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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Nel mio intervento vorrei parlare di un lavoro del 1988 di Mona Hatoum: Measures of Distance. Il video racconta per immagini la possibilità di uno scambio intimo fra esistenze che si snodano lontane.  Le vicende di una madre e una figlia, divise prima dalla guerra e poi dalla storia (la famiglia di Hatoum è palestinese), vengono colte in un momento di apparente ricomposizione, ma lasciano delle misure di distanza che si sono fatte reali nel progressivo allontanarsi dei mondi personali e privati. Hatoum riproduce e trasferisce sullo schermo le lettere scritte a mano che percorrevano la distanza da Beirut a Londra fra lei e la madre. La trascrizione dei caratteri arabi scorre accompagnata da una voce – quella dell’artista – che legge a voce alta e in inglese. Sullo sfondo l’immagine della madre, ripresa nella doccia dalla stessa Hatoum nel corso di un viaggio in Libano. Alla lettura della corrispondenza si alternano frammenti di conversazione fra madre e figlia, discorsi intorno alla vita, l’amore, la sessualità, il matrimonio. Il corpo materno, forte, è ripreso in modo da mostrare anche la sua fragilità e si confonde con lo sfondo dell’immagine.  Le lettere che scorrono sullo schermo – in una lingua per molti inaccessibile in Occidente – sono tramite e divisione, una gabbia di caratteri che mettono in contatto madre e figlia ma le lasciano distanti nello spazio. Legate da un rapporto che è rappresentato per la sua intimità, le due donne sanno di vivere mondi separati. In questa scena minuta, in un angolo della casa, Hatoum prende lo spazio per disporre gli elementi principali di una geopolitica che già negli anni Ottanta annunciava la complessità con cui il presente convive: il peso delle guerre, le migrazioni, l’esilio, le identità culturali, il dominio dell’Occidente in un mondo globalizzato. Il percorso di Hatoum si muove in varie opere intorno ai temi della casa, ma se in molti lavori, soprattutto a partire dalla fine degli anni Novanta, l’avvicinamento ai temi del domestico avviene attraverso la poetica del perturbante, in questo video la costruzione di una sorta di hammam domestico e privato libera le possibilità di uno scambio intimo e duraturo.

In this paper I would like to talk about Mona Hatoum’s work, Measure of Distance, issued in 1988. Through the images, the video shows the possibility of an intimate exchange between existences unfolding far away from each other. The events of a mother and daughter, divided first by the war and then by history (Hatoum’s family is Palestinian), are captured in a moment of apparent recomposition, which, nevertheless, leaves ‘measures of distance’ that have become real in the progressive distancing of their personal and private world. Hatoum reproduces and transfers to the screen the handwritten letters that traveled from Beirut to London, through the distance separating her from her mother. The transcription of the Arabic characters of the letters runs accompanied by a voice – that of the artist – who reads them aloud and in English. In the background, we see the image of her mother, taken in the shower by Hatoum herself during a trip to Lebanon. The reading of the correspondence alternates with fragments of conversation between mother and daughter, talks about life, love, sexuality, marriage. The strong maternal body is taken up in such a way as to show her fragility as well and blends into the background of the image. The letters that scroll across the screen – in a language inaccessible to many in the West – are connections and division, a cage of characters that connect mother and daughter but leave them distant in space. Linked by a relationship that is represented by its intimacy, the two women know they live in separate worlds. In this minute scene, in a corner of the house, Hatoum takes the space to arrange the main elements of a geopolitics that already in the Eighties heralded the complexity with which the present coexists: the weight of wars, migrations, exile, cultural identities, the domination of the West in a globalized world. The path of Hatoum moves in various works around the themes of the house. However, while in many of her works, especially those issued at the end of the nineties, the approach to the themes of the domestic takes place through the poetics of the uncanny, in this video the construction of a sort of domestic and private hammam frees up the possibilities of an intimate and lasting exchange.

1. Introduzione

Measures of Distance è un lavoro di Mona Hatoum di grande delicatezza, perfetto per una riflessione sulla libertà con cui, dopo il «taglio femminista» (per usare un’espressione di Carla Lonzi), è possibile entrare e sostare nello spazio domestico – concettualmente e concretamente – senza temere l’ombra della grande ala dell’angelo del focolare. Il lavoro ci consegna una nozione di intimità che supera e sfida, in piena continuità con il femminismo degli anni Settanta, i tradizionali steccati che pretendevano di separare la sfera personale da quella pubblica. In questo video del 1988 l’operazione di Hatoum, a partire dalla costruzione di un dispositivo complesso, è quello di legare rappresentazione e soggettività, immergendosi nel racconto di una relazione madre-figlia, in cui proprio il tema dell’intimità serve come punto di passaggio per una riflessione che non è esagerato definire geo-politica. Gli elementi principali di una configurazione del mondo che già negli anni Ottanta annunciava la complessità con cui il presente convive – il peso delle guerre, le migrazioni, l’esilio, le identità culturali, il dominio dell’Occidente in un mondo globalizzato – sono richiamati dalla sovrapposizione di elementi visivi e sonori. Sullo sfondo l’immagine della madre, ripresa nella doccia dalla stessa Hatoum nel corso di un ritorno a casa, in Libano, nel 1981.

Figlia di genitori palestinesi rifugiati in Libano, Hatoum ha replicato una vicenda di esilio. Trovatasi a Londra al momento dello scoppio della guerra civile in Libano del 1975 e impossibilitata a tornare nel suo Paese, la sua condizione è stata a lungo quella di apolide. È stato detto che Measures of Distance è uno dei pochi lavori, se non l’unico, con un intento chiaramente autobiografico: l’intensità dei materiali e l’uso che ne fa l’artista lo rendono una vera e propria auto-etnografia (Kahn 2007). Hatoum parla di esilio scegliendo di raccontare la distanza che si è creata fra lei e la madre, senza temere ricadute nostalgiche, né riduzioni del discorso a una dimensione privata e femminile, limitata e separata così come vorrebbe la tradizione. Hatoum riproduce, dunque, e trasferisce sullo schermo, le lettere scritte a mano della madre che percorrevano la distanza da Beirut a Londra. La trascrizione dei caratteri arabi scorre accompagnata da una voce – quella dell’artista – che legge quelle stesse lettere in inglese con un tono che tradisce la tristezza e la nostalgia. Alla lettura della corrispondenza si alternano frammenti di conversazione in arabo tra madre e figlia, registrati dal vivo.

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Abstract: ITA | ENG

A partire da una prospettiva che interseca diversi livelli di subalternità (donna-nera-senza radici), la regista e artista afro-femminista Amandine Gay ripercorre, nel suo film Une histoire à soi (2020), la storia di cinque persone adottate attraverso le loro immagini private. Le fotografie e i film di famiglia mostrano esperienze di adozioni transnazionali e transrazziali dentro a contesti domestici in cui il/la nuovo/a arrivato/a viene accolto/a come corpo individuale da annettere alla stirpe, secondo un principio di somiglianza che è dettato da convenzioni sociali, spesso veicolate dalle stesse pratiche visive amatoriali. Tradizionalmente, infatti, la casa si configura sia come lo spazio di esibizione di immagini di famiglia, sia come lo scenario per la rappresentazione del gruppo familiare nei momenti di festa e autocelebrazione. Tuttavia, nel caso delle famiglie adottive, simili rappresentazioni mostrano un’eccedenza che rimarca la discontinuità e la differenza tra i bambini e il resto del gruppo, richiamando un altrove che si definisce grazie alla reinterpretazione del principio di analogia, su cui si fonda una nuova identità sotto il segno della relazione estesa.

By structuring her perspective around different levels of subalternity (woman-black-rootless), in the film Une histoire à soi (2020), Afro-feminist filmmaker and artist Amandine Gay traces the history of five adoptees through their private images. The family photographs and films show experiences of transnational and transracial adoptions within domestic contexts in which the newcomer is welcomed as an individual body to be annexed to the lineage, according to a principle of resemblance that is dictated by social conventions, often conveyed by the same amateur visual practices. Traditionally, in fact, the home is configured both as the space for the exhibition of family images and as the setting for the representation of the family group in moments of happiness and self-celebration. However, in the case of adoptive families, such representations show an excess that emphasises the discontinuity and difference between the children and the rest of the group, recalling an elsewhere that is defined through the reinterpretation of the principle of analogy, on which a new identity is founded under the sign of the extended relationship.

Non mi è necessario tentare di diventare l’altro (di diventare altro), né di ‘fare’ l’altro a mia immagine.

É. Glissant

 

All’interno delle mura domestiche, la sala da pranzo è spesso percepita come il luogo dell’incontro tra le diverse generazioni. La convivialità dei pasti in famiglia fa rivivere i ricordi e concede spazio al racconto di episodi e aneddoti che si tramandano nel tempo (Demetrio 2022). In sala poi, si espongono fotografie che rappresentano i momenti salienti e le figure centrali della storia familiare, ma molte volte è questo stesso spazio a trasformarsi nella cornice di nuove immagini tese a fissare la complicità che unisce i vari membri della famiglia. In molte inquadrature, i soggetti sono ritratti vicini gli uni agli altri, si guardano reciprocamente, di frequente si stringono in un abbraccio, compiono cioè gesti che ostentano una prossimità affettiva attenta a rimarcare l’orgoglio di appartenere alla stessa stirpe. Non di rado si offre a livello visivo una somiglianza di tratti che connota l’identità familiare nel suo complesso, generando una trasformazione dell’ambiente domestico in ‘spazio dell’analogia’, vale a dire uno spazio agente in cui la disposizione dei corpi, reali o riprodotti in immagine, modella i processi di mutuo riconoscimento tra i membri del gruppo. Come infatti sostengono Marre e Bestard, le pratiche visive offrono l’opportunità di interrogare la potenza culturale delle somiglianze e delle connessioni corporee, dal momento che, seguendo il pensiero freudiano, nei processi di identificazione il soggetto forma sé stesso o sé stessa ‘per analogia’ rispetto a coloro che lo hanno preceduto o appartengono alla propria famiglia nel presente (Marre, Bestard 2009).

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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

La dimensione dell’attorialità quale luogo di emersione di istanze sensibili di un panorama socio-culturale trova oggi nutrimento nell’intersezione tra i cambiamenti intervenuti nel tessuto sociale italiano degli ultimi decenni, a fronte dei fenomeno della globalizzazione e dei flussi migratori, e le istanze di alcuni orientamenti critici o di studio – dal postcolonial ai racial studies – che, animando un dibattito relativamente recente in Italia sollecitato anche dalle dinamiche sopra richiamate, interrogano le ottiche interpretative, i processi memoriali del Paese, le narrazioni della sua Storia e delle sue storie, le rappresentazioni con cui ci interfacciamo con il mondo e le realtà quotidiane.

L’attorialità, nel manifesto rilanciato da Leonardo de Franceschi, tra i più attivi esponenti di tale dibattito, si conferma allora «luogo di lotta» in cui innestare una mirata «politica degli attori» – e delle attrici – che trova momento di sintesi nel contributo contenuto in L’Africa in Italia, per una controstoria postcoloniale del cinema italiano (2013) e slancio operativo nel successivo blog Cinemafrodiscendente, entrambi a cura dello stesso De Franceschi. Raccogliendo il testimone, il film di Fred Kuwornu, BlaxploItalian: 100 Years of Blackness in Italian Cinema che, nella sua forma in progress e definitiva, percorre da alcuni anni festival e rassegne, università e associazioni in Italia e all’estero, verte sul contributo rimosso di attrici e attori afrodiscendenti nel cinema italiano. Al contempo, dà voce alle rivendicazioni di professionisti che si confrontano con chiusure e persistenze della filiera realizzativa nel contesto attuale, tra cui la gestione dei casting e una certa definizione di ruoli e personaggi. BlaxploItalian scandisce una nuova tappa della progettualità di Kuwornu mirante a un’azione di rimodellamento della nozione di ‘cittadinanza’ in Italia, non ultima quella inerente al dominio cinema.

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