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La ‘rigenerazione’ e la ‘rinascita’, il ‘ricominciare’, il ‘ricostruirsi’ da capo sono parole chiave che spesso vengono associate al racconto della persona pubblica dell’attrice e presentatrice televisiva Ambra Angiolini. Associazioni che vengono proposte da altri, o direttamente da lei stessa, come è possibile riscontrare in molte interviste rilasciate in tempi recenti.

Così, nella video intervista per il magazine online «Déluge» nell’ottobre 2021, Angiolini commenta ironicamente la frase che accompagnava un suo post di auguri pasquali del 4 aprile 2021 – «Ho ricominciato così tante volte nella vita che Pasqua è diventata il mio secondo compleanno» – dicendo che si è trattato di uno dei «rari deliri di onnipotenza» della sua vita [fig.1]. In una recentissima intervista rilasciata a «Vanity Fair» nell’estate 2022, definisce questo suo sapersi «rifare da capo» (spesso dopo che la sua vita privata è stata resa pubblica senza il suo consenso) con queste parole: «l’ennesimo superpotere che è stato attribuito a questa mia esistenza targata Marvel». In entrambi i casi, Angiolini usa il tono giocoso e scanzonato, autocritico e autoironico allo stesso tempo, che oramai la contraddistingue. E, tuttavia, negli stessi momenti in cui abbraccia la fama di eterna e tenace ‘Araba Fenice’, tenta allo stesso tempo di smarcarsene, rivendicando non solo totale libertà e leggerezza nelle proprie relazioni private, ma anche un’agency nuova sulle sue scelte professionali, da sempre improntate all’ecclettismo tra televisione, radio, teatro e cinema.

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Abstract: ITA | ENG

Negli ultimi anni vi è stato un aumento delle forme di rappresentazione mediale della maternità e del diventare genitori sui visual social media (Das, 2019). Un tema poco studiato è la modalità con cui l’esperienza della genitorialità viene rappresentata nello spazio domestico nel periodo perinatale. Temi rilevanti sono: a) la modalità di negoziazione della propria intimità fra dimensione privata, pubblica e mediatizzata; b) la gestione degli spazi domestici, a partire dalle esigenze personali e dalle indicazioni che provengono dal proprio network e dai media c) la raccolta di informazioni utili in un’ottica di tutoring e caring; d) il rapporto con l’immagine dell’“angelo del focolare” e della madre perfetta, che diverse narrazioni dal basso stanno ora provando a scardinare (Cino, 2020). Il paper si basa sui risultati di una ricerca empirica: interviste a neo-mamme e analisi visuale (Rose, 2016) di un corpus di profili social focalizzati sul vissuto dei neogenitori. Il paper si collega ai progetti Opinion Leader 4 Future e Health Communication Monitor attivati da Almed, Alta Scuola in Media, Comunicazione e Spettacolo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

In recent years there has been an increase in the forms of medial representation of motherhood and parenthood on visual social media (Das, 2019). A little-studied issue is how the experience of parenthood is represented in the domestic space in the perinatal period. Relevant issues are: a) the way in which one negotiates one's intimacy between private, public, and mediatized dimensions; b) the management of domestic spaces, starting from personal needs and indications coming from one's network and the media c) the gathering of useful information from a mentoring and caring perspective; d) the relationship with the image of the "angel of the hearth" and the perfect mother, which several narratives from below are now trying to disrupt (Cino, 2020). The paper is based on the results of empirical research: interviews with new mothers and visual analysis (Rose, 2016) of a corpus of social profiles focused on the experiences of new parents. The paper links to the Opinion Leader 4 Future and Health Communication Monitor projects activated by Almed, Alta Scuola in Media, Comunicazione e Spettacolo of the Università Cattolica del Sacro Cuore.

La maternità: il vissuto informativo e mediale

La contemporaneità è caratterizzata dalla diffusione e dall’accessibilità di molti saperi differenti che spesso si sovrappongono in modo non sempre armonico. In particolare, con la diffusione di internet e dei social media, si è creato un panorama composito di propagazione dell’informazione che può generare un più facile e diretto accesso alle fonti informative ma al contempo anche causare la diffusione di fake news, notizie non verificate o fuorvianti (misleading information) e di panico morale conseguente. Il settore della salute, in modo esteso, è stato al centro di tali trasformazioni sin dalla prima decade degli anni Duemila con una brusca accelerazione durante la pandemia di Covid-19. La ricerca ha messo in luce aspetti positivi e negativi di questo processo.

Da una parte, fenomeno dell’apomediation (Eysenbach 2008), ovvero della consultazione diretta di notizie di salute senza la mediazione di un professionista della salute, è stato riscontrato a proposito di internet e social media nella misura in cui le persone si affidano a ‘Dr. Google’ (Lee et al. 2014) per individuare diagnosi e terapie. Dall’altra parte, internet e i social media rappresentano validi spazi per il supporto sociale, la diffusione di notizie controllate, la creazione di reti sociali legate a tematiche specifiche (Moorehead at al. 2013). Negli ultimi anni si è inoltre verificato un fenomeno di ulteriore intermediazione dal momento che anche i professionisti della salute hanno iniziato a usare i social media come spazi di promozione della propria attività libero-professionale e/o di divulgazione (Locatelli 2021).

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Il saggio prende in analisi il caso di Juno Calypso, giovane fotografa britannica specializzata in serie autoritrattistiche. Gli scatti, estremamente omogenei, ricreano un immaginario vintage zuccheroso e barocco abitato dal suo alter ego Joyce, una donna intrappolata in un estenuante processo di femminilizzazione e perfezionamento. Nelle diverse serie analizzate, un ruolo centrale è ricoperto dagli spazi domestici, in particolare camere da letto e bagni, scelti e utilizzati con estrema cura. Attraverso l’obiettivo di Calypso le stanze, dalla casa della nonna alla suite matrimoniale dei Love Hotel fino al bunker del patron dei cosmetici Avon, rivelano la sua natura artificiosa di set ipertrofico che ospita la rigida messa in scena di Sé della donna e allude all’intimità virtuale e posticcia della cultura dei bedroom selfie.

The essay examines the case of Juno Calypso, a young British photographer who specializes in self-portrait series. The highly homogeneous shots recreate sugary, baroque vintage imagery inhabited by her alter ego Joyce, a woman trapped in a laborious process of feminization and refinement. In the different series analyzed, domestic spaces, particularly bedrooms and bathrooms, chosen and used with extreme care, are played a central role. Through Calypso's lens, each room, from the grandmother's house to the Love Hotel's bridal suite to the Avon cosmetics patron's bunker, reveals its contrived nature as a hypertrophic set that accommodates the rigid enactment of selves performed by the woman. In her work, she alludes to the virtual, posturing intimacy of bedroom selfie culture.

Nella recente Home Sweet Home 1970-2018. The British Home, A Political History, mostra curata da Isa Bonnet nei Rencontres d’Arles (2019) e dedicata al peculiare rapporto tra i britannici e la loro casa, stupisce trovare un autoscatto di Juno Calypso in un bunker americano. Se avrete la pazienza di leggere le righe seguenti, capirete perché.

Juno Calypso, classe 1989, è una giovane e pluripremiata fotografa britannica che si è affacciata sulla scena internazionale con le serie Joyce I (2012), vincitrice dell’Art Catlin Award, per essere poi consacrata dall’International Photography Award nel 2016. Tutti i suoi lavori artistici sono progetti autoritrattistici che sviluppa in serie, ai quali si sono aggiunte commissioni glamour come quella di Billie Eilish per la copertina di «Garage Magazine» (issue 16), per Stella McCartney (2017), per Burberry (2018). In Italia le sue fotografie sono state esposte allo Studio Giangaleazzo Visconti e alla Fondazione Prada a Milano.

Nel primo e più ampio progetto, Joyce, diviso in due serie, la prima del 2012 e la seconda del 2015, Calypso ha dato vita a un alter ego, Joyce, una sorta di casalinga disperata degli anni Settanta intrappolata in zuccherosi e irraggiungibili ideali di bellezza e femminilità. Ai primi scatti analogici centrati sulla performance dell’autrice che interpreta in mezzo busto frontale una receptionist, un’impiegata, una promoter, un’assistente di volo – per fare solo alcuni esempi – sono seguiti autoritratti intimi situati in camere da letto immaginarie. Al banco e al fondale grigio delle lavoratrici si sono sostituiti spazi più articolati con arredamenti retrò come la casa della nonna o le camere da letto di alcuni amici. L’elemento distintivo della serie Joyce, e più in generale delle opere di Juno Calypso, risiede proprio nella scelta e nell’elaborato allestimento dei set fotografici, patinati e rigorosamente in interni privati, che assegnano all’ambiente domestico un ruolo di comprimario negli autoritratti dell’artista. L’importanza del luogo è testimoniata dalla scelta originale delle ambientazioni delle sue opere e dalla preferenza accordata ai formati ampi, poco comuni negli scatti autoritrattistici.

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A partire da una prospettiva che interseca diversi livelli di subalternità (donna-nera-senza radici), la regista e artista afro-femminista Amandine Gay ripercorre, nel suo film Une histoire à soi (2020), la storia di cinque persone adottate attraverso le loro immagini private. Le fotografie e i film di famiglia mostrano esperienze di adozioni transnazionali e transrazziali dentro a contesti domestici in cui il/la nuovo/a arrivato/a viene accolto/a come corpo individuale da annettere alla stirpe, secondo un principio di somiglianza che è dettato da convenzioni sociali, spesso veicolate dalle stesse pratiche visive amatoriali. Tradizionalmente, infatti, la casa si configura sia come lo spazio di esibizione di immagini di famiglia, sia come lo scenario per la rappresentazione del gruppo familiare nei momenti di festa e autocelebrazione. Tuttavia, nel caso delle famiglie adottive, simili rappresentazioni mostrano un’eccedenza che rimarca la discontinuità e la differenza tra i bambini e il resto del gruppo, richiamando un altrove che si definisce grazie alla reinterpretazione del principio di analogia, su cui si fonda una nuova identità sotto il segno della relazione estesa.

By structuring her perspective around different levels of subalternity (woman-black-rootless), in the film Une histoire à soi (2020), Afro-feminist filmmaker and artist Amandine Gay traces the history of five adoptees through their private images. The family photographs and films show experiences of transnational and transracial adoptions within domestic contexts in which the newcomer is welcomed as an individual body to be annexed to the lineage, according to a principle of resemblance that is dictated by social conventions, often conveyed by the same amateur visual practices. Traditionally, in fact, the home is configured both as the space for the exhibition of family images and as the setting for the representation of the family group in moments of happiness and self-celebration. However, in the case of adoptive families, such representations show an excess that emphasises the discontinuity and difference between the children and the rest of the group, recalling an elsewhere that is defined through the reinterpretation of the principle of analogy, on which a new identity is founded under the sign of the extended relationship.

Non mi è necessario tentare di diventare l’altro (di diventare altro), né di ‘fare’ l’altro a mia immagine.

É. Glissant

 

All’interno delle mura domestiche, la sala da pranzo è spesso percepita come il luogo dell’incontro tra le diverse generazioni. La convivialità dei pasti in famiglia fa rivivere i ricordi e concede spazio al racconto di episodi e aneddoti che si tramandano nel tempo (Demetrio 2022). In sala poi, si espongono fotografie che rappresentano i momenti salienti e le figure centrali della storia familiare, ma molte volte è questo stesso spazio a trasformarsi nella cornice di nuove immagini tese a fissare la complicità che unisce i vari membri della famiglia. In molte inquadrature, i soggetti sono ritratti vicini gli uni agli altri, si guardano reciprocamente, di frequente si stringono in un abbraccio, compiono cioè gesti che ostentano una prossimità affettiva attenta a rimarcare l’orgoglio di appartenere alla stessa stirpe. Non di rado si offre a livello visivo una somiglianza di tratti che connota l’identità familiare nel suo complesso, generando una trasformazione dell’ambiente domestico in ‘spazio dell’analogia’, vale a dire uno spazio agente in cui la disposizione dei corpi, reali o riprodotti in immagine, modella i processi di mutuo riconoscimento tra i membri del gruppo. Come infatti sostengono Marre e Bestard, le pratiche visive offrono l’opportunità di interrogare la potenza culturale delle somiglianze e delle connessioni corporee, dal momento che, seguendo il pensiero freudiano, nei processi di identificazione il soggetto forma sé stesso o sé stessa ‘per analogia’ rispetto a coloro che lo hanno preceduto o appartengono alla propria famiglia nel presente (Marre, Bestard 2009).

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L’uso strategico dei social media come strumento imprescindibile per creare e mantenere una propria celebrity persona è un fenomeno relativamente recente nell’ecosistema delle celebrity italiane. In parte per una minore o più tardiva pervasività dei social e della loro adozione, in parte per una riluttanza di adattamento a un sistema transnazionale e internazionale che soltanto in tempi recenti è diventato alla portata delle più o meno giovani star italiane, in un fiorire di nuove strategie comunicative profondamente genderizzate. In particolare, a mio avviso è interessante concentrarci sulle attrici che hanno avuto una svolta importante per le loro carriere proprio all’interno di produzioni rese popolarissime sia in Italia che all’estero grazie alla loro distribuzione su Netflix, produzioni dedicate specificamente a un target di giovani e giovanissimi, avvezzi all’uso di un mezzo come Instagram.

Ho selezionato quindi tre profili di giovani attrici con simili caratteristiche: Benedetta Porcaroli, classe 1996, la cui carriera avviata da giovanissima prendendo parte alla serie Tutto può succedere (Rai, 2015-2018) è decollata dopo aver interpretato per tre stagioni Chiara, una delle protagoniste della serie teen Baby (Netflix, 2018-2020) [fig. 1]. Ludovica Martino, classe 1997, che negli ultimi tempi ha iniziato a interpretare anche ruoli di giovane adulta come ne Il Campione (Leonardo d’Agostini, 2019) e Lovely Boy (Francesco Lettieri, 2021), ma che deve la sua fama al ruolo di Eva, una delle protagoniste di SKAM Italia (2018-, la serie è notoriamente un format nato in Norvegia, e riadattato in nove versioni in altrettanti Paesi [fig. 2]. E infine Coco Rebecca Edogamhe, classe 2001, la più giovane delle tre, che al momento conta in carriera soltanto il ruolo che l’ha fatta conoscere, quello di Summer, la protagonista di Summertime (Netflix, 2020-) [fig. 3].

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