Qualsivoglia discorso critico intorno alla figura di Elsa de’ Giorgi non può prescindere da una considerazione preliminare: nella vicenda biografica e artistica di quest’attrice e scrittrice, attorialità e autorialità appaiono come due dimensioni contigue, complementari, profondamente intrecciate tra loro. È quindi un grave errore prospettico pensare che vi sia stato un passaggio, un cedere il testimone dal cinema al teatro alla scrittura: si allestirebbe, in questa direzione, una cornice interpretativa inadeguata che condurrebbe a ricostruzioni falsate. Si potrebbe piuttosto concepire tutta la vita di Elsa de’ Giorgi come un teatro della scrittura, talvolta un po’ eccessivo o folle, com’era nel suo temperamento.
La sua figura fu segnata fin da subito da due valori, destinati a diventare due veri e propri vettori fondamentali, che da soli già spiegherebbero molto di quel temperamento. Mi riferisco ai concetti di verità e di libertà. Il lettore li ritrova in uno snodo essenziale del percorso espressivo di quest’autrice, ovvero il saggio su Shakespeare e l’attore, edito nel 1950 come un opuscolo della sede fiorentina dell’Electa. In realtà il saggio prende avvio in forma di recensione, invero assai critica, al libro di Valentina Capocci, Genio e mestiere, pubblicato da Laterza l’anno prima. De’ Giorgi mira in questo scritto, sapientemente calibrato, a smontare le tesi della studiosa, mostrando una tale consapevolezza dell’idea stessa di teatro da risultarle perfettamente consustanziale. Leggiamo a pagina 8:
Sarà di Molière il compito di dare al Teatro francese del ’600 il grande respiro di un teatro vivo: ma le opere di Molière non sono tragedie e quindi resta il disorientamento dei francesi abituati al prezioso linguaggio della loro tragedia – così prezioso ed elevato che ancora oggi per recitarlo è necessaria una maniera – di fronte al mondo prorompente, incontenibile, che questo immenso Poeta rovesciava sul teatro, con gli accenti di una verità miracolosa per il suo tempo; verità e libertà tanto sentite da farlo identificare dai romantici come il loro più grande precursore.
Su questa libertà e su questa verità vorrei soffermarmi, e spero di poterlo fare nel corso di questa discussione, se non mi premesse anzitutto chiarire il motivo di questo mio commento al libro di V. Capocci.
Il suo torto, a mio parere, è quello comune a molti letterati di insistere a giudicare l’opera teatrale alla stessa stregua della muta opera letteraria; cioè come opera fine a se stessa.[1]
Ecco il «torto»: quello di essersi limitati a ‘leggere il teatro’, come invece tornerà a fare Anne Ubersfeld in un noto saggio della seconda metà degli anni Settanta.[2] Dunque, nella concezione della commentatrice, il teatro possiede un potere di parola rispetto alla «muta opera letteraria». Portare quel tanto di teatralità che concedesse all’opera letteraria di esprimere quella verità e quella libertà è stata, con certezza, l’impresa di una vita.
Le cose non sono state semplici, come sappiamo. De’ Giorgi stessa ne accenna in diversi punti dei suoi ampi mémoires. Ci sono state, a disturbare questo tracciato, almeno due tristi, pesanti interpolazioni: possiamo serenamente riconoscere, anzi, che quelle interpolazioni rappresentano la materia stessa dei libri maggiori, soprattutto di L’eredità Contini Bonacossi e Ho visto partire il tuo treno.[3] Possiamo altresì riconoscere quanto la vita sentimentale abbia comportato dei risvolti di responsabilità, che hanno inciso a fondo sul quotidiano e sull’opera, per molti aspetti stimolandone la creazione: il matrimonio con Sandrino Contini Bonacossi l’ha intimamente coinvolta nelle vicende dell’importante collezione d’arte della famiglia; il rapporto con Italo Calvino l’ha esposta in prima persona, provocandole molti dispiaceri, impedimenti e fraintendimenti. Sfera privata e immagine pubblica si fondono e si sovrappongono nella figura di Elsa de’ Giorgi, complicando non poco il riconoscimento di un’autorialità interna rispetto alla voce narrante; ma questo è solo uno dei riflessi di un’esistenza comunque votata all’inseguimento e all’affermazione di quella verità e di quella libertà.
Se attorialità e autorialità s’intersecano, questo intreccio rappresenta un problema nell’intera storia di Elsa de’ Giorgi, a cominciare dalla sua formazione e dai suoi esordi. L’attorialità è un problema dapprima esterno, fortemente interiorizzato dalla particolare sensibilità della giovane ma tutt’altro che sprovveduta debuttante; l’autorialità è al contrario un problema interno proiettato verso l’esterno, ovvero verso una riconosciuta, adeguata comprensione della sua opera. È proprio su questo versante, purtroppo, che le due interpolazioni hanno creato ulteriori interferenze, di cui l’attrice/autrice ha faticato un’intera esistenza per liberarsi; invano, se ancora oggi pesano inutili pregiudizi, per esempio, sul folto e importante carteggio con Calvino, sul quale è stato posto il veto di pubblicazione da parte della famiglia dello scrittore.
Verità e libertà sono due principi, ancor prima che due categorie espressive, il cui peso e la cui consistenza risultano maggiormente evidenti se promossi e difesi da parte di una donna nell’Italia del 1950 e non solo. A ben guardare, e con lenti imparziali, de’ Giorgi costituisce per molti aspetti un unicum nella nostra storia letteraria e in quella delle arti performative, ma la sua unicità, invece di essere stata letta come un valore aggiunto, è stata motivo di un processo riduttivo, se non di scherno e di delazione, perfino negli anni successivi alla sua scomparsa. La difficoltà nel riproporre i suoi libri testimonia ancora oggi l’azione di lunga durata di quei pregiudizi. I nostri schemi culturali e le nostre categorie storiografiche, che tendono di fatto a incasellare e ad appiattire le singole personalità degli autori invece di promuoverle, faticano a registrare il nome di Elsa de’ Giorgi, ma qui si rende necessario fugare un equivoco: è piuttosto chiaro che non si tratti soltanto di una questione di genere e che una prospettiva di studio dominata quasi esclusivamente dalle teorie e dalle analisi dei gender studies rischierebbe di falsare il problema, che va piuttosto inquadrato in un ordine culturale più ampio, nel cui orizzonte la gender theory si inscrive. E anche trans-culturale: vi sono autori che parimenti ispirati a criteri di verità e di libertà ancora oggi si ritrovano ai margini dell’attenzione critica e la cui ricezione viene costantemente inquinata o impedita. Chiunque potrebbe stilare il proprio elenco di ‘irregolari’, ma con buona dose di certezza il nome di Elsa de’ Giorgi non salirebbe subito alla memoria.
Il problema dell’autorialità è stato affrontato all’insegna di una certa inadeguatezza del ruolo di volta in volta proposto. E sussisteva, ovviamente, una deviazione culturale a monte, che l’autrice ben racconta in Storia di una donna bella e che si potrebbe rappresentare con la stessa reticenza, nell’accezione retorica, con cui la stessa de’ Giorgi la dichiara:
Compiva 18 anni. Si scostò un poco dallo specchio per non vedersi quei brufoli sul mento che sbucavano fuori dal cerone.
Non che gliene importasse per il lavoro. Col velatino non si vedeva nulla. Anche l’operatore glielo aveva detto: «Va là! Con una faccia così te ne freghi di due brufoli. Se poi venissero fuori in primo piano, rimedio fotografandoti il cu…».
[…]
Uscì quasi correndo dal camerino. Per le scale inciampò nella coda dell’abito. Mentre cercava di districarsi le cadde il cappellino.
«Ha visto? Ha visto? Non sarà mai una dama. Sa che una lady si vede da come scende una scala? Una lady e una puttana. Dritta sulla vita, cali il piede con degnazione. Alta la testa, altissima, guardi lontano, fino a Napoli, regga noncurante quello strascico. No, senza sollevarlo… scopra la punta del piede… solo la punta… così… bene. Con due dita. Due sole dita: gesto magnifico e impercettibile. Perdio, che cu…![4]
Ovvero: nella «strana fabbrica del Cinema»,[5] dove nessuno aiuta la giovane diva che vorrebbe «capirne di più»[6] e dove vige il trito connubio tra bellezza e stupidità, de’ Giorgi vive una condizione di disagio e di isolamento ben raccontata in quelle pagine. È proprio allora che scatta l’esigenza di un deciso inquadramento della sua personalità attoriale e insorge una diversa forma di recitazione: mi riferisco alla teatralizzazione della malattia della madre. È paradossalmente in quel dominio privato, in quel segreto famigliare che la giovane attrice arriva a sperimentare una nuova specie di solitudine e di libertà, attraverso la condivisione di «un linguaggio magico a loro solo comprensibile»: «Elena considerava il male della madre una meravigliosa libertà da lei stessa inventata per mutare la vita come voleva».[7]
Si tratta di un passo fondamentale, di un momento topico, proprio per motivare l’intreccio tra autorialità e attorialità, ancora all’insegna della libertà. Per inciso, è solo da questo intreccio che nasce in Elsa de’ Giorgi un gusto del gioco teatrale, ovvero di teatralizzazione anche dei piccoli gesti, che è stato incessantemente frainteso, ancora oggi. Nel romanzo Un coraggio splendente (altro memoir travestito da invenzione oggettuale) questo atteggiamento viene spiegato come un «comporre in astratto il gioco del mio personaggio obiettivamente come potevano considerarlo gli altri, un po’ favoloso di donna bella, sola, ricca».[8] Penso a certi vezzi, come lo champagne, oggetto di veri e propri rituali propiziatori, ma anche di un segnale più intimo, doloroso: «per me lo champagne è insieme un sonnifero e la compagnia perfetta della mia solitudine».[9] Penso, soprattutto, a certe esibizioni considerate ‘mascherate’, sul cui effettivo svolgimento e sulle cui cronache riportate è lecito nutrire più di un dubbio, per ragioni meramente anagrafiche. Per spiegarle, laddove non c’è altro da spiegare se non un esercizio di libertà, per l’appunto, non è necessario scomodare Lacan.
L’autorialità è un problema interno, ancor prima che sociale. Non è possibile guardare alla storia della ricezione dei libri di de’ Giorgi senza affrontare l’intimo percorso che trascorre tra cinema e teatro, la vera dimensione in cui finalmente attrice e autrice si svelano nella loro reciprocità; perché è qui che de’ Giorgi trova la propria voce, come racconta in Ho visto partire il tuo treno e nel denso, importante carteggio con Renato Simoni, che ci si augura di veder pubblicato nella sua completezza. Ancora una volta le difficoltà dell’ambiente cinematografico sono ben descritte; se è in questa sfera che viene scoperta ed esercitata l’attorialità, è però nel teatro che si può infine ritrovare quella verità e quella libertà da sempre inseguite. Nel cinema, che pure le ha garantito fama e ricchezza, e dunque indipendenza, de’ Giorgi in realtà si sente stretta fra l’ottusità delle figure che la circondano, ma c’è un dato ulteriore, che permea la tecnica stessa a cui sottostare: il frammento. Nella tecnica frammentaria del cinema la giovane attrice non tarda a riconoscere una forma di straniamento, se non di vera e propria estraneazione. Nello stesso modo, il processo di riduzione e stilizzazione assoluta dei mezzi espressivi finisce per costituire un limite all’esperienza di quella libertà. Leggiamo in Storia di una donna bella:
Il regista con gli altri doveva essere in proiezione. Ma non ci andò. Le capitava proprio in proiezione di sentir parlare di sé come se non ci fosse. La sua persona veniva scomposta in particolari alla stregua di un oggetto smontabile e sentiva discutere dei vari pezzi in termini tecnici, con soddisfazione, come del rendimento di un buon motore.
Solo una volta, mentre il suo profilo appariva sotto un gran cappello tra mandorli in fiore, qualcuno se ne uscì con un sospiro: «Quanto è bella» disse. Era Pirandello. Ma fu un episodio di cui dové dolersi. La grande attrice di prosa con cui girava il film sul Conte Aquila, se ne offese e offese lei per tutte le riprese del film con freddo disdegno giungendo a volger gli occhi altrove durante le scene in cui apparivano insieme. Appena recitava con l’attore principale, invece, si abbandonava a una bella foga drammatica, soffocando i singhiozzi sulla giacca romantica di lui, con tanto impeto che bisognava ogni volta ricomporle a fondo il trucco.
Era una grande attrice di teatro e non conosceva le regole del cinema: quelle del controllo di ognuno dei propri lineamenti. A Elena, invece, avevano subito insegnato che per lo schermo serviva solo una partecipazione minima dei mezzi espressivi. Uno sbarrare d’occhi, per renderli grandi e lucenti fino alle lacrime; l’alzata di un sopracciglio per esprimere meraviglia o felicità. Aggrottarle nelle espressioni dolorose, deglutire prima di parlare per dare il senso della commozione, risultavano effetti più nitidi della verità. E l’avevano ossessionata perché avesse sempre presenti, nel pensiero, i particolari del proprio viso, ogni lineamento senza dimenticare che in proiezione sarebbero apparsi ingranditi decine di volte e spesso isolati come al microscopio. E più che per l’attore, questa coscienza era indispensabile all’attrice di cinema, dicevano, sempre a causa del sex-appeal. Quante cose dicevano.[10]
Eppure il cinema, per quanto messo da parte, non abbandona Elsa de’ Giorgi, che vi torna in due occasioni importanti con Pasolini (La ricotta, dove appare nei panni della diva, e soprattutto Salò, di cui è la terribile e indimenticabile signora Maggi), quindi con lei stessa come attrice e regista (la straordinaria ripresa del linguaggio della lauda in un’operazione come Sangue più fango uguale logos passione, nel 1974, di cui è pure sceneggiatrice, costumista e produttrice, tornando così a mescidare i registri della letteratura, della rappresentazione sacra, dell’arte, della macchina da presa); infine con una produzione egiziana dei primi anni Novanta, Poussière de diamant, per la regia di Mahmoud Ben Mahmoud.
Se ne può trarre una prima conclusione: se de’ Giorgi non ha mai rinunciato ai diversi linguaggi di cui ha potuto fare esperienza diretta, questi hanno continuato a nutrirsi vicendevolmente in ogni suo momento espressivo. C’è un’altra costante, però, di cui tenere conto. Inseguire e ribadire libertà e verità ha comportato, per lei, la rinuncia all’immaginazione, per perseguire un filone decisamente autobiografico, memorialistico. Accade sia in prima che in terza persona, attraverso l’identità fittizia di Elena in Storia di una donna bella o nelle pagine di Un coraggio splendente, dove l’io narrante resta senza nome, ma riporta alla presenza dell’autrice nel ricorso a fatti e nomi reali, accanto a nomi d’invenzione; nei quali, però, si possono riconoscere alcuni tratti di persone che in un modo o nell’altro hanno avuto una parte nella sua storia biografica.
Se volessimo stabilire una gerarchia di valori (ma so che lei tremerebbe un po’ di fronte a una definizione come questa), potremmo affermare che verità e libertà sono figlie di Mnemosine. L’intreccio tematico è costante in Elsa de’ Giorgi, come sta a dimostrare il sottotitolo del suo libro forse più discusso, quello relativo alle complesse e intricate vicende della collezione Contini Bonacossi: L’ambiguo rigore del vero. Ed è proprio nell’insieme di quelle vicende, che come sappiamo coinvolgono il piano sociale e quello politico, che rinveniamo quelle pericolose interpolazioni nella sua vita, tali da pesare ancora oggi come un’ipoteca tutt’altro che secondaria sulla ricezione della sua opera. Mi riferisco alla sparizione improvvisa e mai pienamente motivata del marito Sandrino e alla liaison con Italo Calvino, dapprima fertile di reciproco corrispondersi, quindi interrotta in modo pressoché drastico e che tante leggende ha generato, faziosamente ingigantendone episodi e particolari che sarebbero meglio confinati nella sfera privata, soprattutto da parte di chi ha voluto difendere a ogni costo il coté einaudiano, dal quale l’autrice dei Coetanei fu per sempre estromessa. Le cronache del tempo sono lì a testimoniarlo; mentre va sottolineato che da parte di una certa sinistra, ben disposta a riconoscerle un autonomo status intellettuale, de’ Giorgi ebbe solidarietà, vicinanza, stima. Storia di una donna bella apparve presso Samonà e Savelli, editore storicamente legato alla sinistra; Un coraggio splendente dimostra anche il riconoscimento della scrittrice da parte della miglior critica di allora, dato che il romanzo fu pubblicato da Sugar in una collana curata da Giacomo Debenedetti. Diversa sorte ebbe invece L’innocenza, che fu oggetto di una traduzione in Francia presso Albin Michel ma che in Italia, dopo vani tentativi presso gli editori maggiori e soprattutto da Garzanti, per il veto degli autori legati al gruppo di Paragone, apparve infine per il Sodalizio del libro, a Venezia: in questo romanzo (ma l’etichetta di genere va piuttosto ricondotta al mémoir, come per gli altri casi: il romanzo, anche in questo caso, essendo un modo di raccontare la propria verità non è altro che un esercizio formale di libertà, suffragato dall’invenzione che ne è costitutiva), è infatti adombrata la figura di Roberto Longhi, a lungo consulente della famiglia Contini Bonacossi e curatore della collezione.
Fu dunque ostile a Elsa de’ Giorgi non tanto il sistema letterario tout court ma quel radicalismo chic che fece scudo intorno a Calvino non disdegnando di ridurre la figura di lei a macchietta (la finta contessa che girava con la pistola nella borsetta) o screditandola in ogni modo, ancora relegandola nel ruolo della diva capricciosa; ciò che per de’ Giorgi è rimasto sempre, per l’appunto, un ruolo, un gioco dominato dalla sua intelligenza. Era lei la prima a non credervi.
Resta il fatto che la sua autorialità rimane soprattutto legata ai Coetanei, a L’eredità Contini Bonacossi, infine a Ho visto partire il tuo treno. Degli altri libri si parla poco o nulla, come nel caso di Un coraggio splendente. È invece un testo importante per comprendere le ragioni della fine del rapporto con Italo Calvino; per questo sarebbe sufficiente, oltre che più attendibile storicamente, ché di storia ormai si tratta, metterlo a confronto con uno dei lunghi racconti della trilogia realistica, La nuvola di smog. Se pensiamo che un altro racconto di quella trilogia, La speculazione edilizia, si ispira a fatti che coinvolsero direttamente la proprietà della famiglia Calvino a Sanremo, saremo autorizzati a cogliere anche nella Nuvola un’ispirazione autobiografica. In quest’opera del 1958, anticipata su Nuovi Argomenti, Calvino ricorre fin troppo alla figura di Elsa nel tratteggiare il personaggio di Claudia. Le telefonate tra Roma e Torino, la natura e la qualità del rapporto tra narratore e ‘antagonista’ femminile si ritrovano in Ho visto partire il tuo treno. Eppure il confronto con Un coraggio splendente, sia per la vicinanza cronologica al testo di Calvino, sia per l’invenzione del personaggio (a Elsa-Claudia corrisponde qui Italo-Roberto, ma sottoposto a maggiori espedienti di camouflage, ciò che ci restituisce anche la temperie del momento), ci fornisce chiavi interpretative non ancora utilizzate.
Ho provato altrove[11] a rintracciare qualche motivazione per la fine un po’ da vaudeville grottesco di quella relazione, che coinvolse due persone di altissima statura intellettuale entrambe, ma di formazione, carattere e storie profondamente diversi. La sola traccia che i testi forniscono, da ambo le parti, è che Elsa fosse ‘troppo’ per Italo, abituato, per educazione e per personalità, a uno stile di vita piuttosto sobrio e schivo. Inevitabilmente Elsa portava con sé, dietro di sé, la scia di un retaggio per cui fama, successo, posizione sociale (la nobiltà d’origine corroborata dal matrimonio con Sandrino Contini Bonacossi, a sua volta schivo eroe partigiano) costituirono, se non un ostacolo, un sicuro elemento di disturbo. Calvino aveva impostato e conduceva la sua quotidianità tra il lavoro redazionale in Einaudi e la scrittura e lo studio. Così, quando Elsa appare «in “superlativo”» nei panni di Claudia, al contrario Calvino appare sottotono, come un intellettuale piccolo-borghese nei panni di Roberto nel Coraggio splendente. E «in “superlativo”» Elsa è definita nella risposta che Calvino stesso dette a Vittorini (che non volle I coetanei nei Gettoni einaudiani), in una lettera spedita dalla casa editrice il 30 aprile 1955, rivalutandone la portata e la qualità della scrittura ma sempre con riferimento a quanto il personaggio de’ Giorgi includeva:
Io non sono d’accordo sul «modo» di lettura del libro che ti porta a quelle conclusioni. Questo è un libro da leggersi come si leggono le memorie o gli epistolari delle dame del Settecento, in cui la mondanità, il salotto, è un dato di partenza che non si può non accettare, ed è attraverso ad esso che ci vien presentata la cronaca della cultura e della politica e delle passioni del secolo. Il linguaggio in questo tipo di memorialistica non deve far altro che riflettere questo modo d’essere. Tutte le cose che tu dici delle coppie d’aggettivi e degli attributi sono giuste; c’era anche un mare di superlativi che le ho fatto togliere quasi interamente. Ma è un fatto che quel tipo di donna vive in «superlativo», in questa partecipazione e tensione che è un po’ d’altri tempi, e cioè non è un fatto solo di «costume».[12]
In questo modo, il giovane redattore a cui è affidato l’iter editoriale del libro coglie già alcuni aspetti essenziali: la necessità di un inquadramento storico e oggettivo del personaggio, in cui riconosce le sue stesse «partecipazione e tensione» degli anni di guerra, ormai alle spalle con tutto il loro portato di discussione e passione, già tristemente sminuite dagli indirizzi politici della ricostruzione post-bellica; coglie inoltre quella parte di verità a cui l’autrice non sarebbe mai venuta meno. Allora, nella testimonianza diretta di Elsa de’ Giorgi, quando lei stessa dichiarava che per I gettoni I coetanei erano troppo, e dunque la casa editrice optò per la collana Testimonianze, possiamo tutto sommato cogliere un vezzo di verità; ma l’importanza del libro fu suffragata dalla presenza, a mo’ di prefazione, di una lettera di Gaetano Salvemini, che subì tuttavia qualche remora da parte dell’anziano storico; il suo rifiuto, poi superato, ad autorizzarne la pubblicazione fu probabilmente dovuto alla scomparsa di Sandrino Contini Bonacossi.[13] È infine rilevante il riferimento a certo milieu settecentesco, che focalizza una componente essenziale dell’autrice e insieme ne fissa quella che avrebbe potuto esserne l’immagine intellettuale pubblica. In quello stesso secolo Calvino avrebbe reinventato Elsa, come sappiamo, nei panni di Viola nel Barone rampante.
De’ Giorgi, di libro in libro, trascorre dalla prima alla terza persona, ma questo non inficia la decisa marca autobiografica, fedele al motto di Joyce che in realtà, ad ogni libro, si scrive un solo libro, che è quello della propria vita. Di questa evidenza possiamo ricostruire le varie fasi:
- I coetanei (1955). Storia di una generazione e delle sue intime contraddizioni, dalla dichiarazione di guerra al suicidio di Cesare Pavese;
- L’innocenza (1960). La vita di Elsa tra le mura di Villa Vittoria a Firenze, dove intuisce già alcuni problemi intorno alla collezione d’arte;
- Un coraggio splendente (1964). La morte di Thea De Filippo, prima moglie di Eduardo e intima amica, e la fine del rapporto con Calvino;
- Storia di una donna bella (1970). Gli esordi di Elsa de’ Giorgi nel cinema degli anni Trenta;
- L’eredità Contini Bonacossi (1988). Tra prima e terza persona, passaggio significativo di questa commistione di vita e scrittura. Il libro ricostruisce l’entità della collezione d’arte e ne racconta le vicende, compresa l’improvvisa sparizione di Sandrino;
- Ho visto partire il tuo treno (1992). È il seguito ideale dei Coetanei. Con il pretesto di raccontare, con il giusto distacco, il suo rapporto con Calvino, de’ Giorgi in realtà ricostruisce la società culturale tra gli anni Cinquanta e Settanta, fino a un altro suicidio, che si pone quindi in parallelo con quello di Pavese nel finale del primo libro. Qui si tratta di Gerardo Guerrieri;
- Una storia scabrosa (1997). La storia sentimentale di Elsa de’ Giorgi dopo Calvino.
Si può quindi osservare come il connubio verità-libertà abbia agito non in senso strettamente cronologico, ma in una sorta di altalena temporale, come assecondando le esigenze espressive del momento e consentendo solo a posteriori di ricostruire la vita di Elsa de’ Giorgi nella sua interezza. È un dato non secondario, poiché ci conferma come la scrittura abbia rappresentato per l’autrice soprattutto un’occasione, una modalità di chiarificazione rispetto a certi snodi essenziali della sua esistenza. Si è ricostruito così il completo diagramma del parallelismo di vita e arte; ma sarebbe altrettanto errato attribuire certe incongruenze cronologiche a problemi editoriali, di ostilità se non addirittura di censura, che pure vi furono. De’ Giorgi riuscì comunque a pubblicare, nonostante il bando einaudiano dopo l’affaire Calvino e dopo che L’innocenza, per il parere negativo di Bassani e Citati che fecero scudo intorno a Longhi, fu rifiutato, come si è visto, dagli editori maggiori. Da quel momento, infatti, de’ Giorgi ebbe piccoli, anche se importanti riferimenti editoriali, fino al riscatto, negli anni Ottanta e Novanta, con Mondadori, Leonardo, Baldini & Castoldi. Quanto alla piena accettazione della sua autorialità sarà interessante ricordare come l’allora consulente di quest’ultima sigla editoriale, Oreste Del Buono, fosse intenzionato a ripubblicarne l’opera per intero; ma la scomparsa improvvisa dell’autrice, proprio mentre stava per uscire Una storia scabrosa, quindi la lunga malattia di Del Buono non favorirono il progetto. Elsa de’ Giorgi sarebbe così ricaduta in un oblio ventennale, fino alla riproposta, nell’Universale Feltrinelli, di Ho visto partire il tuo treno (2017) e dei Coetanei (2019).
L’autobiografia, per quest’autrice, è il modo di dare corpo, sostanza, alla triade memoria-verità-libertà. A questi elementi valoriali si dovrà però aggiungerne un altro, parimenti importante: la ragione. È una ragione che ho cercato di descrivere all’insegna di una gioventù mai sconfessata.[14] Una ragione giovane è una ragione che sa di non poter rinunciare alle illusioni, anche se, in seguito, gli esiti di quelle illusioni, sul piano storico ben raccontato nel primo libro, tracciano un bilancio problematico, se non negativo. Su questa prospettiva di rivisitazione fortemente critica dello iato tra gli ideali e i comportamenti di un’intera generazione di intellettuali, scrittori, artisti, del loro effettivo raggio d’azione influisce non poco la matrice illuministica di de’ Giorgi, il suo criticismo continuo, alla Voltaire, nonostante le sue riserve su questo philosophe che non era stato in grado di comprendere il genio e la grandezza di Shakespeare. La marca del suo illuminismo è e resta comunque voltairiana; il suo sguardo era attento, vigile, investigativo, invasivo e pervasivo insieme. Per questo possiamo parlare della sua esistenza come di una vita espansa: raccontare sé stessa ha significato sempre, per lei, ricostruire ben più ampi contesti nei quali la sua presenza è stata perfettamente consustanziale e indiscussa. E ancora per questo, nonostante le pesanti interpolazioni subite, la sua consapevolezza autoriale non è mai venuta meno. Ce lo dimostra, infine, la citazione da Leopardi che apre Un coraggio splendente e che molto, credo, spiega proprio del carattere di Elsa de’ Giorgi autrice:
Quando la sola passione del mondo è l’egoismo, allora si ha ben ragione di gridare contro la passione. Ma come spegner l’egoismo con la ragione che n’è la nutrice, dissipando le illusioni? E senza ciò, l’uomo, privo di passioni, non si muoverebbe per loro, ma neanche per la ragione, perché le cose son fatte così, e non si possono cambiare, ché la ragione non è forza viva né motrice, e l’uomo non farà altro che diventare indolente, inattivo e immobile, indifferente, infingardo, com’è divenuto in grandissima parte.
È un pensiero tratto dallo Zibaldone, alla data del 22 ottobre 1820, ed è pagina ben nota di Leopardi. Ma converrà riportarne anche la parte precedente, perché l’intera speculazione è qui sintomatica di una rilettura complessiva del rapporto con Calvino: sia nel bilanciamento di passione e ragione da una parte, sia direi, nell’affiorare di un sostrato etico che si è consolidato per via culturale, nella personalità multiforme e nel carattere, certamente passionale ma indirizzato alla ragione, di Elsa de’ Giorgi. Eppure è ciò che le cronache di quella liason hanno sconfessato:
[…] la ragione non è mai efficace come la passione. Sentite i filosofi. Bisogna fare che l’uomo si muova per la ragione, come, anzi più assai che per la passione, anzi si muova per la sola ragione e dovere. Bubbole. La natura degli uomini e delle cose può benesser corrotta, ma non corretta. E se lasciassimo fare alla natura, le cose andrebbero benissimo, non ostante la detta superiorità della passione sulla ragione. Non bisogna estinguer la passione colla ragione, ma convertir la ragione in passione; fare che il dovere, la virtù, l’eroismo ec. diventino passioni. Tali sono per natura. Tali erano presso gli antichi, e le cose andavano molto meglio.
Ecco, convertire «la ragione in passione», fare di intelletto e pulsione, mente e sentimento un solo vettore esistenziale e comunicativo, è stata la grande e vinta scommessa di de’ Giorgi. Difficile perdonarla, per questo. Lo stesso Calvino vi sarebbe riuscito in parte, portando sempre più la letteratura verso la sperimentazione del pensiero, ammantandola di speculazione. Il dovere della passione si è tramutato in lei, ancora giovane, in un imperativo morale, che è rimasto, ancora una volta, un’estrema affermazione di libertà. Priva di qualsivoglia pregiudizio o condizionamento, che non fosse quello di un’apertura e di una curiosità sempre vive, de’ Giorgi ha attraversato più territori espressivi non senza una consapevole spavalderia; oggi, in quel suo ‘troppo’, che ha compreso anche i domini della poesia e della saggistica, per i quali si dovrebbe ugualmente ricomporre un’autorialità frammentaria e dispersa, possiamo riconoscere un patrimonio di esperienza, di testimonianza e di linguaggi che va onestamente restituito alla storia culturale del nostro miglior Novecento.
1 E. de’ Giorgi, Shakespeare e l’attore, Firenze, Electa, 1950, p. 8.
2 A. Ubersfeld, Lire le théâtre, Paris, Éditions sociales, 1977; ed. it. Ead., Theatrikón. Leggere il teatro, trad. it. di P. Stefanini Sebastiani, Roma, La Goliardica, 1984.
3 E. de’ Giorgi, L’eredità Contini Bonacossi. L’ambiguo rigore del vero, Milano, Mondadori, 1988; Ead., Ho visto partire il tuo treno [1992], prefazione di R. Deidier, Milano, Feltrinelli, 2017.
4 E. de’ Giorgi, Storia di una donna bella, Roma, Samonà e Savelli, 1970, pp. 9, 11-12.
5 Ivi, p. 13.
6 Ivi, p. 14.
7 Ivi, pp. 29, 28.
8 E. de’ Giorgi, Un coraggio splendente, Milano, Sugar, 1964, p. 15.
9 Ivi, p. 37.
10 E. de’ Giorgi, Storia di una donna bella, pp. 12-13.
11 R. Deidier, Prefazione a E. de’ Giorgi, Ho visto partire il tuo treno, pp. 7-22.
12 I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, introduzione di C. Milanini, Milano, Mondadori, 2000, pp. 426-427.
13 Su questa vicenda rinvio a T. Tovaglieri, Cronaca de I coetanei, in E. de’ Giorgi, I coetanei [1955], introduzione di R. Deidier, Milano, Feltrinelli, 2019, pp. 288-290.
14 Cfr. R. Deidier, ‘La gioventù della ragione’, La Voce repubblicana-SpazioLibri, 11-12 gennaio 1993; Id., Introduzione a E. de’ Giorgi, I coetanei, pp. 7-19.