3.4. «Non riuscivo a vedermi da nessuna parte». Amandine Gay e le immagini di casa in bilico tra due mondi

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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A partire da una prospettiva che interseca diversi livelli di subalternità (donna-nera-senza radici), la regista e artista afro-femminista Amandine Gay ripercorre, nel suo film Une histoire à soi (2020), la storia di cinque persone adottate attraverso le loro immagini private. Le fotografie e i film di famiglia mostrano esperienze di adozioni transnazionali e transrazziali dentro a contesti domestici in cui il/la nuovo/a arrivato/a viene accolto/a come corpo individuale da annettere alla stirpe, secondo un principio di somiglianza che è dettato da convenzioni sociali, spesso veicolate dalle stesse pratiche visive amatoriali. Tradizionalmente, infatti, la casa si configura sia come lo spazio di esibizione di immagini di famiglia, sia come lo scenario per la rappresentazione del gruppo familiare nei momenti di festa e autocelebrazione. Tuttavia, nel caso delle famiglie adottive, simili rappresentazioni mostrano un’eccedenza che rimarca la discontinuità e la differenza tra i bambini e il resto del gruppo, richiamando un altrove che si definisce grazie alla reinterpretazione del principio di analogia, su cui si fonda una nuova identità sotto il segno della relazione estesa.

By structuring her perspective around different levels of subalternity (woman-black-rootless), in the film Une histoire à soi (2020), Afro-feminist filmmaker and artist Amandine Gay traces the history of five adoptees through their private images. The family photographs and films show experiences of transnational and transracial adoptions within domestic contexts in which the newcomer is welcomed as an individual body to be annexed to the lineage, according to a principle of resemblance that is dictated by social conventions, often conveyed by the same amateur visual practices. Traditionally, in fact, the home is configured both as the space for the exhibition of family images and as the setting for the representation of the family group in moments of happiness and self-celebration. However, in the case of adoptive families, such representations show an excess that emphasises the discontinuity and difference between the children and the rest of the group, recalling an elsewhere that is defined through the reinterpretation of the principle of analogy, on which a new identity is founded under the sign of the extended relationship.

Non mi è necessario tentare di diventare l’altro (di diventare altro), né di ‘fare’ l’altro a mia immagine.

É. Glissant

 

All’interno delle mura domestiche, la sala da pranzo è spesso percepita come il luogo dell’incontro tra le diverse generazioni. La convivialità dei pasti in famiglia fa rivivere i ricordi e concede spazio al racconto di episodi e aneddoti che si tramandano nel tempo (Demetrio 2022). In sala poi, si espongono fotografie che rappresentano i momenti salienti e le figure centrali della storia familiare, ma molte volte è questo stesso spazio a trasformarsi nella cornice di nuove immagini tese a fissare la complicità che unisce i vari membri della famiglia. In molte inquadrature, i soggetti sono ritratti vicini gli uni agli altri, si guardano reciprocamente, di frequente si stringono in un abbraccio, compiono cioè gesti che ostentano una prossimità affettiva attenta a rimarcare l’orgoglio di appartenere alla stessa stirpe. Non di rado si offre a livello visivo una somiglianza di tratti che connota l’identità familiare nel suo complesso, generando una trasformazione dell’ambiente domestico in ‘spazio dell’analogia’, vale a dire uno spazio agente in cui la disposizione dei corpi, reali o riprodotti in immagine, modella i processi di mutuo riconoscimento tra i membri del gruppo. Come infatti sostengono Marre e Bestard, le pratiche visive offrono l’opportunità di interrogare la potenza culturale delle somiglianze e delle connessioni corporee, dal momento che, seguendo il pensiero freudiano, nei processi di identificazione il soggetto forma sé stesso o sé stessa ‘per analogia’ rispetto a coloro che lo hanno preceduto o appartengono alla propria famiglia nel presente (Marre, Bestard 2009).

Per questa ragione, occorre indagare quali elementi intervengono nell’attivazione di fenomeni di riconoscimento in cui la dimensione relazionale della persona si esprime, prima di tutto, sulla base della somiglianza come costrutto sociale, affinché si crei una continuità tra gli individui appartenenti allo stesso gruppo familiare. Tra questi elementi troviamo sicuramente le immagini di famiglia da intendersi sia come oggetti materiali che arredano gli ambienti domestici o in essi sono custodite, sia come pratiche simboliche in cui la casa appare come scenario privilegiato.

Più che altrove il desiderio di creare effetti di somiglianza e continuità tra i membri di una stessa famiglia si rende chiaro all’interno di filmini e fotografie prodotti in occasione dell’arrivo dei nuovi nati, la cui immagine è ancora una tela bianca sulla quale disegnare tratti ereditari socialmente, più che geneticamente, elaborati. Lo stesso vale nei casi di adozione transnazionale e transrazziale: i genitori adottivi considerano, infatti, la somiglianza come un modo per rafforzare i legami affettivi, affidandosi alla mediazione delle immagini perché possono modellare visivamente connessioni fisiche, caratteriali e comportamentali. In qualche modo, i genitori adottivi proiettano la propria identità sul corpo del bambino o della bambina adottati, allo scopo di stabilire somiglianze, attribuendogli(le) un nuovo nome e identificando in lui o lei il comportamento tipico del corpo familiare. Di questo fenomeno si occupa la regista afro-femminista Amandine Gay nel suo recente documentario Une histoire à soi (Francia, 2020), in cui cinque persone adottate – Anne-Charlotte, Joohee, Céline, Niyongira e Mathieu – intrecciano le proprie voci e i propri album di famiglia, riflettendo su un’identità che deve fare i conti con la frattura e lo sradicamento, vero e proprio contrappunto a qualsiasi idea di continuità all’interno della genealogia familiare. Qui, però, la casa e le immagini di famiglia diventano i dispositivi per osservare come il principio dell’‘analogia’, costitutivo del corpo familiare, possa essere contaminato da percezioni culturali riconducibili a politiche ‘assimilazioniste’ che hanno negato la differenza etnica, culturale e genealogica dell’Altro per annetterlo dentro il paradigma della bianchezza.

Attraverso il puro recupero e montaggio di fotografie e film di famiglia, senza pertanto l’inclusione di immagini o videointerviste girate al presente, la regista sceglie di eclissare la propria presenza come voce e corpo a favore del racconto in voice over dei protagonisti e delle protagoniste, il cui flusso di pensieri non va mai alla ricerca di corrispondenze dirette con le rappresentazioni di sé durante l’infanzia, l’adolescenza e la più recente età adulta. In tutti gli archivi compaiono i grandi ritrovi in sala da pranzo in compagnia di nonni e nonne, zii e zie, cugini e cugine; la disposizione dei corpi è perlopiù ad anello intorno alla tavola o seduti in salotto, come a creare un’area circolare al cui centro è messo il bimbo o la bimba adottati. Ad esempio, tra le prime immagini realizzate all’arrivo in famiglia, troviamo Céline che appare in braccio alla madre mentre è a tavola con altri parenti [fig. 1]; oppure si vede Joohee messa in posizione centrale all’interno di fotografie scattate durante un evento familiare, in cui la si osserva passare da un genitore all’altro tra i cuginetti [fig. 2]. Oppure ancora Mathieu compare il giorno di Natale seduto a tavola vicino al padre e, nel film girato in quell’occasione, viene ripreso mentre consegna in salotto i doni di Natale ai vari parenti, a cui dà ogni volta un bacio secondo quanto prescritto dalla regia [fig. 3]. L’euforia è palpabile, tanto quanto la perfetta mutuazione dei codici sociali tipici delle immagini di famiglia: l’iscrizione del giovane corpo individuale dentro una catena generazionale, in cui si posiziona come l’ultimo anello secondo una progressione lineare e intenzionalmente presentata, attraverso gesti e posture convenzionali, come assolutamente ‘naturale’ e normalizzato, nonostante le evidenti differenze fenotipiche (colore della pelle, texture dei capelli, morfologia degli occhi, ecc.). Non a caso, le testimonianze di Joohee e di Céline, associate dalla regista alla visione dei loro album di famiglia, si soffermano sulla tendenza dei propri genitori a ignorare o appianare le differenze somatiche tra sé e le proprie figlie adottive. In questo senso, le pratiche visive e audiovisive tendono a costruire effetti di connessione tra i soggetti secondo un ordinamento dei corpi nello spazio, dove si orientano i gesti e le performance davanti all’obiettivo. Tuttavia, esse non riescono a disciplinare l’eccedenza della discontinuità visiva che si sprigiona dai volti e dai corpi delle bambine adottate. Se dunque da un lato le rappresentazioni di famiglia, conservate o esposte in casa, si costituiscono come ‘oggetti di conforto’ mediante i quali le persone danno significato e ordine al proprio essere nel mondo in connessione con i prossimi (Sandbye 2014), dall’altro lato esse reclamano il riconoscimento non solo di un’analogia costruita, ma anche della ‘discontinuità’ che ha segnato la storia di vita dei soggetti adottati. Detto altrimenti, negli album di famiglia raccolti in queste case della borghesia francese, dove si colloca l’altrove da cui provengono i bambini adottati? Queste immagini hanno di fatto un fuori campo che prende forma dal ricordo o dall’immaginario elaborato a partire da un ideale di casa che recupera le proprie origini, a volte dimenticate, altre volte rimosse. Casa è per Mathieu il Brasile, per Anne-Charlotte l’Australia, per Joohee la Corea del Sud, per Céline lo Sri Lanka, per Niyongira il Rwanda. Per alcuni di loro, la propria autobiografia visiva si alimenta di nuove rappresentazioni di sé con le proprie famiglie biologiche, sullo sfondo di altri spazi domestici grazie ai quali ‘estendere’ la propria identità secondo un modello rizomatico in grado di accettare il principio della differenza, alterità e demoltiplicazione delle origini (Glissant 2007). Ad esempio, Niyongira ritrova la sorella in Rwanda e lì torna più volte con sua figlia; invece Mathieu ‘adotta’ la sua famiglia biologica con il sostegno dei propri genitori adottivi, insieme ai quali costruisce un nuovo album di ricordi dopo l’incontro con la madre biologica [fig. 4], fino alla costruzione di un vero e proprio rito familiare in cui tutti i membri di questa famiglia allargata si ritrovano periodicamente in Brasile a celebrare, intorno a una tavolata imbandita a festa, la propria coesione. Addirittura capita ormai che i genitori adottivi di Mathieu vadano a trovare i parenti biologici del proprio figlio adottivo in sua assenza [fig. 5].

Nel seguire i fili intrecciati di questi racconti, in filigrana prende forma lo sguardo della regista, che ha volutamente lasciato fuori dai margini del documentario la propria storia di bambina nera, con un passato da ‘figlia di N.N.’ e poi adottata da una famiglia francese bianca. Consumata dall’assenza di tracce sulle proprie origini, Gay intraprende un importante percorso di autoconoscenza attraverso la ricerca teorico-sperimentale nel campo dell’afro-femminismo, il suo impegno di attivista politica e il suo ruolo professionale di artista come attrice e filmmaker, tanto da darsi una nuova nascita come figlia delle proprie opere, secondo quanto afferma nella sua autobiografia Une poupée en chocolat (Gay 2021). A partire quindi da una condizione di massima subalternità (donna, nera, senza storia), il documentario Une histoire à soi dà espressione a un sentimento condiviso dalla filmmaker con i protagonisti del film, traducibile nel concetto di outsider within. Si tratta, in altre parole, di una soggettività razzializzata che è contemporaneamente iper-visibile ed esclusa dalla società, giacché la sua assimilazione al gruppo dominante è in fondo sempre problematica, controversa o banalmente sottaciuta (Gay 2021, p. 153). Per Gay, essere una donna nera adottata da una famiglia bianca la costringe a vivere in uno stato perenne di ‘bianchezza condizionale’, un’appartenenza riconosciuta solo a patto di prendere le distanze dalla propria comunità di origine. È probabilmente per questa ragione che la regista giunge a definire la pratica filmica come un vero e proprio processo di autogenerazione in cui si pone quale ‘osservatrice partecipante della propria vita’. In maniera simile al lavoro dell’autoetnografo, Gay elabora un discorso visivo alternando una prospettiva interna/insider (dire a partire da esperienze vissute direttamente) e una prospettiva esterna/outsider (interpretare l’esperienza vissuta collocandola in un contesto più ampio, rispetto alla storia di vita, alla cultura, alla società). Ecco perché, attraverso la peculiare rappresentazione delle case delle famiglie adottive al centro del documentario, la filmmaker acquisisce una conoscenza di sé defamiliarizzando ciò che appare o è percepito come familiare. Così sulle immagini di famiglia che scorrono sotto gli occhi dello spettatore si sovrascrive una meta-rappresentazione dello spazio domestico che serve a rifocalizzare politicamente il sistema delle adozioni transnazionali come sopravvivenza, nella società contemporanea, di un modello coloniale. La dipendenza politica e lo sfruttamento economico delle colonie sono infatti stati storicamente spiegati e naturalizzati attraverso la metafora della famiglia (Banerjee 2019). Ciò ha implicato la traslazione di significati attribuibili a un sistema di sfruttamento tramite la valorizzazione positiva della forma di parentela, in base alla quale l’amorevole ‘madre patria’ poteva curarsi dei propri figli colonizzati prendendo decisioni al loro posto. Dunque, un sistema di potere simbolicamente femminilizzato che, peraltro, ha vessato le donne povere, sole, umiliate, etnicamente diverse impedendo loro di essere autosufficienti e autodeterminarsi in quanto madri. Con la sua e le altre storie di adozione transnazionale, Amandine Gay prova a slegare la ‘casa’ dal pensiero del territorio, connettendola a quello dell’erranza. In questo senso, il desiderio di (ri)vedere la propria casa di origine, a cui si salda la ricerca del volto della propria madre biologica, sembra reinterpretare l’analogia sotto il segno della relazione estesa. Solo un vissuto cosciente può così sostituire il debito della filiazione genealogica, che assimila in un’unica radice con la logica della connessione e della condivisione di radici plurime e demoltiplicate.

 

Bibliografia

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M. Banerjee, ‘Postcolonialism’, in M. Wagner-Egelhaaf, (a cura di), Handbook of Autobiography / Autofiction, Berlin, De Gruyter, 2019, pp. 130-135.

C. Delage-Chollet, ‘Images de l’adoption. Les usages de la photographie et de la vidéo dans le familles adoptives’ in A. Fine, C. Neirinck (a cura di), Parents de sang, Parents adoptifs. Approches juridiques et anthropologiques de l’adoption en France, Europe, USA, Canada, Droit et Societé, vol. 29, 2000, pp. 291-309.

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É. Glissant, Poétique de la Relation. Poétique III, Paris, Gallimard, 1990; trad. it. Poetica della Relazione. Poetica III, Macerata, Quodlibet, 2007.

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