3.6. Measures of Distance: geopolitica dall’intimità

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Nel mio intervento vorrei parlare di un lavoro del 1988 di Mona Hatoum: Measures of Distance. Il video racconta per immagini la possibilità di uno scambio intimo fra esistenze che si snodano lontane.  Le vicende di una madre e una figlia, divise prima dalla guerra e poi dalla storia (la famiglia di Hatoum è palestinese), vengono colte in un momento di apparente ricomposizione, ma lasciano delle misure di distanza che si sono fatte reali nel progressivo allontanarsi dei mondi personali e privati. Hatoum riproduce e trasferisce sullo schermo le lettere scritte a mano che percorrevano la distanza da Beirut a Londra fra lei e la madre. La trascrizione dei caratteri arabi scorre accompagnata da una voce – quella dell’artista – che legge a voce alta e in inglese. Sullo sfondo l’immagine della madre, ripresa nella doccia dalla stessa Hatoum nel corso di un viaggio in Libano. Alla lettura della corrispondenza si alternano frammenti di conversazione fra madre e figlia, discorsi intorno alla vita, l’amore, la sessualità, il matrimonio. Il corpo materno, forte, è ripreso in modo da mostrare anche la sua fragilità e si confonde con lo sfondo dell’immagine.  Le lettere che scorrono sullo schermo – in una lingua per molti inaccessibile in Occidente – sono tramite e divisione, una gabbia di caratteri che mettono in contatto madre e figlia ma le lasciano distanti nello spazio. Legate da un rapporto che è rappresentato per la sua intimità, le due donne sanno di vivere mondi separati. In questa scena minuta, in un angolo della casa, Hatoum prende lo spazio per disporre gli elementi principali di una geopolitica che già negli anni Ottanta annunciava la complessità con cui il presente convive: il peso delle guerre, le migrazioni, l’esilio, le identità culturali, il dominio dell’Occidente in un mondo globalizzato. Il percorso di Hatoum si muove in varie opere intorno ai temi della casa, ma se in molti lavori, soprattutto a partire dalla fine degli anni Novanta, l’avvicinamento ai temi del domestico avviene attraverso la poetica del perturbante, in questo video la costruzione di una sorta di hammam domestico e privato libera le possibilità di uno scambio intimo e duraturo.

In this paper I would like to talk about Mona Hatoum’s work, Measure of Distance, issued in 1988. Through the images, the video shows the possibility of an intimate exchange between existences unfolding far away from each other. The events of a mother and daughter, divided first by the war and then by history (Hatoum’s family is Palestinian), are captured in a moment of apparent recomposition, which, nevertheless, leaves ‘measures of distance’ that have become real in the progressive distancing of their personal and private world. Hatoum reproduces and transfers to the screen the handwritten letters that traveled from Beirut to London, through the distance separating her from her mother. The transcription of the Arabic characters of the letters runs accompanied by a voice – that of the artist – who reads them aloud and in English. In the background, we see the image of her mother, taken in the shower by Hatoum herself during a trip to Lebanon. The reading of the correspondence alternates with fragments of conversation between mother and daughter, talks about life, love, sexuality, marriage. The strong maternal body is taken up in such a way as to show her fragility as well and blends into the background of the image. The letters that scroll across the screen – in a language inaccessible to many in the West – are connections and division, a cage of characters that connect mother and daughter but leave them distant in space. Linked by a relationship that is represented by its intimacy, the two women know they live in separate worlds. In this minute scene, in a corner of the house, Hatoum takes the space to arrange the main elements of a geopolitics that already in the Eighties heralded the complexity with which the present coexists: the weight of wars, migrations, exile, cultural identities, the domination of the West in a globalized world. The path of Hatoum moves in various works around the themes of the house. However, while in many of her works, especially those issued at the end of the nineties, the approach to the themes of the domestic takes place through the poetics of the uncanny, in this video the construction of a sort of domestic and private hammam frees up the possibilities of an intimate and lasting exchange.

1. Introduzione

Measures of Distance è un lavoro di Mona Hatoum di grande delicatezza, perfetto per una riflessione sulla libertà con cui, dopo il «taglio femminista» (per usare un’espressione di Carla Lonzi), è possibile entrare e sostare nello spazio domestico – concettualmente e concretamente – senza temere l’ombra della grande ala dell’angelo del focolare. Il lavoro ci consegna una nozione di intimità che supera e sfida, in piena continuità con il femminismo degli anni Settanta, i tradizionali steccati che pretendevano di separare la sfera personale da quella pubblica. In questo video del 1988 l’operazione di Hatoum, a partire dalla costruzione di un dispositivo complesso, è quello di legare rappresentazione e soggettività, immergendosi nel racconto di una relazione madre-figlia, in cui proprio il tema dell’intimità serve come punto di passaggio per una riflessione che non è esagerato definire geo-politica. Gli elementi principali di una configurazione del mondo che già negli anni Ottanta annunciava la complessità con cui il presente convive – il peso delle guerre, le migrazioni, l’esilio, le identità culturali, il dominio dell’Occidente in un mondo globalizzato – sono richiamati dalla sovrapposizione di elementi visivi e sonori. Sullo sfondo l’immagine della madre, ripresa nella doccia dalla stessa Hatoum nel corso di un ritorno a casa, in Libano, nel 1981.

Figlia di genitori palestinesi rifugiati in Libano, Hatoum ha replicato una vicenda di esilio. Trovatasi a Londra al momento dello scoppio della guerra civile in Libano del 1975 e impossibilitata a tornare nel suo Paese, la sua condizione è stata a lungo quella di apolide. È stato detto che Measures of Distance è uno dei pochi lavori, se non l’unico, con un intento chiaramente autobiografico: l’intensità dei materiali e l’uso che ne fa l’artista lo rendono una vera e propria auto-etnografia (Kahn 2007). Hatoum parla di esilio scegliendo di raccontare la distanza che si è creata fra lei e la madre, senza temere ricadute nostalgiche, né riduzioni del discorso a una dimensione privata e femminile, limitata e separata così come vorrebbe la tradizione. Hatoum riproduce, dunque, e trasferisce sullo schermo, le lettere scritte a mano della madre che percorrevano la distanza da Beirut a Londra. La trascrizione dei caratteri arabi scorre accompagnata da una voce – quella dell’artista – che legge quelle stesse lettere in inglese con un tono che tradisce la tristezza e la nostalgia. Alla lettura della corrispondenza si alternano frammenti di conversazione in arabo tra madre e figlia, registrati dal vivo.

Il tema del linguaggio è presente e preponderante, come dimostra la presenza dei caratteri arabi, delle chiacchiere registrate, della corrispondenza. Il gioco tra l’arabo e l’inglese, tra lingua madre e lingua appresa, mostra l’importanza del linguaggio nel definire legami intimi e di grande apertura, un tramite che unisce le due donne e che allo stesso tempo apre la scena a un pubblico ampio. È così che la nozione di intimità prende una connotazione politica: immagini e suoni, ponendosi di volta in volta come barriere o aperture, richiamano il tema dei confini, dei punti di accesso e di divieto che delineano la forma di Paesi e territori, e con questo la configurazione dei corpi e delle vite.

 

2. L’esilio e la doppia visione delle cose

Il tema dell’esilio è molto presente nel lavoro di Hatoum, e l’ha portata in più di un’occasione a lavorare sulla rappresentazione della casa e del suo estraniamento, della tensione fra la vita domestica e le trasformazioni che investono il mondo. Soprattutto a partire dagli anni Novanta, Hatoum individua una serie di strategie attraverso cui accostare elementi diversi, provocando momenti che incorporano una contraddizione inaspettata o un accostamento che sposta gli oggetti dal loro contesto di provenienza, in molti casi quello quotidiano e domestico. Attraverso una modalità performativa e spesso parodica, questa operazione di decontestualizzazione muta il significato degli oggetti, rendendoli rappresentanti di un mondo che da ordinario si fa minaccioso, inospitale, alienante. In questo modo Hatoum situa i suoi riferimenti al surrealismo nella tradizione aperta dall’arte femminista.

I testi critici sull’opera di Mona Hatoum sono numerosi e diversificati. Molti riprendono il saggio di Edward Said The Art of Displacemnt. Mona Hatoum’s Logic of Irreconciliables inizialmente pubblicato nel 2000, in occasione della prima mostra dell’artista alla Tate Gallery di Londra intitolata The Entire World as a Foreign Land. L’autore di Orientalismo mette al centro del suo discorso la capacità degli esuli di avere accesso a una doppia visione delle cose, di accedere – come in una musica – a una visione e al suo contrappunto:

 

Vedere il “mondo intero come una terra straniera” rende possibile l’originalità della visione. La maggior parte delle persone riconosce come propria una sola cultura, un solo ambiente, una sola patria; gli esuli ne riconoscono almeno due, e questa pluralità di visione dà luogo a un riconoscimento di dimensioni simultanee, un riconoscimento che – prendendo in prestito un termine dalla musica – è un contrappunto (Said 2001, p. 186).

In alcuni suoi lavori, Hatoum manifesta questa doppia visione insistendo sugli elementi della quotidianità, alterandone il senso attraverso un gioco di accostamenti e di dislocazioni che li rende contemporaneamente riconoscibili e ‘strani’, e proprio per questo capaci di far pensare o riflettere. È il caso dei suoi lavori più noti, come No way II (1997) e Home (1999), in cui intorno a oggetti apparentemente innocui – un tavolo da cucina ricoperto di utensili, uno scolapasta – si genera una sorta di paura, di pericolo, di inaspettata inquietudine.

Quando nel 1988 Hatoum lavora a Measures of Distance la sua poetica non è ancora così precisa. Il processo di destabilizzazione dell’immagine, che di solito serve a Hatoum a mettere in discussione l’ovvietà del linguaggio visivo attraverso lo spaesamento, la parodia, la dislocazione, nel film prende un’altra strada. In Measures of Distance l’artista decide di affrontare la costruzione di un dispositivo narrativo che ruota sulla relazione madre-figlia in rapporto alla distanza, rinunciando all’idea di dislocazione che sarà tipica dei suoi lavori successivi. La visione del video suggerisce altri stati d’animo e una diversa implicazione di chi osserva.

 

3. Una nozione politica di intimità

È la stessa Hatoum a parlare di questo lavoro come di un punto di svolta, dopo il quale la preoccupazione che l’ha accompagnata nei primi anni del suo percorso – quella di voler esprimere tutto attraverso un’opera, di affrontare questioni ampie e con troppe aperture – ha lasciato il posto alla libertà di concentrarsi su singole esperienze, con una maggiore attenzione rivolta agli aspetti formali e alla loro tenuta. In un’intervista, rilasciata all’artista Janine Antoni e apparsa sulla rivista «Bomb» nel 1998, Hatoum racconta di essersi trovata per anni nell’agonia di capire come usare le foto fatte alla madre nel corso di un suo ritorno a casa, tenendo conto del modo in cui il femminismo aveva problematizzato l’uso delle immagini dei corpi femminili.

 

Measures of Distance is quite a significant work for me. I see it as the culmination and conclusion of all the early narrative and issue-based work. For years I was trying to make general and objective statements about the state of the world. With Measures of Distance I made a conscious decision to delve into the personal-however complex, confused, and contradictory the material I was dealing with was. During a visit to Beirut in 1981, I had taken a dozen slides of my mother taking a shower. At the time, feminism had so problematized the issue of representation of women that images of women vacated the frame, they became absent. It was quite depressing. For a few years I agonized over whether I should use these images of my mother in my work. I didn’t make the work in its final form until 1988, but in between I used the material in a performance work. Anyway, once I made the work I found that it spoke of the complexities of exile, displacement, the sense of loss and separation caused by war. In other words, it contextualized the image, or this person, “my mother,” within a social-political context.

Il video ha una durata di oltre 15 minuti, in cui Hatoum pone chi guarda in una condizione di non facile ricezione audiovisiva: i fotogrammi iniziali sono infatti immagini incomplete e ‘sottili’, con forme sfuocate, lievi, sgranate, l’unico registro visivo identificabile è quello delle lettere arabe [fig. 1]. Dopo un iniziale silenzio, si sentono le voci dell’artista e di sua madre che conversano in arabo e a volte ridono. Il dialogo che si comincia a sentire non è tradotto e non è subito percepibile. Immagini e suono creano una sorta di barriera: il coinvolgimento dello spettatore avviene attraverso una lingua che protegge l’intimità dello scambio fra le due donne.

Questa difficile accessibilità è stata interpretata come il tentativo da parte di Hatoum di ricostruire il tipo di isolamento che vive l’esule, a causa proprio dalla lingua del Paese in cui si rifugia e che lo lascia in una condizione in molti casi ai margini, in uno spazio liminale in cui i suoni delle parole non acquistano subito senso. Per il rifugiato, l’esule, il migrante la nuova lingua è spesso un insieme di rumori e forme che lo collocano in una sorta di zona di non accesso. Nel caso di Measures of Distance questo senso di difficile accessibilità è accentuato anche dalla visione incerta delle fotografie della madre, cui si sovrappongono le griglie di caratteri.

La lettura della corrispondenza, che segue alle prime immagini, si impone in una lingua più accessibile come l’inglese, e questo sembra rendere più familiari i fotogrammi, portando a una percezione sempre più netta di quello che sta succedendo [fig. 2]. La voce di Hatoum, che non compare mai nel video, permette di entrare e condividere lo scambio che appare sullo schermo. La scelta di leggere in più momenti gli incipit delle lettere – «My dear Mona» – ha un effetto fortemente evocativo, che si riflette sulla forza delle immagini: «My dear Mona, the apple of my eyes, how I miss you and long to feast my eyes on your beautiful face that brightens up my days...».

La voce cupa di una figlia a Londra, registrata nel 1988, e la risata di una madre a Beirut, registrata nel 1981, comunicano intimità opponendosi alla distanza temporale e spaziale ben rappresentata dal sovrapporsi delle lingue. Attraverso la voce fuori campo veniamo a conoscenza dei pensieri della madre su una figlia diventa donna, sulla ritrovata vicinanza e sul piacere di condividere idee sull’amore, sulla sessualità, sul matrimonio, sulla gelosia del padre per la complicità che si è generata durante la sessione di foto:

 

You and I have never talked in this way before [...] you asked me in your last letter if you can use my pictures in your work [...] go ahead and use them [...] I actually enjoyed the session because I felt like we were sisters […] close together and with nothing to hide [...] I enjoyed the feeling of intimacy that developed between us.

Prima lasciato ai margini e poi interpellato, lo spettatore fa esperienza di una intimità cui non ha un accesso immediato e che evoca, pertanto, vicinanza, desiderio, nostalgia. Dal punto di vista temporale siamo di fronte a uno sdoppiamento: il presente della conversazione madre- figlia nelle voci di sottofondo e un passato che torna attuale nella lettura che proviene dalla voce fuori campo: «My dear Mona».

È a questo punto che l’ambientazione del video diventa percepibile come lo spazio della doccia di un bagno e il corpo si fa più visibile [fig. 3]. Gabrielle A. Hezekiah parla di «Una travolgente vicinanza emotiva» incoraggiata anche dal progredire della comprensione e dalla progressiva leggibilità delle immagini, identificabili come il corpo di una donna (Hezekiah 2020). Gabrielle A. Hezekiah insiste su una lettura esperienziale di Measures of Distance confutando l’interpretazione prevalente tra le studiose che fa corrispondere la difficile accessibilità dell’immagine della madre nel video a una forma di assenza. D’altra parte, per Christine Ross (2012), la scrittura araba funziona come una griglia che lascia la madre dell’artista nella posizione di straniera per il pubblico occidentale, mentre per Chrisoula Lionis la scrittura araba sullo schermo ricorda il filo spinato che funziona come distanza e come minaccia, facendo assumere all’immagine della madre di Hatoum la funzione di simbolo dell’esperienza della Nakba e della Palestina storica, o più universalmente il «simbolo della patria perduta» (Lionis 2013). In questo caso, l’opera di Hatoum viene interpretata come una forma di post-memoria traumatica. Anche per Marks (2000), una delle studiose con cui il saggio di Hezekiah si confronta più attentamente, Measures of Distance fa parte di una serie di opere filmiche sperimentali in cui l'artista tenta di ricreare un’immagine di sua madre che è stata cancellata, e la molteplicità dei codici utilizzati rimanderebbe alla ricchezza sensoriale della terra dell’artista. Tutte queste letture secondo Hezekiah hanno il limite di oggettivare troppo l’incontro offerto dal video e di mettere in secondo piano il tema del coinvolgimento e del contatto sensoriale offerto agli spettatori. La proposta di Hezekiah è quella di una lettura fenomenologica di Measures of Distance, costruita a partire dal concetto di «fenomeno saturo» di J.L. Marion, per cui la nostra incapacità di afferrare e oggettivare pienamente il corpo della madre non deriva dalla sua assenza, ma da un eccesso di intuizione o consapevolezza della sua presenza (Hezekiah 2020). Hatoum sembra aspirare infatti a rappresentare la pluralità e l’impossibilità di eliminare le tensioni esistenti, anche dal punto di vista percettivo, fra presenza e assenza, visibile e invisibile, noto e ignoto.

L’immagine più toccante si verifica verso la fine del video, quando la videocamera chiude bruscamente questo spazio. È in questo momento che la difficile situazione del mondo irrompe nell’intimità e squarcia l’apparente ricomposizione ritrovata nello spazio della relazione: l’inquadratura è ormai nera mentre la voce di Hatoum legge un’ultima lettera:

 

My Dear Mona... I have not been able to send you any letters for the last few months because the local post office was completely destroyed by that car bomb back in April. And there is no sign of them fixing it. I am sending you this letter with your cousin Amal who is leaving for Bahrain tomorrow...and now even the most basic link of communicating with you, by letter, is being denied to us.

Le fotografie svaniscono, lo schermo è privo di immagini e la storia è interrotta. L’interruzione della visione e del movimento genera uno spazio di domande sul futuro a cui niente fornisce risposta.

Alcune analisi dell’opera notano che lo sguardo dell’artista, rivolgendosi verso l’interno della casa, produce una rappresentazione inaspettata e dolorosa, molto diversa dal modo in cui la guerra civile libanese e il conflitto arabo-israeliano – cui il video allude – sono stati narrati in Occidente. La rappresentazione mediatica, infatti, si è sviluppata soprattutto attraverso immagini che mostrano l’aggressione e la violenza militarista nella sfera pubblica, raramente soffermandosi su visioni e gesti del lutto. Quando presenti, questi ultimi sono stati spesso ridotti allo stereotipo della donna – madre, moglie – velata e addolorata. In Measures of Distance invece lo sguardo dell’artista è rivolto all’interno dello spazio privato della casa, producendo una rappresentazione inaspettata e inquieta. In questo modo, attraverso una costruzione articolata di figure, relazioni, lingue, città, Paesi, l’opera rappresenta il tema dell’esilio come una condizione incerta ma composita, in cui diverse geografie e temporalità si rincorrono in un movimento di continua dispersione. In questo senso la nozione di intimità si fa politica, poiché lascia irrisolto il tema della distanza. Le linee di continuità, messe in evidenza come la vicinanza possibile fra madre e figlia, rappresentano una situazione dolorosa e dai confini incerti in cui, nel sovrapporsi di lingue, voci e toni, forse proprio il legame affettivo si incarna in quel «contrappunto» evidenziato da Said.

 

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