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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Il saggio prende in analisi il caso di Juno Calypso, giovane fotografa britannica specializzata in serie autoritrattistiche. Gli scatti, estremamente omogenei, ricreano un immaginario vintage zuccheroso e barocco abitato dal suo alter ego Joyce, una donna intrappolata in un estenuante processo di femminilizzazione e perfezionamento. Nelle diverse serie analizzate, un ruolo centrale è ricoperto dagli spazi domestici, in particolare camere da letto e bagni, scelti e utilizzati con estrema cura. Attraverso l’obiettivo di Calypso le stanze, dalla casa della nonna alla suite matrimoniale dei Love Hotel fino al bunker del patron dei cosmetici Avon, rivelano la sua natura artificiosa di set ipertrofico che ospita la rigida messa in scena di Sé della donna e allude all’intimità virtuale e posticcia della cultura dei bedroom selfie.

The essay examines the case of Juno Calypso, a young British photographer who specializes in self-portrait series. The highly homogeneous shots recreate sugary, baroque vintage imagery inhabited by her alter ego Joyce, a woman trapped in a laborious process of feminization and refinement. In the different series analyzed, domestic spaces, particularly bedrooms and bathrooms, chosen and used with extreme care, are played a central role. Through Calypso's lens, each room, from the grandmother's house to the Love Hotel's bridal suite to the Avon cosmetics patron's bunker, reveals its contrived nature as a hypertrophic set that accommodates the rigid enactment of selves performed by the woman. In her work, she alludes to the virtual, posturing intimacy of bedroom selfie culture.

Nella recente Home Sweet Home 1970-2018. The British Home, A Political History, mostra curata da Isa Bonnet nei Rencontres d’Arles (2019) e dedicata al peculiare rapporto tra i britannici e la loro casa, stupisce trovare un autoscatto di Juno Calypso in un bunker americano. Se avrete la pazienza di leggere le righe seguenti, capirete perché.

Juno Calypso, classe 1989, è una giovane e pluripremiata fotografa britannica che si è affacciata sulla scena internazionale con le serie Joyce I (2012), vincitrice dell’Art Catlin Award, per essere poi consacrata dall’International Photography Award nel 2016. Tutti i suoi lavori artistici sono progetti autoritrattistici che sviluppa in serie, ai quali si sono aggiunte commissioni glamour come quella di Billie Eilish per la copertina di «Garage Magazine» (issue 16), per Stella McCartney (2017), per Burberry (2018). In Italia le sue fotografie sono state esposte allo Studio Giangaleazzo Visconti e alla Fondazione Prada a Milano.

Nel primo e più ampio progetto, Joyce, diviso in due serie, la prima del 2012 e la seconda del 2015, Calypso ha dato vita a un alter ego, Joyce, una sorta di casalinga disperata degli anni Settanta intrappolata in zuccherosi e irraggiungibili ideali di bellezza e femminilità. Ai primi scatti analogici centrati sulla performance dell’autrice che interpreta in mezzo busto frontale una receptionist, un’impiegata, una promoter, un’assistente di volo – per fare solo alcuni esempi – sono seguiti autoritratti intimi situati in camere da letto immaginarie. Al banco e al fondale grigio delle lavoratrici si sono sostituiti spazi più articolati con arredamenti retrò come la casa della nonna o le camere da letto di alcuni amici. L’elemento distintivo della serie Joyce, e più in generale delle opere di Juno Calypso, risiede proprio nella scelta e nell’elaborato allestimento dei set fotografici, patinati e rigorosamente in interni privati, che assegnano all’ambiente domestico un ruolo di comprimario negli autoritratti dell’artista. L’importanza del luogo è testimoniata dalla scelta originale delle ambientazioni delle sue opere e dalla preferenza accordata ai formati ampi, poco comuni negli scatti autoritrattistici.

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Fotografa, pittrice, disegnatrice, animatrice, sperimentatrice indipendente, anima libera, visionaria, poeta dell’immagine. Ursula Ferrara potrebbe essere definita in molti modi, sia pensando alla produzione creativa che ha sviluppato negli anni, sia guardando alla sua metodologia di lavoro dove indipendenza, tenacia, rigore e pazienza si uniscono a un’attitudine onnivora verso l’impiego di tecniche e linguaggi diversi. Nata nel 1961 a Pisa, ha frequentato l’Istituto d’Arte di Porta Romana a Firenze, dove ha potuto studiare grafica pubblicitaria e fotografia, nonché approfondire varie tecniche artistiche, dal disegno all’incisione, dalla litografia all’acquerello e alla tempera a olio. Il suo è un percorso di crescita artistica che parte da una base genetica peculiare: dal padre geologo Ferrara eredita la passione per la fotografia, ed è proprio lui a regalarle la prima macchina fotografica. Giovanissima inizia a scattare, a sviluppare, a stampare, intraprendendo un percorso sperimentale che porta avanti insieme al disegno. Ed è qui che vibra l’altra componente genetica, quella materna: figlia dell’eclettica pittrice e scultrice Milena Moriani, Ursula riceve da lei non solo il dono dell’abilità grafica e pittorica, ma ne eredita la capacità visionaria e il coraggio per la sperimentazione libera, componenti essenziali per la costruzione di mondi poetici dove l’elemento memoriale e il vissuto intimo si fondono con la dimensione immaginaria più creativa.

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1. Attrice e donna

Elena Varzi si è definita molto presto come uno dei volti rappresentativi del cinema italiano degli anni Cinquanta, nonché una ‘delle quattro bellezze’ di quel periodo accanto a Mangano, Bosè e Lollobrigida [fig. 1], come si legge su un numero di «Oggi» dell’epoca (Venturi 1952, p. 8) che reca le foto delle attrici e sottotitola L’industria italiana si prepara ad attaccare il mercato inglese con la bellezza delle donne, un articolo che tra l’altro chiarisce l’importanza fondamentale dell’immagine femminile nell’economia del cinema di quegli anni.

Dopo il primo film, È primavera di Renato Castellani (1950), incontra Raf Vallone con cui si sposa nel 1952 [fig. 2] e nel 1955, arrivata a tre figli, lascia definitivamente il cinema per dedicarsi, a suo dire, al marito e alla famiglia. Senza colpi di scena, la fine della sua carriera – otto film a quella data – è anticipata dalla scelta di partecipare unicamente a film in cui recita il marito (Tacchella 1951, p. 21).

L’identità di attrice e l’immagine pubblica s’incrociano dunque con la sua vicenda personale, influenzata dalle scelte di Vallone, impostosi come divo. Da parte dei media italiani, malgrado il successo ottenuto, l’interruzione del percorso artistico di Varzi non sembra fare particolarmente notizia. Su un numero di «Oggi» del 1956 si legge ad esempio che «Elena Varzi ha temporaneamente abbandonato il cinema per dedicarsi alla famiglia» (p. 32) e che «l’attrice è un’ottima cuoca e una brava donna di casa, […] qualità […] apprezzate da Raf Vallone» (p. 33), il tutto corredato di fotografie ad hoc [figg. 3-4].

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A partire dal recente interesse accademico verso le autobiografie delle attrici italiane, situato all’incrocio tra gli studi sulle autobiografie femminili e gli studi sul divismo, questo saggio si propone di analizzare come caso di studio l’autobiografia di Antonella Lualdi. Attraverso un’analisi del testo (ed escludendo in questa sede la sua presenza on-screen) si cercherà di dimostrare come Lualdi, attrice considerata ‘minore’ all’interno del panorama cinematografico italiano e oscurata dalla figura del marito e collega Franco Interlenghi, abbia utilizzato la scrittura autobiografica per autoaffermarsi e legittimare i successi dellla sua carriera.

Starting from the recent academic interest towards the autobiographies of Italian actresses, at the crossroads between the studies on female autobiographies and the Stardom Studies, this essay aims to analyze Antonella Lualdi's autobiography as a case study. Through an analysis of the text (and excluding in this instance her on-screen presence) we will try to demonstrate how Lualdi, an actress considered 'minor' within the Italian film scene and overshadowed by the figure of her husband and colleague Franco Interlenghi, has used autobiographical writing to assert herself and legitimize the successes of her career.

 

Nulla risponde al desiderio umano più del racconto della nostra storia.

 

Adriana Cavarero

 

Il vasto ed eterogeneo corpus delle scritture autobiografiche delle attrici italiane, a dispetto della sua natura spiccatamente interdisciplinare, capace cioè di renderlo un oggetto di studio potenzialmente affascinante sia per chi studia cinema (e in particolare il divismo cinematografico) sia per chi studia letteratura, solo recentemente ha suscitato interessi accademici. Mi riferisco, in particolare, al lavoro di Maria Rizzarelli sulle «divagrafie»[1] (termine coniato dalla stessa autrice in riferimento alla produzione letteraria delle attrici italiane) che ha ispirato riflessioni successive.[2]

L’intento di questo saggio è quello di analizzare come caso di studio l’autobiografia di Antonella Lualdi, pubblicata di recente da Manfredi Edizioni,[3] cercando di inquadrare il testo all’incrocio, da un lato, degli studi sulle scritture del sé (in particolare femminili), dall’altro, degli studi sul divismo.

Come si vedrà, l’approccio metodologico offerto da una prospettiva femminista appare come il più adatto a mettere a fuoco tale peculiare tipologia di testi e, nello specifico, il caso di Lualdi. La scrittura autobiografica dell’attrice (inserendosi nella lunga tradizione delle autobiografie delle donne) riesce infatti a rispondere a un forte desiderio di affermazione del sé e, contestualmente, a diventare un valido strumento di autodeterminazione.

1. Sull’autobiografia

Ritengo opportuno, prima di soffermarmi sul caso specifico del testo di Antonella Lualdi, accennare ad alcune caratteristiche della scrittura autobiografica che la rendono un oggetto di studio particolarmente problematico. Si tratta infatti di un genere letterario intrinsecamente ambiguo, i cui caratteri risultano difficili da definire e che tende a sfuggire a qualsiasi tentativo di sistematizzazione.

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  • [Smarginature] Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono →
  • Arabeschi n. 14→

 

 

Io so che in ogni grande scrittrice […] c’è una grande attrice e viceversa […]. Feci questa scoperta con Elsa Morante, un giorno di sua ira furiosa […] mi trovai sotto i suoi insulti a stupirmi affascinata dei tempi d’attrice che possedeva. Lei mi insultava e io pensavo: […] [potrebbe] essere una tragica perfetta; in certi suoi sguardi e gesti, infatti, mi ricordò la Magnani. […] Anche della silenziosa Natalia Ginzburg si potrebbe fare un’attrice comica.

Goliarda Sapienza, La mia parte di gioia

 

1. Orientarsi con le stelle

Dietro, o meglio dentro, ogni grande scrittrice si indovina la figura, e soprattutto la voce, di una attrice (Sapienza 2013, pp. 129-130). È una intuizione lucidissima di Goliarda Sapienza, che ha vissuto in bilico fra i suoi talenti, a indicarci la rotta da seguire, segnando poeticamente la nostra mappa.

E dunque, a partire dalla immagine fantasticata di una Elsa Morante impareggiabilmente tragica e di una Natalia Ginzburg silenziosamente comica (ibidem), cominciamo a interrogarci sul nodo, strettissimo, che lega scrittura e recitazione, guardando alla folta schiera delle attrici che scrivono. Questa prima ricognizione appare promettente e foriera di rilanci e ricerche future, giacché le nostre attrici-autrici, convocate dalle studiose in una sorta di animata e risonante fotografia di gruppo, testimoniano la ricchezza, la molteplicità e lo spessore di una produzione testuale che sembra non fermarsi e porsi in continuità, o meglio in serrato confronto, con le parole, i gesti performativi, e con il loro muoversi sul set o sul palcoscenico. Che si tratti di romanzi (e pensiamo ancora, per prima, a Sapienza e alla sua Arte della gioia), o di poesie, come nel caso di Elsa de’ Giorgi, Mariangela Gualtieri e Isa Miranda; di arguti scritti giornalistici e di interventi di costume più immediatamente prossimi alla costruzione della immagine divistica, come testimoniano la rubrica di piccola posta curata da Giulietta Masina e le saporose ricette elaborate da Sophia Loren per le sue ammiratrici; o dell’ampio panorama delle autobiografie, da Doris Duranti a Asia Argento; ciò che emerge e risuona è la mutevole presenza di voci che cercano, aprono e in ogni caso mettono in scena la partitura di un dialogo. Con se stesse, con le lettrici-spettatrici, con il riflesso della loro facies pubblica, con le attrici e le donne che sono, che sono state o che desiderano diventare. È forse proprio questo carattere intimamente relazionale – in molti e differenti sensi – il filo rosso che tiene insieme esperienze e parole fra loro molto distanti, sia per la cronologia, sia per la varietà dei generi letterari attraversati.

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1. Martina Dell’Ombra de Broggi de Sassi

A febbraio 2014 una certa Martina Dell’Ombra de Broggi de Sassi annuncia la sua «scesa politica» in un video postato su YouTube e rilanciato sui suoi profili social (pagina Facebook e account Twitter). Dalla webcam della sua stanza, la giovane si presenta: «Sono una ragazza normale con un grande sogno politico…» e, con uno spiccato accento romano, aggiunge «Mi candiderò alle elezioni con un partito principale perché se annamo, annamo pè vince!». Poi a proposito della politica: «Mi ricordo… quando Berlusconi è sceso in campo e ha fatto il discorso in televisione, io ho pianto tutto il giorno perché sentivo che si stava verificando un evento importante». In poco più di ventiquattro ore l’annuncio dell’aspirante politica ottiene migliaia di visualizzazioni che aumentano giorno dopo giorno in maniera virale, e in concomitanza con la pubblicazione di video successivi in cui racconta di vivere a Roma Nord con la famiglia e con un barboncino nano, di avere la servitù e l’autista, e di avere studiato public relations all’Università telematica Unitelma Sapienza. Illustra inoltre il suo programma politico che prevede l’«I Phone di cittadinanza», soluzioni per il lavoro, «Io conosco tutte persone che lavorano, se non le conoscete ve le presento io», e propone un «ritorno alla moneta personalizzata» per rilanciare l’economia. Lancia la sua campagna #votamarti, corteggia i leader politici in auge (prima Matteo Renzi e poi Matteo Salvini), e inizia a dispensare consigli sui più disparati temi di attualità. Esprime un’opinione su tutto, dai gay che «sono nati strani… ma non è colpa loro», all’outfit ideale per le donne in politica che deve essere «rosa antico perché la politica è una cosa antica», fino alle pari opportunità: «Noi donne dobbiamo tornare ad avere meno diritti e più privilegi. Avere il privilegio di non lavorare, di farsi mantenere, di dedicarsi alle cose belle della vita che non è lavorare».

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All’interno delle categorie paradigmatiche rilevate da Rizzarelli nella sua «cartografia dell’attrice che scrive» (Rizzarelli 2017), Una vita all’improvvisa (2009) [fig. 1] di Franca Rame si colloca nel genere della narrazione autobiografica, scritta quasi a fine carriera (Rame avrebbe compiuto 80 anni pochi mesi dopo l’uscita del volume) e votata «a consacrare l’immagine divistica già affermata e consolidata da tempo» (ibidem). Ne viene fuori un testo in cui interviene anche Fo e in cui emerge una tensione dialogica dettata dal desiderio di cercare il contatto con un ipotetico destinatario, un «lettore privilegiato» (Battistini 2007), che ora è il marito ora è il pubblico che tanto l’ha amata e seguita durante la sua lunga carriera. Un racconto artistico e biografico in forma di affabulazione teatrale con tanto di didascalie per regolare i meccanismi scenografici e registici di un’ipotetica messa in scena (i disegni di Fo accompagnano per immagini questa storia, quasi uno per pagina), che oscilla sul terreno mutevole, «vivente e interpretante della memoria» (Battistini 2007) in cui Rame ripercorre, a balzi ed episodi, la sua vita vissuta «in modo esagerato», a cominciare dagli anni dell’infanzia fino alle prime esperienze d’attrice, apprendendo così «l’arte antica di andar all’improvvisa», ovvero di recitare a soggetto senza seguire integralmente un copione (ecco il titolo del volume), nonché il suo cammino a fianco del marito.

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1. Questa è la storia di un gruppo di ragazzi…

Con questa premessa Paola Pitagora introduce il suo Fiato d’artista, libro di memorie che ripercorre, a distanza di quasi quarant’anni, le tensioni avanguardistiche della Roma degli anni Sessanta. A condurre il lettore tra gallerie d’arte, piazze, bar, palcoscenici, set cinematografici e case private, sono le voci intrecciate di due amanti appassionati che all’epoca fecero della loro relazione il motore comune dell’esperienza artistica. È Pitagora stessa a spiegare che l’idea di scrivere questo romanzo autobiografico è nata rileggendo, negli anni Novanta, i quaderni scritti con Renato Mambor ai tempi della loro storia d’amore. Il risultato è un libro composito, fatto non solo della testimonianza privata dei due ma anche del racconto con cui Pitagora cuce insieme una lettera con l’altra, usando tutto ciò che può servire a dar di nuovo corpo a quella storia: molte parole certamente (oltre alle sue anche quelle di chi scrisse di quegli anni, da Pasolini a Calvesi), ma anche immagini scelte per spingere il lettore all’incrocio fra arti diverse là dove, all’epoca dei fatti, si attivava ogni creazione artistica [fig. 1].

Di per sé Fiato d’artista è un libro che permette di cogliere molti aspetti di una doppia vocazione realizzata dall’interazione tra scrittura e performance (Rizzarelli 2017). Intanto perché chi scrive è un’attrice versatile che ha raggiunto un pubblico molto vasto, popolare e non, frequentatore di teatri o appassionato di cinema, amante degli sceneggiati televisivi o anche semplicemente avventore casuale davanti ai programmi Rai degli anni Sessanta. In secondo luogo perché in questo libro, così materico nella sua composizione, si parla molto del lavoro dell’attore nella sua inafferrabile dimensione antropologica. A farlo sono i due protagonisti che si incontrano proprio a un workshop di recitazione nel 1958. Sedici anni lei, ventidue lui. Grandi doti mimiche il giovane pittore del Quadraro; puro potenziale invece la ragazzina emiliana che a quel mondo si era avvicinata principalmente per noia. Poco più di un anno dopo i loro percorsi erano già delineati: Mambor allestiva la mostra alla Galleria Appia Antica con Cesare Tacchi e Mario Schifano, mentre Pitagora, sotto contratto con la casa di produzione cinematografica Vides di Franco Cristaldi, cominciava a frequentare le lezioni di recitazione di Alessandro Fersen a via della Lungara. «La vita per noi è cambiata» scriveva allora Pitagora, «io vado a scuola tutti i giorni, sto in un ambiente nuovo. Ed ecco le naturali problematiche, abituata com’ero a pensare con la tua visione» (Pitagora 2001, p. 36. Corsivo mio). L’atto della visione è centrale in Fiato d’artista certamente per la sua doppia natura di opera verbo-visuale (Cometa 2017), ma anche perché esso nutre la formazione attorica di chi scrive: «avrei potuto diventare attrice se non avessi incontrato quel buffo pittore? Forse sì ma in altro modo. Intanto, il vedere. Un pittore insegna in qualche modo a vedere» (Pitagora 2001, p. 56).

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Nel panorama abbondante, diversificato e discontinuo delle scritture delle attrici teatrali – in attesa di un censimento vero e proprio – intendo mettere a fuoco i seguenti punti.

 

1. 1887, la prima autobiografia d’attrice in Italia Ricordi e studi artistici di Adelaide Ristori

Tutti e quattro i protagonisti della generazione del Grande attore – Adelaide Ristori, Ernesto Rossi, Tommaso Salvini, Antonio Petito – scrivono le loro memorie ma non per questo è meno forte il gesto di Ristori di riconoscersi soggetto degno di biografia, sia pure novant’anni dopo il pionieristico Mémoires de Mlle Clairon, actrice du Théâtre Français, écrits par elle-même. Le memorie sono uno strumento fondamentale di costruzione e diffusione della propria immagine pubblica, dunque fissano immagini artificiali e idealizzate che vanno decodificate. Ristori fornisce di sé un’immagine edificante di moglie e di madre ma nello stesso tempo mette in luce i suoi poteri come primadonna e capocomica e non ne nasconde i lati faticosi. E, soprattutto, oltre alle vicende biografiche, propone sei studi approfonditi dei maggiori personaggi interpretati [fig. 1]. Da questo punto di vista rappresenta un modello avanzato rispetto a produzioni successive anche recenti, pur significative: la stessa Valentina Cortese – indiscutibilmente una diva – è avara di approfondimenti sul suo lavoro specifico di attrice (Quanti sono i domani passati) e ancor meno dicono le memorie di Ilaria Occhini (La bellezza quotidiana).

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