In un’indagine dedicata al rapporto tra Elsa de’ Giorgi e gli spazi domestici, ciò che immediatamente emerge in primo piano, ripercorrendo la biografia dell’autrice e la sua inesausta attività artistica e letteraria, è l’importanza del salotto come crocevia di incontri e luogo di una pratica mondana che ha caratterizzato l’esistenza della diva per un lungo arco di tempo. A partire dagli anni Quaranta e fino ai mesi che hanno preceduto la sua morte, avvenuta nel 1997, de’ Giorgi ha ospitato con cadenze regolari numerosi esponenti della scena culturale, intellettuale, artistica italiana del Novecento, tra i quali si annovera, solo per citare alcuni esempi, la presenza di Renato Guttuso, Carlo Levi, Anna Magnani, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini. Teatro degli scambi tra gli habitué del salotto culturale animato dalla carismatica personalità dell’attrice – dopo il trasferimento a Firenze in seguito al matrimonio, nel 1948, con Sandro Contini Bonacossi – è stata la casa romana di via di Villa Ada 4; indirizzo riportato anche nei bigliettini che de’ Giorgi donava agli amici. Fornito delle componenti materiali che hanno tradizionalmente adornato lo spazio fisico dei salons culturali, come la ricca biblioteca e il pianoforte (cfr. Palazzolo 1985, pp. 56-57), il salotto di quell’appartamento si conserva nel ricordo di un numero considerevole di amici; tra questi, Elio Pecora restituisce nel Libro degli amici l’immagine «di una grande sala, ricavata con l’abbattimento dei muri divisori di quattro stanze» (Pecora 2017, p. 100): di una camera, dunque, che sembra addirittura occupare l’intera abitazione e a cui si aggiungono, sempre come scenari di ritrovi periodici, la casa di via Ruggero Fauro, ai Parioli, abitata dalla diva prima dello spostamento a Firenze, e la villa di San Felice Circeo, sede di indimenticati soggiorni estivi.
Sulla base di questi pochi dati essenziali, ci si rende già conto di come il salotto che ha avuto nella figura di Elsa de’ Giorgi un forte polo di attrazione soddisfi quelle che Renata Ago, in un suo studio dedicato ai salotti romani tra Seicento e Settecento, individua come le tre caratteristiche fondamentali di un salotto culturale. «Perché si possa parlare di un ‘salotto’, in senso proprio», afferma la studiosa, «mi pare che siano necessari tre elementi: che sia gestito da una dama, che accolga i suoi ospiti con una certa regolarità e soprattutto che si costruisca una reputazione» (Ago 2004, p. 186). A partire dalle informazioni che consentono di riconoscere una tradizione culturale dietro i salotti guidati da de’ Giorgi, il contributo prova a rintracciare i riverberi letterari e cinematografici della ricorrente abitudine della diva a radunare le sue conoscenze, e a verificare il rilievo che tale abitudine può assumere in relazione alla conquista di uno spazio di agency.
È la stessa autrice a offrire, all’interno del testo autobiografico Ho visto partire il tuo treno, una preziosa testimonianza circa l’origine delle riunioni da lei orchestrate:
Spenzolata sulla vertigine di una temibile quanto rozza libertà che la sorte di neodiva poco più che adolescente prospettava, scelsi senza esitazione l’amicizia offertami da gente come Trilussa, Savinio, Cecchi, Palazzeschi, Sibilla Aleramo, Lina Pietravalle, la Magnani […].
Certo c’era il seme familiare: considerare il pensiero valore indispensabile e conquistare gli altri necessari al rispetto della vita e di se stessi; ma l’attrazione verso gli spiriti geniali era istintiva. Il primo lusso cui mi abbandonai, indipendente e padrona di casa, fu l’ospitalità, il piacere di accoglierli, accostarli tra loro. Già allora avevo il gusto di riunire la gente nel più assoluto disinteresse, facoltà questa che avrebbe acquistato significato durante l’occupazione tedesca, quando la mia casa divenne meta naturale e rifugio di illustri e meno illustri ricercati (de’ Giorgi 2017, pp. 97-98).
Stando alle memorie di de’ Giorgi, ha dunque radici lontane, risalenti agli anni Trenta e alla fase aurorale della carriera dell’artista, l’abilità nel porsi come punto di fuga delle diverse forze intellettuali in campo, di mettere insieme persone anche molto differenti tra loro e di mediarne il dialogo, il confronto. Si tratta di un aspetto dell’attività culturale dell’autrice che ne ha profondamente contrassegnato l’immagine pubblica, sedimentandosi nella percezione di quanti l’hanno conosciuta e, in parte, nella fruizione della sua opera. Si pensi al campionario iconografico, costituito da quadri o da fotografie, che immortala il volto e il corpo di de’ Giorgi nelle eleganti vesti di padrona di casa, facendo eco, per altro, alla stessa voce narrante di Ho visto partire il tuo treno e al posizionamento consapevole da parte dell’attrice che trapela da quelle pagine. Possiamo osservarla, ad esempio, seduta sul divano, in posa e colta anche nell’atto di leggere o di estrarre un volume dalla libreria del suo salotto in una serie di scatti custoditi nel Fondo Dial (1951-1967) dell’Archivio Storico dell’Istituto Luce [fig. 1]; oppure in abito da sera, poggiata su un tavolo, in un dipinto degli anni Cinquanta realizzato da Adriana Pincherle. Se si procede nella perlustrazione delle tracce del legame tra la diva e lo spazio del salotto, si nota che anche uno degli istituti preposti alla conservazione degli oggetti e dei libri appartenuti all’attrice-scrittrice, la Collezione permanente Elsa de’ Giorgi di San Felice Circeo, prova a ricostruire e a mantenere intatto il clima delle serate dominate dalla figura dell’autrice, esponendo gli arredi – il divano, le poltrone, i ritratti – originariamente collocati nel salotto di via di Villa Ada.
Uno sguardo ai testi critici su de’ Giorgi non smentisce la persistenza di un’immagine dell’artista strettamente connessa con la sua anima di salonnière. Nelle rievocazioni, ancora una volta, di Elio Pecora, «le sue feste sono affollatissime», si legge, «lei […] dirige le conversazioni con la sicurezza e la grazia di una madame du Deffand» (Pecora 2017, p. 106). Non dissimile, se non altro nel recupero di una dimensione ‘storiografica’ data dai richiami alle dame e scrittrici che hanno frequentato i salotti mondani nel Settecento e nel secolo successivo, è l’accostamento proposto da Adele Cambria con Madame de Sévigné, Madame de Staël e Juliette Récamier in una sua breve biografia di Elsa de’ Giorgi (cfr. Cambria 2003, p. 87).
Emerge già da questi primi accenni l’estraneità dell’attrice all’idea di una cornice domestica intesa come nido, come ambiente privato separato dalla sfera sociale. Ma declinazioni ancora più interessanti dell’universo culturale che ruota intorno ai salotti forgiati dall’autrice si delineano nel momento in cui ci si pone in ascolto della sua stessa voce. Sono almeno due, infatti, le prospettive – tratteggiate in punta di penna nelle opere più spiccatamente autobiografiche – attraverso le quali provare a leggere la consuetudine di de’ Giorgi di intrecciare un’ampia rete di relazioni e di fare della propria casa la sede privilegiata dello scambio tra i membri di tale rete.
Esemplificativo, da questo punto di vista, appare un episodio dei Coetanei che si svolge sulla terrazza dell’abitazione della narratrice nei mesi immediatamente successivi alla Liberazione di Roma [fig. 2]. Mediante uno scambio di battute pronunciate da alcuni degli ospiti, vengono qui tratteggiate non solo le ragioni di uno scontro generazionale, ma anche le disillusioni e la solitudine, alla vigilia della disfatta elettorale del 1948, di un’intera generazione, quella dei giovani, dei ‘coetanei’ il cui ritratto viene preannunciato già nel titolo dell’opera. In uno dei momenti più concitati del dialogo, «lasci stare il buonsenso», afferma Turcato in risposta a Monelli, «col buonsenso ci avete fregati, voi della vostra generazione. Il vostro buonsenso ha inventato le fisime del patriottismo, il paganesimo di D’Annunzio, e – infine – logica conseguenza, Mussolini, Hitler, l’imbattibile forza germanica, il passo dell’oca e questa bella guerra. Io direi che se aveste un filo di buonsenso non osereste parlarne, proprio voi, a noi, del medesimo» (de’ Giorgi 2019, pp. 203-204).
Se il salotto sta «fisicamente a mezzo tra l’ambito domestico e quello sociale» (Mori 2004, p. 4), nella scena rappresentata dalla prosa dell’attrice è il secondo ambito ad affiorare più chiaramente. Lo spazio domestico che prende corpo nei Coetanei, dopo aver costituito – come le abitazioni di cui si narra in Ho visto partire il tuo treno e, ancor prima, nel romanzo Storia di una donna bella (cfr. de’ Giorgi 1970, pp. 171-194) – un rifugio per coloro che avevano avuto bisogno di nascondersi durante l’occupazione, si configura quasi come un’arena, un luogo di esercizio del dibattito pubblico su questioni di urgente contemporaneità. La connotazione sociale rinvenibile nel doppio letterario della casa della diva si riflette, per altro, nel valore di autorappresentazione e di autoaffermazione assunto dalla scrittura delle divagrafie. Come ha spiegato Mariapia Comand in riferimento al caso specifico dell’attrice-scrittrice e dei Coetanei, «la scrittura di Elsa de’ Giorgi si definisce, qui e altrove, come mezzo di partecipazione ai destini del paese, come rielaborazione di eventi dolorosi, come tramite di adesione alla comunità intellettuale (“i coetanei” appunto) e come strumento di riconoscimento in essa. La scrittura per Elsa de’ Giorgi risponde a un’urgenza espressiva ma attraverso di essa passa anche la ricerca di un’autenticazione di status» (Comand 2022, p. 131).
Insieme a una dimensione pubblica e politica, un altro aspetto che pervade il salotto e, in un’ottica più ampia, gli scenari domestici rappresentati dalla scrittura di de’ Giorgi riguarda l’attività attoriale dell’autrice e si mostra più direttamente correlato a una tematizzazione, nel corpo del testo, della performance, a ricordarci ancora una volta come non sia possibile – e neanche proficuo a livello interpretativo – procedere a una distinzione tra il piano della realtà e il dominio dell’arte, tra il personaggio e la persona che lo incarna. Spunti significativi in questa direzione provengono dal già citato Ho visto partire il tuo treno [fig. 3] e in particolare dal capitolo in cui il setting della narrazione diviene la casa torinese di Italo Calvino; casa che oltretutto la narratrice si impegna ad arredare personalmente (cfr. de’ Giorgi 2017, pp. 87-89). Rientra in tale contesto narrativo anche il racconto, di poco precedente alle pagine ambientate nell’abitazione di Calvino, di una festa in maschera organizzata in casa di uno degli amici dello scrittore. Per l’occasione, afferma la voce narrante, «mi inventai un look da vamp di saloon fin de siècle: un gran vestito nero di Schuberth, interminabile boa di struzzo, capelli rialzati, maschera d’argento» (Ivi, p. 130). Di non secondario rilievo sarà la reazione di Calvino allo spettacolo interpretato dalla sua amata fuori dalle scene: «È stata un’esplosione che m’ha riempito di meraviglia: quel che meno mi aspettavo era il vederti immedesimare con le tue funzioni di padrona di casa dell’impiegato torinese… e anche immedesimarti nell’ambiente dei miei amici, tutto con questa assoluta spontaneità» (Ivi, p. 131).
L’insistenza, già più volte riscontrata, sulla capacità della diva di porsi come una «padrona di casa» perfettamente a suo agio consente al lettore di avvicinarsi ulteriormente al cuore della ‘starità’ elaborata da Morin – «quando l’aspirante diva può farsi fotografare nelle vesti di padrona di casa, allora può ritenersi arrivata. A questo punto, esibisce l’anima e il volto, dove l’erotismo si sposa alla spiritualità» (Morin 2021, p. 44) – e permette di individuare un terreno comune anche ad altre autobiografie delle dive del Ventennio, come Il romanzo della mia vita (1987) di Doris Duranti, di cui Lucia Cardone ha messo in luce, in occasione del workshop There is no place like home (Napoli, 21 dicembre 2021), la visione del contesto domestico come spazio della performance.
L’episodio di Ho visto partire il tuo treno appena menzionato prelude alla rappresentazione di una componente performativa ancora più esplicita, che sfocia in un vero e proprio ‘esperimento’ della protagonista relativo alla propria arte attoriale. Il pretesto viene in questo caso fornito dalla visita di Gabriele Baldini a Calvino nell’appartamento di quest’ultimo e dalla promozione dei due al rango di divertiti spettatori:
L’idea di snodare sotto gli occhi dei miei soli due spettatori, nella severità un po’ ambigua del salotto torinese […], un défilé di alta classe, con mannequin d’eccezione unica e firmata, mi parve allegra. E lo fu decisamente, a giudicare dalla meraviglia estasiata con cui fu accolta, sempre più divertita, accalorata fino a diventare una sorta di tifo man mano che i miei cambiamenti d’abito creavano la sorpresa di nuovi atteggiamenti.
A me il gioco scenico suggeriva facili idee, a cominciare dalla più scontata bontempelliana Nostra Dea, essere ciò che il vestito indica […]. Avevo capito qualcosa di difficile che tentai di esprimere sfogliando il corpo di qualche accessorio: un bavero, un bolero, esibito poi dalla mano che ne rivelava la forma a se stante. Stavo impadronendomi della dissociazione quale elemento scenico: la meraviglia dell’autonomia tra corpo e oggetto, dagli ampi calzoni clowneschi alla bombetta di Chaplin […].
Avevo imboccato una strada maestra che, smemorandomi del piccolo schermo casalingo, mi conduceva a un’azione propriamente scenica (de’ Giorgi 2017, pp. 134-135).
Com’è possibile notare anche leggendo il brano – dove il salotto diviene in questo caso scena, appunto, spazio fisico deputato ad accogliere l’esibizione attoriale della protagonista – la poliedricità del profilo artistico di de’ Giorgi è tale da provocare, a partire dalla pagina scritta, continui sconfinamenti verso i gesti, l’oralità, la mimica; verso linguaggi espressivi che trovano nella grammatica della performance il loro fondamento.
Una rapida escursione nella carriera cinematografica dell’autrice, in effetti, consente di ampliare ulteriormente l’orizzonte, non tanto attraverso i ruoli recitati nei film degli anni Trenta e Quaranta, ancora ‘compromessi’ con lo stereotipo della giovane sedotta e abbandonata o caratterizzata da un candore ingenuo, quanto in una tappa più matura del percorso attoriale della diva. Ad aver contribuito a consacrare sul grande schermo l’immagine di Elsa de’ Giorgi come figura di salonnière è stato infatti Pier Paolo Pasolini con il suo Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) [fig. 4]. Dopo un breve cameo all’interno della Ricotta (1963), all’attrice-scrittrice, com’è noto, il poeta ha affidato la parte della signora Maggi, ossia di una delle narratrici che scandiscono i gironi su cui si strutturano le sequenze del film. Quello rappresentato in Salò è un universo sovvertito, concentrazionario, ma nel salone del palazzo che vede disposti in studiate geometrie i corpi delle vittime e dei carnefici, si coglie la sofisticata disinvoltura della signora Maggi, l’attitudine all’affabulazione colta così come alle doti performative; aspetti, questi, pure peculiari della personalità di de’ Giorgi e della sua relazione con l’ambiente domestico [fig. 5].
Se si prova a sondare la rilevanza critica del salon su un piano generale, si nota come la pellicola di Pasolini offra dunque una possibile declinazione del rapporto di contiguità che «agisce reciprocamente tra persona reale e personaggio cinematografico» (Morin 2021, p. 88), posto da Morin alla base della nascita della star. Allo stesso tempo, la biografia e il macrotesto di de’ Giorgi ci invitano a tener conto della partecipazione attiva dell’autrice nella edificazione di un’immagine pubblica e divistica che passa anche attraverso l’iniziativa culturale. Analogamente a quanto avviene con la scrittura letteraria, la pratica esperita dalla diva nella scena del salotto e trasfigurata nei suoi testi narrativi testimonia della volontà di conquista di uno spazio pubblico di enunciazione e della necessità di dare voce al proprio punto di vista, sia esso relativo al personale itinerario artistico o ai dibattiti sollevati dalla società coeva. Si tratta di un aspetto dell’impegno intellettuale di de’ Giorgi tanto più significativo quanto più si pensa che, in maniera ancora più diretta che in altre forme di espressione artistica, il salotto si configura come un luogo storicamente connesso con le presenze femminili che ne hanno di volta in volta presieduto le relazioni, le conversazioni, i momenti conviviali. Risulta illuminante a tal proposito il discorso di Giuliana Bruno nel momento in cui afferma che «la cultura dei salotti – un mondo letterario diretto da donne, consacrato alle donne e interessato alla politica del corpo – attribuiva valore alle relazioni interpersonali e le trasformava in uno spazio pubblico di autorialità femminile» (Bruno 2015, p. 265).
Le riflessioni fin qui annotate risuonano nel raffronto con le parole di de’ Giorgi riportate in un articolo del 1992 edito su «La Stampa»: «Per tutta la mia vita l’ambizione massima è stata quella di conquistare l’intelligenza […]. Tutta la mia seduzione l’ho esercitata per essere riconosciuta come persona pensante» (de’ Giorgi 1992). Nella lettura delle produzioni di senso generate dalla vita e dall’opera dell’attrice-scrittrice, si ritiene che sia proprio dalla centralità del pensiero che occorre ogni volta ripartire, per poterne poi imboccare le diverse diramazioni espressive e le potenzialità tradotte in azione.
* Questo articolo nasce nell’ambito del progetto di ricerca PRIN (bando 2017): Divagrafie. Drawing a Map of Italian Actresses in writing // D.A.M.A. / Divagrafie. Per una mappatura delle attrici italiane che scrivono // D.A.M.A., che vede come Principal Investigator Lucia Cardone (Università degli Studi di Sassari) e come responsabili delle altre unità coinvolte nel progetto Anna Masecchia (Università di Napoli Federico II) e Maria Rizzarelli (Università degli Studi di Catania).
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