Scriveva George Steiner nei primi anni Ottanta che, se dal 1790 alla fine dell’Ottocento era stato il tempo di Antigone, all’inizio del Novecento Edipo avrebbe preso il posto della figlia come protagonista delle riproposizioni del ciclo dei Labdacidi.[1] Una simile tesi, discutibile già quando fu formulata, oggi appare ancora più difficile da sostenere, tale è stata la fortuna della principessa tebana nella seconda metà del secolo XX e oltre: furiosa, indignata, antagonista, pietosa, Antigone ha rivestito un ruolo di primissimo piano sulla scena e sullo schermo contemporanei, così come nella scrittura, e non solo in Europa, ma anche in inediti contesti postcoloniali. A questo successo letterario-artistico si è accompagnata una non meno vasta discussione filologica, etica, politica e giuridica, cosicché si può affermare che, sebbene costretta dalle circostanze alla tomba e al suicidio, Antigone gode in questo inizio di nuovo millennio di ottima salute.[2]
È nel contesto di tale ricchissima rete di riscritture e riletture che si inserisce la terza monografia che Sotera Fornaro, docente di Letteratura greca all’Università di Sassari, ha dedicato al personaggio, dopo Antigone. Storia di un mito, una ragionata guida alla ricezione della figlia di Edipo nella cultura occidentale (Carocci, 2012), e L’ora di Antigone dal nazismo agli anni di piombo (Narr, 2012), studio sulle riprese della figura nella cultura tedesca fra gli anni Trenta e gli anni Settanta, accompagnato dalla traduzione di testi inediti in Italia. A conferma di una passione intellettuale pronta a cogliere di Antigone in primo luogo la capacità di suscitare domande scomode e persino inquietanti all’interno del confuso scenario politico del presente, Antigone ai tempi del terrorismo. Letteratura, teatro, cinema (Pensa Multimedia, Lecce-Brescia, 2016) mette la sorella di Polinice più specificatamente a contatto con le questioni, fra di loro correlate, della sepoltura dei nemici e della lotta armata, ampliando cronologicamente e geograficamente l’area di indagine del libro precedente: non più solo la Germania, ma anche l’Europa, e poi gli Stati Uniti e il Canada, il Medio Oriente, l’Afghanistan.
Il primo capitolo Corpi di Stato, che prende il titolo dalla pièce di Marco Baliani del 1998, entra subito in medias res mettendo a confronto il tema del «cadavere politico» (p. 10) con le vicende similari di Martin Schleyer e Aldo Moro, i cui corpi rimasti metaforicamente insepolti dagli anni Settanta hanno segnato il fallimento dello Stato e della politica che dovrebbe essere espressione della sua vita civile, nonché delle spinte rivoluzionarie scaturite dai movimenti studenteschi del Sessantotto. Emblematici, fra le varie opere citate da Fornaro, proprio Corpo di Stato di Baliani, in cui «il funerale metaforico a cui Antigone attende, si svela […] il rito di una generazione che seppellisce il proprio sogno politico» (p. 12) cercando di venire a patti con gli inevitabili sensi di colpa, e Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo (2013), che legge l’affaire Moro attraverso le lenti del conflitto fra Antigone e Creonte, ma al contempo destabilizzando una simile opposizione paradigmatica nel rilevare che «l’onestà di tutti i Creonte» (p. 15) nel 1978 era ormai compromessa. Aggiunge la studiosa, tenendo conto anche delle posizioni di Sciascia, che lo stesso Moro «era piuttosto un Creonte vittima di se stesso e di quello Stato che rappresentava» (ibidem); di qui il dubbio «se solo la rinuncia vicendevole a parte delle proprie ragioni non costituisse allora e non costituisca oggi l’unica via praticabile per uscire da uno stato d’emergenza determinato dalla diffusione del terrore» (p. 17). Si tratta di un passo in cui Fornaro anticipa ciò che più esplicitamente affermerà nell’Epilogo provvisorio del volume, e cioè che ai suoi occhi Antigone è personaggio ambivalente, che non si può elevare ad assoluto modello di pietas a meno che, come si è fatto, non si espungano gli attributi non in linea con il profilo che si vuole preservare.
Una simile complessa concezione del personaggio guida l’analisi dei due film di Marco Bellocchio Buongiorno, notte (2003) e Diavolo in corpo (1986) cui è dedicata una corposa parte del primo capitolo. Se nel film più tardo le contraddizioni di Antigone appaiono incarnate dalla tormentata figura di Chiara, terrorista figlia di un partigiano che giunge a provare pietà per il prigioniero Moro, l’opera precedente racconta «l’evoluzione sentimentale di una generazione obbligata a confrontarsi col passato recente e con il trauma che ne derivava» (p. 37) e, nel far questo, attinge con citazioni e allusioni all’immaginario classico, in particolare antigoneo. Giulia, la protagonista, «rappresenta l’essere umano nudo, esposto nella sua fragilità» (p. 56), senza una collocazione definita nel mondo: è ‘l’anello che non tiene’ e mette in crisi chi entra in contatto con lei, ricordando, nella sua valenza di folle outsider, la condizione di meteca di Antigone, di cui l’eterodosso approccio psicoanalitico del film, legato alla discussa collaborazione del regista con Massimo Fagioli, accentua l’irruzione irrazionale nel sistema sociale borghese. In ciò, «Giulia/Antigone diventa anche la figura simbolo della fantasia, della creatività, della trasgressione: elementi ridotti, nella società post-terroristica, a patologia da inibire con i farmaci della coesione sociale e della fermezza dei ‘valori’» (ibidem).
Il primo capitolo inizia a mettere in campo il tema che diverrà centrale nel successivo, Antigone la terrorista?: il ruolo delle donne nell’ambito del terrorismo che, già al centro della stagione antigonea degli anni Settanta – si pensi ad Anni di piombo di Margarethe Von Trotta (1981) –, viene qui posto a contatto con la violenza islamica di matrice integralista. Punto di partenza è Que faire des corps des dijihadistes? Territore et identité della sociologa Riva Kastoryano (2015): corpi spesso rifiutati dalle autorità ai familiari che ne chiedono la restituzione, ma che nessuno, nel Paese colpito dall’attentato, vuole seppellire nel proprio cimitero, similmente a quanto accadde a Gudrun Ensslin e agli altri militanti della RAF ‘suicidati’ in Germania nel 1977. In tale prospettiva, l’ostinazione di Antigone diviene l’archetipo della determinazione con cui i parenti reclamano il cadavere del fratello nemico dello Stato, scatenando reazioni contrastanti nell’opinione pubblica – «Un attentatore non provoca pietà, ma risentimento. Che una sorella continui a provare amore e un legame profondissimo verso il fratello, benché un terrorista, induce quasi al disgusto» (p. 57) –, ma anche costituendo il presupposto di profonde riflessioni etiche per chi abbia la sensibilità e la pazienza di andare oltre la rabbia e le narrazioni mainstream. Fornaro ha il merito di convocare sul tema lavori poco noti in Italia, come il romanzo The Watch di Joydeep Roy-Bhattacharya (2012), che pure è stato tradotto con il titolo L’attesa. La storia, ispirata a un episodio reale, racconta di una ragazzina afghana mutilata che ha compiuto un faticosissimo viaggio per chiedere la restituzione del corpo del fratello attentatore a un comando americano: niente la distoglie dal suo proposito, finché il capitano della base la fa uccidere da un tiratore scelto, nonostante fra l’Antigone col burka e i soldati si fosse creata «una forte empatia» (p. 76). La morte di Nazim fa da pendant a quella di un altro personaggio: il luogotenente umanista Nick Frobenius, il vero eroe tragico del romanzo, che porta lo stesso cognome dell’etnologo tedesco, «controfigura dell’Ettore omerico» (p. 77), che invano aveva prestato le tragedie di Sofocle al capitano affinché ne traesse ispirazione per il proprio comportamento. Più in profondità, i molteplici riferimenti all’Antigone mirano a rappresentare il devastante scacco dell’Occidente nella guerra in Medio Oriente: «il mondo dell’Afghanistan risulta […] un mondo a parte, sconosciuto agli occupanti stranieri» (p. 80) in quanto gli sforzi, pur generosi, di conoscerlo rimangono velleitari e fuori fuoco, imbevuti di storia antica e idealismo umanistico.
In tale direzione, non meno rilevanti appaiono la pièce Antigone. Nach Sophokles della drammaturga di origine israeliana Yael Ronen (2008), che liberamente contamina la tragedia greca col modello di Anouilh, per sottolineare come la ribellione alla legge scardini l’iniziale processo di integrazione della protagonista nella cultura europea, o i lavori di Theodorus Terzopoulos: la messinscena del dicembre 2015 a New York «che appartiene ai ghetti dei neri» (citato a p. 66) e il successivo progetto Unburied Bodies, che vuole intervenire sul fatto che «il nostro tempo trabocca di ‘corpi insepolti’, da quelli dei migranti dispersi nel mare o in altre vie dell’esodo, ai corpi dei kamikaze che lasciandosi esplodere si privano della sepoltura, alle vittime degli attentati di massa, come gli sfortunati passeggeri della Malaysia Airlines» (ibidem). Si nota, peraltro, in questi lavori, una tendenza alla contaminazione e all’intermedialità che è tipica di molte recenti riscritture e messinscene del dramma sofocleo, costituendo la cifra più evidente dell’attualizzazione del mito classico, come si vede anche nel Progetto Syrma Antigone di Motus (2008-2010).[3] Per restare tuttavia agli esempi analizzati da Fornaro nel volume, questo fenomeno riguarda sia Antigonick (2012), il libro in cui la poeta e classicista canadese Anne Carson smonta il testo sofocleo arricchendolo di citazioni moderne e mettendolo in dialogo con immagini e disegni, sia le opere al centro del terzo capitolo Teatri di Antigone, come Nirgends in Friede, Antigone (Mai in pace: Antigone, 2015) di Darja Stocker. La drammaturga tedesca procede, in particolare, a una triplicazione del personaggio la cui scomposta plurivocità è volta a rappresentare alcune tra le questioni più urgenti del presente: «le primavere arabe, la crisi economica, il terrorismo, il dramma dei migranti, persino la tematica di ‘genere’» (p. 81). Tuttavia, secondo Fornaro, il testo non evita un «eccesso di declamazione» (p. 88), mentre meglio funziona la messinscena che, come già in Ronen, procede nella direzione di una contaminazione popular: «video, titoli giornalistici, una manifestazione di protesta in scena, contribuiscono all’impatto emotivo sul pubblico, a quel risveglio delle coscienze che costituisce lo scopo ultimo di questo progetto drammatico» (ibidem).
La diffusa decostruzione del personaggio, che, più che riambientare, disambienta in contesti attuali la sua vicenda[4], deriva dalla stessa libertà interpretativa che muove i casi presi in esame nel primo capitolo e contribuisce a circoscrivere l’attributo di Antigone che più interessa all’autrice enucleare. Già a proposito di Diavolo in corpo di Bellocchio, Fornaro menzionava i vv. 376-378 della tragedia sofoclea, in cui il Coro afferma: «sono in dubbio se questo non sia un prodigio demoniaco: come vedendola potrò contraddire il fatto che non si tratti della fanciulla Antigone?» (citato a p. 55). L’espressione in corsivo traduce teras daimonion, che allude a una mostruosità sulla quale più esplicitamente la studiosa ritorna nell’Epilogo provvisorio, quando l’irruente piglio e la voluta asistematicità del libro lasciano il posto a una più distesa argomentazione, per mostrare come l’interesse per Antigone non nasca da un’incondizionata simpatia per il personaggio, bensì dalla rilevazione delle conseguenze etiche e politiche della sua condizione di monstrum. Perché «teras significa ‘segno’, ma ‘segno’ terribile. Mostruoso, gravido di violenza, mandato dagli dei per annunciare sventura» (p. 113): siamo al cospetto di un’Antigone che ha un’ascendenza hölderliniana più che hegeliana, un’Antigone queer non tanto e soltanto nell’inscenare un’infrazione di genere quanto nel riportare alla luce il rimosso barbarico che giace nel profondo della nostra civiltà.
Non a caso, l’accento sulla mostruosità di Antigone è al centro delle disambientazioni che puntano sul carattere folle del personaggio; ad esempio, nello spettacolo edimburghese del 2015 con regia di Ivo Van Hove e traduzione della già citata Anne Carson, «la ‘follia’ di Antigone irrompe nelle immagini video proiettate in scena che rappresentano il caos mutevole del suo inconscio: lo spazio proprio di Antigone sarebbe così quello indecifrabile della pazzia, in cui annega anche ogni definizione stabile dell’‘io’ e del ‘sé’» (p. 60). Fornaro, però, non vuole meramente aderire a questa caratterizzazione, rilevante ma non esente dal rischio di redimere paradossalmente la mostruosità in delirio: «Antigone, nella tragedia di Sofocle, non perde di consapevolezza, al punto da augurare, se non è nell’errore, che soffrano le sue stesse sventure coloro che l’hanno condannata (v. 928)» (p. 32). Allo stesso modo, la triplicazione di Antigone in Stocker non è il segno di una schizofrenia del personaggio, bensì la messa in scena, letteralmente, del conflitto delle interpretazioni nella ricerca della verità, che «nel caos mediatico […] costituisce dunque un coraggioso atto di resistenza» (p. 82). Di qui il nesso, reso possibile proprio dalla mostruosità di Antigone, fra etica e politica: «il mito, cioè, non è finzione e non lo è mai stato: è invece il ponte talora necessario che collega attualità (i diversi piani dell’attualità) ed etica, fornendo alla prima gli esempi utili per interpretarla ma soprattutto le indicazioni comportamentali per viverla» (p. 92). In questo Fornaro trova corrispondenza nelle parole della drammaturga siciliana Lina Prosa, per la quale, attuando il modello di Antigone, incentrato più sul corpo che sulla dialettica verbale, «il teatro non può essere che politico, ed in particolare non può essere che teatro della testimonianza, della resistenza, del richiamo alla coscienza» (p. 93). Ne offre una drammatica dimostrazione il film documentario Art/Violence (2013), frutto di un progetto collettivo ebraico-palestinese nato in memoria di Juliano Mer-Khamis, fondatore nel 2006 del Freedom Theatre del Campo Profughi di Jenin in Cisgiordania e assassinato proprio mentre stava preparando «una Antigone in Jenin, in cui la questione palestinese si intrecciava a quella dei diritti delle donne nel mondo arabo» (p. 107).
Al di là dei singoli casi presi in esame, è in questa mostruosità politica di Antigone che risiede il cuore interpretativo del volume di Fornaro, una mostruosità che, secondo l’autrice, non esclude la violenza: «Si dirà ancora: Antigone non uccide. Relativamente vero, perché Antigone uccide l’unica persona che ha possibilità di uccidere, se stessa, e tra l’altro in circostanze inspiegabili» (p. 115), senza contare che riconosce «di aver usato violenza ai cittadini (v. 906)» (citato ibidem) e si produce nel già citato malaugurio dei vv. 927-928. Questo può essere un punto interpretativo controverso, che stride con la pietas o la philia di Antigone, connotazioni che hanno avuto senza dubbio più fortuna; tuttavia, si deve riconoscere che l’Antigone del nuovo millennio deve fare necessariamente i conti con la sua inquietante molteplicità di attributi e caratterizzazioni. Si può anzi affermare che qui si consumi appieno il passaggio dalle riprese allegoriche di Antigone alle riprese performative, ossia da riscritture, riletture e nuove messinscene che privilegiano una lineare incarnazione nel personaggio di un concetto, una categoria, un valore – come la rilettura hegeliana del conflitto fra la principessa e Creonte – a riusi più aperti e drammatici, più consoni alle ibridazioni di codici e linguaggi della cultura del XXI secolo, che qualificano la ricezione dei lavori dedicati ad Antigone come performance, in grado di coinvolgere l’esperienza degli spettatori e dei lettori.[5]
È quello che si può vedere raffigurato nel film Ein Geschenk der Götter (Un dono degli dei, 2014) di Oliver Haffner, in cui i disoccupati protagonisti si trovano obbligati dall’ufficio di collocamento a seguire un corso di teatro, a sua volta tenuto da un’attrice senza lavoro, che prevede una recita dell’Antigone. Superato il primo impatto ostile, i vari personaggi scoprono che «i versi dell’Antigone riescono a dire a ciascuno qualcosa di se stesso» (p. 99) e totale è la loro delusione quando scoprono che sono terminati i fondi per il progetto: «il gruppo si ritrova, in questa impari lotta contro il sistema, a comprendere le ragioni di Antigone. Mettere in scena la tragedia significa affermare un diritto non scritto, sancito da leggi ‘di Dio’, rispetto alla tirannia della forza che tutto muove, il denaro» (p. 100). La relazione che i personaggi instaurano con il testo ricorda per certi versi Antigone a Scampia di Serena Gaudino (2014), in cui l’autrice racconta la sua esperienza con le donne del quartiere napoletano, che per una anno si sono incontrate nella locale biblioteca condividendo un percorso vissuto di teatro. Gli incontri non hanno condotto a una versione definitiva e circoscritta del significato da attribuire al personaggio, ma ne hanno rilanciato la significatività attraverso domande che squarciano ogni rapporto accademico e pacificato ai classici: «Antigone era anche un po’ maschio? – E quanta voglia aveva di morire Antigone? – O era morta già quando era viva? – Allora saremmo tutti fuorilegge se facessimo prevalere la legge del sangue su quella dello Stato? […] – Antigone, allora, potrebbe essere una donna di camorra?».[6] Domande che con l’urgenza spregiudicata con cui interrogano il personaggio sofocleo lo calano – lo disambientano – nella realtà del degrado e della violenza di Scampia, conducendo all’estremo quella malleabilità che fonda il mostruoso disordine innescato da Antigone. Siamo, per citare le ultime parole del volume di Fornaro, nel cuore della «necessità di trovare in noi la barbarie, di riconoscerla, di vincerla» (p. 116)
1 Le Antigoni [1984], Milano, Garzanti, 1991, p. 27.
2 Più che legate a fasi diverse della ricezione del mito classico nella contemporaneità, Antigone ed Edipo re coesistono nel Novecento come modelli di «due diverse visioni del tragico» (S. Fornaro, ‘Il disordine di Antigone’, in C. Cao, A. Cinquegrani, E. Sbrojavacca (a cura di), Maschere del tragico, Between, VII, 14 (novembre 2017), http://www.betweenjournal.it [accessed 12 February 2018]): «La prima esprime quella visione del tragico per la quale l’individuo commette un errore, un’amartia, e diventa vittima della sua stessa ansia di sapere la verità: l’Edipo Re è insomma la tragedia della conoscenza. La seconda, invece, esprime quella visione del tragico per la quale l’individuo entra in conflitto con la comunità, ed oppone una legge familiare e intima alle leggi dello Stato: conflitto che non si sviluppa solo su un piano esterno, cioè pubblico, dell’essere umano che consapevolmente infrange il nomos, la norma riconosciuta dalla comunità; ma che – a seconda dell’importanza che si dà alla soggettività nella visione tragica – diventa anche lacerante conflitto interiore, dell’individuo cioè dilaniato tra due ugualmente legittimi nomoi, tra la ‘coscienza’ (in senso moderno) e lo Stato» (ibidem).
3 Cfr. M. Giovannelli, ‘Antigone: dal mito al teatro, dal teatro al mito’, Dike. Rivista di storia del diritto greco ed ellenistico, XVII (2014), pp. 91-100, http://riviste.unimi.it/ index.php/Dike [accessed 3 March 2018]; S. Rimini, ‘Il mito in rivolta. Motus e il Progetto Syrma Antigónes’, Dioniso. Rivista di studi sul teatro antico, 2012, pp. 341-365.
4 Riguardo al concetto della disambientazione, mutuato dal volume Alice disambientata di Gianni Celati (1977), «se mira a indicare lo sradicamento della vicenda antigonea dal contesto di partenza, non di meno vuole sottolineare la reciprocità del rapporto: anche il presente risulta mutato e straniato dall’intervento mitologico. Laddove ‘ambientare” o ‘riambientare’ si fanno carico di una visione più statica e risolta, con ‘disambientareʼ la relazione aspira ad essere più dinamica e inquieta, più dialogica e interrogante, al punto che potremmo anche mettere in discussione quale sia in effetti il punto di partenza e quale quello di arrivo, se, cioè, venga prima Tebe o Scampia» (E. Porciani, Nostra sorella Antigone. Disambientazioni di genere nel Novecento e oltre, Catania. Villaggio Maori, 2016, p. 8).
5 Cfr. Eadem, ‘Allegoria. Performatività e disambientazione nella ricezione femminile dell’Antigone di Sofocle’, in P. Del Zoppo, G. Lozzi (a cura di), Ragionare sul mito tra studi di genere, politica e diritto – Über den Mythos reflektieren zwischen Gender Studies, Politik und Recht, Studi germanici, in corso di pubblicazione.
6 S. Gaudino, Antigone a Scampia, Milano, Il primo amore, 2014, pp. 80-81.