«Restò sempre legato a Elsa De Giorgi […]. A lei, con una divertita soggezione, dedicava – e la cosa durò anni – alcune serate. Andavano a cena fuori: […] Elsa De Giorgi, che amava stendere attorno a sé un qualche alone di spettacolo […], lasciava che alle labbra le venisse, con una foga insolita, certa cultura classica che amava coltivare. Pier Paolo ascoltava» (Siciliano 2005, p. 233): ricordato dalle parole di Enzo Siciliano, il rapporto tra Pier Paolo Pasolini e Elsa de’ Giorgi rientra fra le amicizie instaurate dallo scrittore nella Roma degli anni Cinquanta e Sessanta. Nel 1963 l’autore coinvolge l’attrice-scrittrice nelle riprese della Ricotta assegnandole – e la scelta non appare casuale – il ruolo di una delle dive che, insieme ai paparazzi, irrompono sul set alla fine dell’episodio, ma le relazioni tra il poeta-regista e de’ Giorgi si riflettono, in parte, anche nelle rispettive attività letterarie. Seguendo infatti i rimbalzi suggeriti dalle loro produzioni narrative, poetiche e saggistiche, si scopre che la diva si è rivolta a Pasolini sul finire degli anni Cinquanta per chiedergli di intercedere con Garzanti per la pubblicazione della sua seconda prova narrativa, L’innocenza, poi uscita nel 1960 per una casa editrice veneziana, Sodalizio del Libro; due anni dopo l’autore scrive una prefazione in forma di lettera al testo poetico dell’attrice La mia eternità e, mettendone in evidenza la pregnante metaforicità, rivolge all’opera di de’ Giorgi un’attenzione critica (cfr. Pasolini 2008a). L’artista, dal canto suo, dedica a Pasolini, dopo la sua morte, il poemetto del 1977 Dicevo di te, Pier Paolo.
Quelle appena enucleate sono solo alcune dimostrazioni del dialogo intrecciato dall’autore con la diva, lungo una serie di scambi che culmina, nel 1975, con il coinvolgimento di de’ Giorgi nella realizzazione di Salò o le 120 giornate di Sodoma, dove l’attrice veste i panni di una delle narratrici, ossia l’impudente signora Maggi [fig. 1].
Il film estremo di Pasolini si colloca in un momento in cui anche le scelte tecniche hanno subito un’evoluzione e presenta peculiarità che per varie ragioni lo differenziano da diverse opere cinematografiche precedenti e dalle prime pellicole in particolare. Si pensi a quanto distanti siano in Salò, rispetto alle soluzioni estetiche rinvenibili, ad esempio, in Accattone (1961), la compattezza formale delle sequenze, le rigorose geometrie disegnate dai corpi degli interpreti disposti nella cornice dello schermo, il minore spazio riservato, nei dialoghi, all’improvvisazione. Si tratta di un film che Pasolini ha desiderato, stando alle sue stesse parole, «perfetto, esatto come un cristallo» (Pasolini 2001e, p. 3023). All’interno di un’opera in cui nulla, secondo la volontà dell’autore, sembra essere lasciato al caso, viene da chiedersi quali siano le motivazioni soggiacenti alla presenza di de’ Giorgi nel film e lungo quali traiettorie possano essere ricercati gli scarti di senso cui dà vita la sua recitazione.
Su un piano generale, nel momento in cui Pasolini dà avvio al proprio lavoro da cineasta, è nota la sua predilezione per gli attori non professionisti, per interpreti che – in forza di un linguaggio, quello del cinema, che consente all’autore di porsi allo stesso livello della realtà – vengono «scelti nella vita, a caso, vale a dire scelti per quanto mi sembrano esprimere a loro insaputa» (Pasolini 2012a, p. 1516). I criteri di selezione degli attori, in particolar modo nelle prime pellicole del poeta – da Accattone e Mamma Roma (1962) fino, almeno, al Vangelo secondo Matteo (1964) – possono essere dunque sintetizzati nelle dichiarazioni in cui lo scrittore afferma, nell’intervista del 1968 Pasolini su Pasolini curata da Jon Halliday, «io scelgo gli attori per quello che sono realmente» (Pasolini 2012b, p. 1320); oppure ancora, sempre nello stesso anno, «scelgo un attore per quello che è e non per quello che ha l’abilità di sembrare» (Pasolini 2001b, p. 2934).
Le affermazioni di Pasolini invitano pertanto a tener presente una fondamentale linea di continuità, nella lettura dei suoi film, tra le persone reali e i personaggi incarnati sullo schermo. E sebbene, com’è già stato accennato, Salò o le 120 giornate di Sodoma si situi ovviamente in una fase matura dell’attività cinematografica dell’autore, tale rapporto di contiguità tra gli attori, siano essi professionisti o meno, e i ruoli interpretati può costituire una chiave di lettura privilegiata anche della performance recitativa di de’ Giorgi nel film del 1975. Del resto, in sostanziale coerenza con tale assunto di base si pone pure quella «penetrazione psicologica» (Pasolini 2012a, p. 1515) di cui Pasolini ha parlato a proposito del ‘reclutamento’ di attori e attrici tra le sue amicizie, e che non sarà fuorviante ricondurre a una cifra autoriale che si annida e trova espressione congeniale nella ‘verità’ rappresentata dai personaggi. Richiesto, ricercato tanto negli attori presi dalla strada quanto negli interpreti di professione, «quel momento di verità, che può essere […] lampeggiato nello sguardo» (Pasolini 2001d, p. 3016), rappresenta un fattore dirimente nelle scelte di casting firmate da Pasolini, nell’alveo di un immaginario espressivo al quale Elsa de’ Giorgi non appare estranea, tanto più se si considera la natura ‘ibrida’ della star – partecipe sia dell’attore che del personaggio – così come è stata teorizzata da Morin (cfr. Morin 2021, p. 36).
A un livello più immediato, uno sguardo alla figura della signora Maggi proiettato in parallelo con la biografia dell’interprete restituisce interessanti consonanze tra la sofisticata disinvoltura che accompagna il monologo della narratrice, tra le sue doti performative esibite nel salone del palazzo, e l’anima da salonnière di de’ Giorgi. A partire dagli anni Quaranta e per un lungo arco di tempo, la diva ha presieduto salotti culturali – come quello della casa romana di via di Villa Ada 4 – in cui diversi esponenti della scena intellettuale e artistica italiana del Novecento, compreso Pasolini, hanno incrociato le loro esistenze. Si tratta di un aspetto dell’attività culturale dell’autrice che ne ha profondamente contrassegnato l’immagine pubblica, sedimentandosi nella percezione di quanti l’hanno conosciuta.
Tuttavia, la costruzione del personaggio della conteur in Salò, che pure si giova della carismatica personalità dell’attrice, non si risolve certo in un rispecchiamento automatico tra le due figure, ma chiama in causa un più complesso scenario divistico e risulta legata, in maniera imprescindibile, a un processo di risemantizzazione della performance attoriale di de’ Giorgi, nonché a una intenzionalità espressiva di impronta pasoliniana. Balza in primo piano, anche riguardo alla partecipazione della diva nel film preso in esame, quindi, la necessità di ricercare quegli «elementi di intertestualità» e quel «sottotesto ricco di sfumature» che Stefania Rimini e Maria Rizzarelli, in un contributo che per la prima volta si focalizza esplicitamente sulla teoria pasoliniana dell’attore, hanno individuato come peculiari della «figura attoriale» vista e diretta dal regista (Rimini, Rizzarelli 2021, p. 96).
Per procedere più agevolmente in questa direzione, si ritiene opportuno ampliare la prospettiva e passare da un’indagine sul singolo personaggio a una sua possibile lettura entro il sistema di relazioni con i ruoli affini, e dunque con le altre narratrici. Malgrado gli scambi tra Pasolini e de’ Giorgi – in prevalenza concentrati, in effetti, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta – esigua appare per altro la quantità di testimonianze che facciano specifico riferimento alla figura della signora Maggi (un commento al film contenuto in un articolo dell’attrice-scrittrice pubblicato nel 1993 sulla rivista Lengua non aggiunge molto a livello critico; cfr. de’ Giorgi, 1993). Sul fronte delle dichiarazioni di Pasolini, invece, una chiave interpretativa proviene da un accenno alle figure delle «“megere”» che scandiscono le sequenze di Salò contenuto nello scritto ‘Il sesso come metafora del potere’, apparso sul Corriere della Sera il 25 marzo del 1975, poche settimane dopo l’inizio delle riprese del film. In quell’intervento, redatto nella forma di una autointervista, lo scrittore anticipa che le narratrici «saranno tre bellissime donne (la quarta nel mio film fa la pianista, perché i Gironi sono appunto tre): Helene Surgère, Caterina Boratto e Elsa de’ Giorgi. La pianista sarà Sonia Saviange» (Pasolini 2001c, p. 2067).
Volendo leggere le affermazioni di Pasolini in controluce con gli aspetti peculiari dell’immagine divistica di de’ Giorgi, emerge senz’altro il riferimento alla bellezza, refrain ricorrente nella rappresentazione pubblica della figura dell’attrice e tematica dominante all’interno della sua stessa produzione letteraria. Problematizzando attraverso la scrittura gli stereotipi legati alla propria star persona, l’autrice ne ha recuperato i tratti salienti e ne ha offerto una personale rilettura funzionale all’affermazione del proprio punto di vista, talvolta a partire dalla soglia del testo, come avviene nel romanzo autobiografico del 1970 Storia di una donna bella. Ma al di là delle spie linguistiche riconducibili a un’area semantica – come anche a un immaginario – che potrebbe dare luogo a ulteriori approfondimenti pure in relazione al corpus ‘divagrafico’ di de’ Giorgi, ossia a una scrittura letteraria strettamente connessa alla costruzione del sé, l’autointervista rilasciata da Pasolini al Corriere della Sera offre nelle righe successive altri interessanti indizi circa il coinvolgimento delle interpreti – in particolare di Hélène Surgère nelle vesti della signora Vaccari e di Sonia Saviange nel ruolo della pianista ma, indirettamente, come vedremo, anche di Elsa de’ Giorgi – nel cast di Salò. «Le due attrici francesi le ho scelte», spiega l’autore, «dopo aver visto a Venezia il film Femmes Femmes di Vecchiali: bellissimo film in cui le due attrici, per restare nel contesto linguistico francese, sono “sublimi” (ma veramente)» (ibidem).
Femmes Femmes mette in scena le situazioni in cui si trovano ad agire e a dialogare due attrici non più giovani ed entrambe oramai in rapida discesa sulla via del declino, nonostante una di loro continui a lavorare. Si tratta di un film che ha molto colpito Pasolini, che per altro ha avuto modo di esprimere il suo apprezzamento nel corso del dibattito seguito alla proiezione di Femmes Femmes a Venezia nel 1974. Il poeta-regista poi, all’interno di Salò o le 120 giornate di Sodoma, non si limita ad assegnare un ruolo alle protagoniste, ma cita esplicitamente il film di Vecchiali facendone recitare una scena alle due attrici francesi.
Come ha notato Roberto Chiesi, Femmes Femmes rappresenta un «omaggio al cinema francese degli anni Trenta» (Chiesi 2012); un omaggio rivolto anche a un panorama divistico che si esprime attraverso le numerose fotografie di stelle del cinema che arredano le pareti dell’appartamento in cui vivono le due donne [fig. 2]. Oltre a raffigurare le icone sulle quali, come evidenzia ancora Chiesi, i due personaggi principali della pellicola di Vecchiali «hanno proiettato le loro illusioni» (ibidem), le fotografie rivestono una funzione diegetica, poiché inframmezzano in inquadrature isolate le scene e i dialoghi dando vita quasi a delle vere e proprie alternanze di campo e controcampo che marcano la distanza con il decadimento – fisico, professionale e, fino a un certo punto delle loro vite, anche economico – delle protagoniste; oppure amplificano, al contrario, attraverso le espressioni dei volti delle dive, i sentimenti incarnati sullo schermo dalle due attrici. In un testo critico del 1974 dedicato al film di Vecchiali, Pasolini si sofferma sulla dimensione intermediale e metacinematografica che connota la pellicola, sottolineando proprio questo aspetto:
Femmes femmes è […] – e questo è straordinario – proprio un film sul cinema! O meglio, addirittura sull’espressività audiovisiva in generale. Le due protagoniste, infatti, sono due attrici: due attrici teatrali il cui mito è però (come dimostrano le fotografie appese alle pareti del loro appartamentino rosselliniano) cinematografico. Esse recitano Racine o magari un vaudeville paesano, ma vorrebbero essere due «stelle» di Hollywood (Pasolini 2008b, p. 2667).
L’orizzonte divistico adombrato dal ‘mito cinematografico’ a cui Pasolini fa riferimento diviene ancora più esplicito in un passaggio del medesimo testo nel quale il poeta-regista commenta una delle sequenze finali del film, quella in cui una delle due protagoniste, consumata molto probabilmente anche dall’alcool, è assalita da un forte dolore: «nel cominciare a morire, […] pur soffrendo selvaggiamente, [l’attrice] “imita” la posa disperata di una delle adorate star hollywoodiane» (ibidem); le mani giunte della donna trovano, in effetti, un immediato riflesso nella fotografia inquadrata pochi istanti dopo [figg. 3-4].
Se dalle dive che costellano le sequenze di Femmes Femmes si sposta nuovamente l’attenzione su Salò, si può notare come, attraverso le figure delle narratrici, emergano le tracce di una iconografia – espressa dagli occhi, dalle sopracciglia arcuate, dal disegno delle labbra della signora Vaccari, per esempio, ma anche della signora Castelli, interpretata da Caterina Boratto [fig. 5] – che richiama una cornice divistica riconducibile proprio agli anni Trenta. Questo dato può avere un suo rilievo se si pensa che nel rigore formale che caratterizza il film rientrano, oltre ai «movimenti, alle composizioni», come specifica Pasolini stesso, anche i «trucchi» (Pasolini 2001e, p. 3023), e se si considera il fatto che Elsa de’ Giorgi è stata parte integrante di un contesto divistico e cinematografico che affonda le radici in quel decennio. L’attrice ha esordito nel 1933 con T’amerò sempre di Mario Camerini e si è formata negli anni Trenta, in un periodo in cui il regime, nel tentativo di competere con l’industria cinematografica internazionale e, velleitariamente, con quella hollywoodiana in particolare, si dota non solo di una serie di istituzioni, come Cinecittà, ma anche di uno star system, sebbene di portata più modesta rispetto al firmamento delle stelle statunitensi. Pienamente aderenti alle cadenze performative messe in scena in Salò o le 120 giornate di Sodoma, inoltre, appare la recitazione di de’ Giorgi. Proprio i momenti che vedono al centro della sala la signora Maggi, infatti, contribuiscono a rendere l’idea del complesso palinsesto sotteso al film, in cui la struttura diegetica ispirata al testo letterario sadiano, la rilettura dell’opera proposta da Pasolini e gli innesti riscontrabili in alcune soluzioni performative interagiscono generando significative produzioni di senso. Emblematica, da questo punto di vista, è la sequenza in cui la signora Maggi, narrando di una serie di perversioni, inizia ad accennare a una sorta di danza sulle note del pianoforte che fa da filo conduttore sonoro fra i tre gironi [figg. 6-7]. Questo segmento del film fa da contraltare ad altre scene, come ad esempio la già menzionata citazione di Femmes Femmes – che riprende un passaggio del film di Vecchiali in cui le due protagoniste mimano un duetto – o un frammento di Salò analogo in cui la signora Vaccari, in risposta alle provocazioni del Presidente che ascoltando il suo racconto la invita a non trascurare i dettagli, si avvicina a lui e improvvisa un balletto.
Tali scene e le note di leggerezza che esse veicolano, in netto contrasto con la materia narrata e con le violenze perpetrate nel palazzo in cui si svolge l’azione, recuperano le cadenze performative del varietà e dell’avanspettacolo e, nell’impianto filmico di Salò, sembrano trovare una loro contestualizzazione storica, oltre che un legame con l’immaginario popolare. Questi episodi, infatti, in cui la crudeltà viene stemperata dagli intermezzi musicali o da situazioni che fanno scaturire ciò che Pasolini definisce una «sinistra comicità», possono essere spiegati con le parole stesse del regista che, in un’intervista del 24 agosto del 1975 condotta da Gian Luigi Rondi per Il Tempo e citata nelle Note dei Meridiani, chiarisce come in sede di montaggio «avvenga il dosaggio tra serietà e impossibilità della serietà […]. A ogni inquadratura, si può dire, devo pormi il problema di rendere lo spettatore intollerante e subito dopo smontarlo. Ho avuto la tentazione di intitolare questo film Dadà, pesando anche a dudù» (Pasolini 2001a, p. 3158), e cita a questo proposito il ritornello di Quel motivetto che mi piace tanto, che è una canzone, ancora una volta, della prima metà degli anni Trenta.
Le osservazioni fin qui delineate si sviluppano sulla scia di un orizzonte divistico che agisce sottotraccia nell’ultimo film girato da Pasolini e supporta l’individuazione di un fil rouge che dalla persona di de’ Giorgi conduce fino alla signora Maggi. Come è stato specificato, però, non si tratta di un riflesso privo di mediazioni. L’attrice-scrittrice vive nell’immaginario pasoliniano ed è partecipe di una tensione creativa che ha come esito il ritratto di un personaggio scolpito, com’era già accaduto con Anna Magnani in Mamma Roma, entro un assetto filmico da cui affiora una riconoscibile istanza autoriale. Può essere valida anche per Elsa de’ Giorgi una delle costanti dell’«impiego di stelle» proposto dal regista, notata da Rimini e Rizzarelli nell’ambito di una riflessione sull’utilizzo, da parte di Marcia Landy, della definizione di «star director» in riferimento a Pasolini; costante rappresentata dal fatto di vedere le celebrità «assunte per il loro carisma e costrette poi a spogliarsi dell’habitus più noto, per assecondare il carattere dei personaggi e lo stile di ripresa dell’autore» (Rimini, Rizzarelli 2021, p. 103). Che il temperamento di de’ Giorgi possa aver esercitato il suo fascino agli occhi attenti di Pasolini non è affatto escluso. Nell’estate del 1959, lungo l’itinerario della Lunga strada di sabbia, lo scrittore si trova a Ostia in compagnia dell’attrice: «è acuta come una spada inguainata» (Pasolini 2014, p. 31), osserva l’autore, offrendo, nello scrigno di una similitudine, il bagliore di un legame disposto a trasformarsi in un vivo confronto artistico.
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