituisce anche la principale fonte di desiderio del Narratore, è dunque intrinsecamente legata a una spazialità aperta – il paesaggio di Balbec, le notti di plenilunio, la velocità della bicicletta, la solitudine del gesto del golf – e a un movimento serpentino e imprevedibile, ben sintetizzato nel paragone con l’apparizione «de la danseuse dont sont transmutées les couleurs, la forme, le caractère, selon les jeux innombrablement variés d’un projecteur lumineux» (Ivi, p. 221) – chiaro riferimento a Loïe Fuller, la ballerina dalla veste svolazzante che incantò i fratelli Lumière.

All’Albertine un po’ ‘ninfa gradiva’ e un po’ menade, per usare le iconografie warburghiane che le si attagliano perfettamente (Didi-Huberman 2002a e 2002b), si sostituisce, in La Prisonnière, una versione domestica e addomesticata, ridotta in cattività dal Narratore-carceriere il quale, temendo che Albertine sia in realtà lesbica, tenta in ogni modo di indurla a una prigionia mascherata da pre-fidanzamento. Quello che sembra preoccupare principalmente il Narratore è, in particolare, la scopia attiva di Albertine, che aveva avuto modo di manifestarsi all’interno, ad esempio, del precedente Sodome et Gomorrhe. Negli sguardi che Albertine lanciava a camerieri e cameriere, o alle donne viste attraverso gli specchi dei caffè e del Casinò di Balbec, il protagonista evidenzia una potenzialità desiderante e attiva che, in effetti, assomiglia decisamente alla propria – innumerevoli sono le descrizioni delle occhiate che il Narratore lancia a questa o quella ragazza, immaginando approcci più o meno erotici – e che pure si discosta dalla rappresentazione convenzionale della rispettabilità femminile. In La Prisonnière questa spregiudicatezza scopica viene sostituita da un gesto passivo: Albertine risponde agli occhi indagatori del Narratore con una generale accondiscendenza che tradisce la noia e l’irritazione della reclusione.

 

2. Strategie domestiche di fuga: la mobilità dello sguardo in Proussade di Pia Epremian

Eppure, nelle rielaborazioni più o meno consapevoli delle sue sorti da parte di alcune autrici e artiste contemporanee, la dimensione domestica di La Prisonnière viene rielaborata alla luce di una nuova possibilità di affermare il soggetto femminile, secondo una tensione perennemente ambigua tra confinamento coatto e liminalità cercata. Lo sguardo di Albertine, ad esempio, è di nuovo reso protagonista all’interno del film Proussade (1967) di Pia Epremian De Silvestris. Figura chiave del cinema underground italiano, in particolare della scena torinese (Alicata 2019), e unica donna a figurare inizialmente nella CCI (Cooperativa del Cinema Indipendente), Epremian esordisce nella sua fulminante carriera cinematografica (nove film girati tra il 1967 e il 1970 in 8mm o super8) con una rielaborazione cinematografica della propria tesi su Proust:

 

Proussade nasce dalla mia tesi di laurea sui protagonisti della Recherche di Marcel Proust. Avrei dovuto pubblicarla ma poi ho deciso di farne un lavoro cinematografico. Mettevo in rilievo gli elementi che Proust cercava di nascondere, quelli che ha sempre nascosto fino alla morte della madre, che non sapeva che lui fosse omosessuale. Mi sono concentrata sugli elementi più oscuri, perversi (Di Marino, Licciardello 2012, p. 31).

 

Il film è un home movie in tutti i sensi: infatti viene girato quasi interamente in una casa – pochissime le scene in esterno, che si svolgono comunque nel giardino dell’abitazione –. La trama è pressoché assente: a scene che paiono rimandare a episodi della Recherche di difficile identificazione – il film è completamente muto e i personaggi appaiono in abiti moderni, in atteggiamenti non sempre decifrabili – se ne alternano altre che rappresentano un vero e proprio teatro sadiano, con coppie o gruppi di persone intente a simulare atti sessuali sadomasochisti. D’altronde, è lo stesso titolo a voler evocare dichiaratamente il doppio riferimento – quello proustiano e quello sadiano – e nelle parole di Epremian l’intento era precisamente quello di concentrarsi su «l’evocazione dell’inconscio, ma anche la crudeltà, l’indifferenza dei nobili, la sottomissione e l’invidia dei borghesi» (Conte, Epremian De Silvestri 2021, p. 26).

Tra i pochi abbinamenti certi fra i volti che appaiono nella pellicola di Epremian e i personaggi del romanzo proustiano c’è proprio quello fra Albertine e una giovanissima Patrizia Vicinelli, la poeta bolognese che era da poco apparsa, come una folgorazione, al Convegno di La Spezia del Gruppo ’63 dello stesso anno, e che avrebbe partecipato attivamente alla scena del cinema underground di quegli anni (Simi 2020). È Tonino De Bernardi a ricordare, in più di un’intervista, il ruolo di Vicinelli (alla quale avrebbe dedicato anche un proprio film qualche tempo dopo) all’interno di Proussade:

 

Lei [Epremian] ti metteva contro una parete e ti diceva: «Tu sei ma non so più chi della Recherche di Proust», e fatto! E così a Patrizia (Vicinelli altra poeta e dal destino tragico): «Tu sei Albertine!» (De Bernardi 2014).
Arrivava di corsa con la Super8 (lei aveva già Alida), la puntava addosso e nell’altra teneva la lampada e diceva tu sei Odette, tu Charlus, tu Saint-Loup, a Angela Rolando tu la Verdurin, a Patrizia Vicinelli tu Albertine… e così fece Proussade il primo film che è la summa di tutto quel che era stato per lei già prima quando non ancora filmava e poi scappava perché a casa l’aspettava la bimba (De Bernardi 2009).

 

Vicinelli-Albertine è protagonista di due sequenze del film, una in fila all’altra, collocate nell’ultima parte e riferibili alle vicende di La Prisonnière. Nella prima, che dura circa due minuti e mezzo, la giovane donna, in abbigliamento intimo e con le braccia incrociate sotto il seno, viene inquadrata principalmente in primo e primissimo piano mentre guarda in camera con uno sguardo duro, severo. La figura rimane perfettamente immobile: a muoversi, oltre alla macchina da presa che procede secondo un’alternanza di zoom e arretramenti, sono solamente gli occhi, che compiono talvolta movimenti laterali o che guardano verso il basso, semichiusi, mentre si stagliano, abbagliati da una luce frontale che irradia Albertine-Vicinelli di una luce diafana, sullo sfondo completamente buio [fig. 1]. Se la staticità del corpo può rimandare allo stato di prigionia del personaggio e alla sua cattività, la mobilità degli occhi all’interno di uno sguardo ieratico, con le labbra serrate e reso quasi una maschera di pietra, sembra suggerire un principio di resistenza, di sopravvivenza di quell’inquietudine così caratteristica dell’Albertine ante-prigionia: un principio di ribellione che, come vedremo meglio più avanti, può scaturire anche dall’apparente immobilità. Nella seconda sequenza, della durata di circa tre minuti, Albertine-Vicinelli è disposta contro un muro bianco ed è avvolta da un mantello scuro [fig. 2]. La sua figura appare dapprima quasi intera, attraverso un movimento di macchina verticale che ne coglie la fisionomia statuaria, ma quasi immediatamente lo zoom tipico di tutto il film si sofferma sul volto, ora più mobile. Il viso compie movimenti misurati ma effettivi, voltandosi di profilo ora da un lato ora dall’altro, e la bocca si apre per pronunciare qualche parola a noi incomprensibile, o per abbozzare un sorriso sardonico. Il mantello in cui è avvolta la giovane donna pare un chiaro riferimento alla veste da camera Fortuny con cui l’Albertine proustiana comincia ad abbigliarsi sempre più frequentemente verso la fine di La Prisonnière. Torneremo a breve sull’importanza del motivo Fortuny all’interno della Recherche, leitmotiv che tuttavia è stato analizzato più in associazione alla figura del Narratore e alle sensazioni suscitate in lui, che non al significato che potrebbe assumere rispetto al personaggio di Albertine. Tornando al film di Epremian, ciò che spicca sono la verticalità e la solennità della figura, unite all’ironia dello sguardo: Albertine-Vicinelli è fiera e si rivolge direttamente alla camera, eretta e composta nel suo confrontarsi alla pari con chi la osserva, lontana, dunque, dall’orizzontalità marcata di passività con cui è stata principalmente descritta all’interno di La Prisonnière.

 

3. Resistere in forma di pianta: The Albertine Workout di Anne Carson

All’interno della Recherche le descrizioni di Albertine – sempre ambientate nella casa del Narratore – sono costituite principalmente da similitudini che accostano la giovane ora a un animale domestico – «cagna», «grossa gatta appallottolata» – ora a una pianta rampicante – siamo lontane dai paragoni con uccelli, gabbiani e fiori selvatici così numerosi in À l’ombre de jeunes filles en fleur:

 

Elle n’aurait pas fermé une porte et, en revanche, ne se serait pas plus gênée quand une porte était ouverte que ne fait un chien ou un chat. Son charme un peu incommode était ainsi d’être à la maison moins comme une jeune fille, que comme une bête domestique qui entre dans une pièce, qui se trouve partout où on ne s’y attende pas (Proust 1923, p. 17).

 

E ancora:

 

Étendue de la tête aux pieds sur mon lit, dans une attitude d’un naturelle qu’on n’aurait pus inventer, je lui trouvais l’air d’une longue tige en fleur q’on aurait déposée là, et c’était ainsi en effet: le pouvoir de rêver que je n’avais qu’en son absence, je le retrouvais à ces instants auprès d’elle, comme si en dormant elle était devenue une plante. […] Elle n’était plus animée que de la vie inconsciente des végétaux, des arbres, vie plus différente de la mienne, plus étrange et qui cependant m’appartenait davantage. […] Son moi ne s’échappait plus à tous moments, comme quand nous causions, par les issues de la pensée inavouée et du regard. Elle avait rappelé à soi tout ce qui d’elle était au dehors, elle s’était réfugiée, enclose, résumée, dans son corps (Proust 1923, pp. 92-93).

 

Nella rappresentazione di questo stato vegetativo e costrittivo, del quale il Narratore approfitta anche da un punto di vista sessuale in maniera piuttosto esplicita, è possibile rintracciare tutta la fascinazione necrofila, prettamente legata al male gaze, che accompagna buona parte della cultura letteraria e visuale occidentale (Bronfen 1992). Eppure, anche sotto l’addomesticamento più letale – il Narratore arriva a definire Albertine una ‘pesante schiava’ – si può annidare la possibilità di un suo sovvertimento, come sembra suggerire la poetessa e saggista Anne Carson nel suo The Albertine Workout (2014).

Come quasi tutte le opere dell’autrice canadese, anche The Albertine Workout è inclassificabile: plaquette poetica, raccolta di prose, indagine forense, analisi quantitativa, riflessione saggistica, questo poetry pamphlet è composto da 59 punti e 16 appendici che hanno come oggetto di trattazione, o come punto di partenza digressivo, il personaggio di Albertine (D’Angelo 2018). Due sono le direzioni principali entro cui si muove il volume, anche se innumerevoli sono i rivoli in cui si sfrangono le analogie carsoniane: da un lato un’analisi e una decostruzione della cosiddetta transposition theory, secondo cui il personaggio di Albertine costituirebbe una trasposizione letteraria del reale Alfred Agostinelli, autista di Proust di cui l’autore era innamorato e morto in un incidente aereo; dall’altro, viene sottolineata l’associazione proustiana tra la figura di Albertine e la vita vegetale all’insegna dell’addomesticamento, adombrandone tuttavia anche una possibile lettura in chiave rovesciata. Se è vero che Albertine, come ci ricorda Carson, dorme nel 19% dei casi in cui viene nominata nella Recherche (Carson 2019, p. 18), la voce della poetessa comincia a insinuare che proprio in quell’atteggiamento di totale remissione possa nascondersi un enorme bluff. Nell’introduzione all’edizione italiana del volume, Eleonora Marangoni individua un possibile avant-texte di The Albertine Workout in un passo di Red Doc, altro testo di Carson pubblicato nel 2013 profondamente influenzato dall’opera proustiana:

 

THINKING ABOUT
PROUST to pass the time.
What a scamp that Proust.
That Albertine. Does
anyone really believe the
girl stays asleep for four
pages in volume V while
Marcel roams around her
prostrate form and
stretches out beside it on
the bed. He touches her
lips strokes her cheek
presses his leg to her leg
then spends a long time
staring at the kimono
flung on a chair with all
her letters in the inside
pocket. Albertine
continuait de dormir. He
says he likes her better
asleep because she loses
her humanity and is just a
plant. A sleep plant that
cannot tell him lies or
escape his knowing. Poor
Marcel. What is there to
know (Carson 2013, p. 88).

 

Carson riprende le stesse riflessioni in particolare nei punti 25, 26, 27 e 29 di The Albertine Workout, insistendo sulle scene in cui il Narratore approccia fisicamente l’Albertine addormentata fattasi pianta, e lasciando intuire, seppur in maniera implicita, che il sonno di Albertine possa essere una messa in scena, come si evince dalla scelta lessicale del verbo: «Albertine appears not to wake up» (Carson 2019, p. 64, corsivo nostro). E in effetti, se sulla scia dell’insinuazione velata di Carson si rileggono proprio quelle pagine di La Prisonnière, si noterà come l’Albertine dormiente talvolta emetta, al tocco del Narratore, piccoli ansiti, respiri più affannosi, mezze parole – tra cui il nome dell’amica/amante Andrée –, movimenti nei quali non è difficile leggere una manifestazione del piacere erotico femminile. Carson sviluppa ulteriormente il nesso tra metamorfosi vegetale e sessualità femminile attivando un paragone tra l’Albertine proustiana e l’Ofelia shakespeariana. Se entrambi gli autori sembrano investire i due personaggi delle fantasie, piacevoli e orrorifiche insieme, legate all’oggetto sessuale, le due giovani donne sono costrette a distorcere il proprio piacere secondo un processo di auto-annullamento che in Hamlet assume i toni tragici del suicidio, mentre in La Prisonnière lascia intendere un principio di resistenza, una farsa che consente al soggetto femminile, seppur sotto mentite spoglie, di dare sfogo al proprio appetito sessuale, sfuggendo, al contempo, al processo inquisitorio del Narratore: «In both scenarios the man appears to be in control of the script yet he gets himself tangled up in the wiles of the woman. On the other hand, who is bluffing whom is hard to say» (Carson 2019, p. 68). Di fatto, Carson lascia aperta la riflessione sui rapporti di forza cui il gioco di messa in scena tra Albertine e il Narratore può condurre: «There are four ways Albertine is able to avoid becoming entirely possessable in volume 5: by sleeping, by lying, by being a lesbian or being dead» (Carson 2019, p. 116), ma «only the first three of these can she bluff» (Carson 2019, p. 118), e nell’Appendice 8 la morte di Albertine viene messa in correlazione con una possibile miopatia predatoria, una sindrome adrenalinica provocata dalla cattura e immobilizzazione prolungata di un animale.

 

4. Tracce immaginate di una veste da camera: le fotografie newyorkesi di Francesca Woodman

Prima che giunga al Narratore la notizia della morte di Albertine, la donna è riuscita da tempo a scappare dalla prigionia inflittale. Le ultime pagine di La Prisonnière prima della fuga lasciano già intendere un cambiamento profondo nel modo in cui Albertine reagisce alla propria cattività, un cambiamento marcato anche dall’abbigliamento con cui il personaggio si presenta di fronte al Narratore. Quest’ultimo le ha infatti regalato nel frattempo alcuni vestiti Fortuny. La fascinazione per lo stilista spagnolo trapiantato a Venezia è stata giustamente ricollegata all’attrazione che il Narratore nutre per la città lagunare, verso la quale medita da tempo di intraprendere un viaggio (Macé 1987). Grazie anche alla mediazione del pittore Elstir, che aveva introdotto sia il Narratore che Albertine al gusto per le creazioni di Fortuny, i suoi abiti si ammantano di un potere ammaliante che rimanda alternativamente a un passato mitico, ai tesori d’Oriente e ai colori veneziani, definendo al contempo in maniera inconfondibile anche la personalità della donna che li indossa – è lo stesso Narratore a riflettere su questo aspetto nelle prime pagine di La Prisonnière –. Quelle regalate ad Albertine sono tutte vesti da camera, genere nel quale lo stilista veneziano andava eccellendo: abiti dunque pensati per essere indossati in casa – come il famoso abito Delphos, ispirato probabilmente alle sculture delle korai dell’antica Grecia e contraddistinto da una plissettatura finissima che ne emulava il peplo (Byatt 2016) –, il che sembra accostarsi perfettamente al processo di addomesticamento della giovane donna. Non è allora forse casuale che la sera in cui Albertine manifesta un primo effettivo gesto di ribellione, rifiutandosi di baciare il Narratore e di spogliarsi accanto lui, sia la stessa in cui decide di indossare per la prima volta la veste da camera Fortuny azzurro e oro con le maniche foderate di rosa che i due avevano scelto insieme. Dentro le pieghe dell’abito, d’un blu intenso sul quale spiccano gli arabeschi dorati e le maniche foderate di un rosa tiepolo, Albertine si rinchiude nella propria autonomia, privando il Narratore del tanto agognato contatto fisico. Proprio come le vesti Fortuny marcavano la peculiarità e la personalità di chi le indossava – tanto che Isadora Duncan o Peggy Guggenheim le portavano con disinvoltura anche in pubblico –, così Albertine sembra rovesciare di segno il tentativo ornativo del Narratore, trasformando quello che per lui doveva essere uno strumento di seduzione in un simbolo di autoaffermazione.

Se le coincidenze possono tradire l’ossessione di chi le trova, ma qualche volta si rivelano anche bagliori inaspettati che aprono scenari impensati, possiamo lasciarci trasportare dalle suggestioni che alcune fotografie di Francesca Woodman evocano alla luce del fantasma di un’Albertine di Fortuny ammantata. A favorire tale accostamento provvedono numerose affermazioni della fotografa statunitense, che in più di una lettera ad amici, ma anche a potenziali collaboratori, dichiara il proprio debito nei confronti della letteratura, in particolare francese, tra cui spicca il nome di Proust (Casetti e Stocchi 2011; Woodman 2021). I riferimenti alla Recherche si fanno più numerosi in concomitanza con il rientro di Woodman a New York nel 1979, anno cui corrisponde una serie di fotografie scattate nel suo appartamento ancora spoglio. La serie è tra le pochissime a colori – Woodman ha infatti lavorato principalmente in bianco e nero – e nell’eccezionalità dell’esperimento appaiono ancora più sorprendenti alcuni elementi che si pongono in un perturbante parallelismo con le pagine proustiane. Woodman si autoritrae, come di consueto, e lo fa all’interno di una casa pressoché disabitata, in cui compaiono pochissimi complementi d’arredo, tra cui due specchi e una sedia. La figura femminile, questa volta non nuda ma vestita con un completo dal sapore vintage per l’epoca, si disloca nello spazio domestico ora in atteggiamento di studio – come per gli autoritratti allo specchio insieme alla macchina fotografica su cavalletto –, ora in gesti performativi di fuga. In un’immagine Woodman è addossata a un angolo della parete nell’atto di nascondersi il viso con un braccio – anche se in tralice guarda dritto in camera [fig. 3]; in un’altra si arrampica sullo stipite di una porta, quasi a mettere in atto un principio di evasione [fig. 4], come suggerisce anche la posa in equilibrio orizzontale su una sedia di un altro scatto, in un’esibizione di forza atletica [fig. 5]. Se il posizionamento del corpo si può apparentare tematicamente alla rappresentazione di un desiderio di fuoriuscita dalla chiusura delle pareti domestiche, altri due dettagli creano una trama di sottili corrispondenze con le pagine di La Prisonnière. I colori delle pareti dell’appartamento – un celeste brillante contornato da stipiti rosa pastello – vengono sapientemente ripresi in quelli dell’abbigliamento di Woodman, vestita con un tailleur color carta da zucchero e con un nastro rosa tra i capelli. Sono proprio le stesse tinte della veste da camera Fortuny indossati da Albertine. Inoltre, la gonna di Woodman è contraddistinta da una fitta plissettatura, che soprattutto nello scatto del corpo in orizzontale sembra richiamare la scanalatura delle colonne o delle statue delle cariatidi, su cui Woodman stava forse già lavorando per il suo Temple Project, basato proprio sulla rilettura della statuaria antica. Un richiamo, questo, che sembra evocare anche l’abito iconico di Fortuny, il Delphos, che una giovane artista come Woodman, conoscitrice della cultura figurativa italiana, appassionata di avanguardie e alle prese pure con la fotografia di moda poteva in effetti conoscere senza troppa immaginazione. Forse siamo di fronte all’ennesimo tentativo di liberare, nella potenza evocativa delle immagini di Woodman, una nuova figurazione di quel fantasma imprendibile che è Albertine Simonet.

 

*Si ringraziano per la collaborazione CSC-Archivio Nazionale Cinema Impresa, Associazione Archivio Storico Olivetti e Woodman Foundation.

 

Bibliografia

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