Nulla risponde al desiderio umano più del racconto della nostra storia.
Adriana Cavarero
Il vasto ed eterogeneo corpus delle scritture autobiografiche delle attrici italiane, a dispetto della sua natura spiccatamente interdisciplinare, capace cioè di renderlo un oggetto di studio potenzialmente affascinante sia per chi studia cinema (e in particolare il divismo cinematografico) sia per chi studia letteratura, solo recentemente ha suscitato interessi accademici. Mi riferisco, in particolare, al lavoro di Maria Rizzarelli sulle «divagrafie»[1] (termine coniato dalla stessa autrice in riferimento alla produzione letteraria delle attrici italiane) che ha ispirato riflessioni successive.[2]
L’intento di questo saggio è quello di analizzare come caso di studio l’autobiografia di Antonella Lualdi, pubblicata di recente da Manfredi Edizioni,[3] cercando di inquadrare il testo all’incrocio, da un lato, degli studi sulle scritture del sé (in particolare femminili), dall’altro, degli studi sul divismo.
Come si vedrà, l’approccio metodologico offerto da una prospettiva femminista appare come il più adatto a mettere a fuoco tale peculiare tipologia di testi e, nello specifico, il caso di Lualdi. La scrittura autobiografica dell’attrice (inserendosi nella lunga tradizione delle autobiografie delle donne) riesce infatti a rispondere a un forte desiderio di affermazione del sé e, contestualmente, a diventare un valido strumento di autodeterminazione.
1. Sull’autobiografia
Ritengo opportuno, prima di soffermarmi sul caso specifico del testo di Antonella Lualdi, accennare ad alcune caratteristiche della scrittura autobiografica che la rendono un oggetto di studio particolarmente problematico. Si tratta infatti di un genere letterario intrinsecamente ambiguo, i cui caratteri risultano difficili da definire e che tende a sfuggire a qualsiasi tentativo di sistematizzazione.
La scrittura autobiografica «costituisce un enigma destinato a mettere alla prova, attraverso una serie di ostacoli e paradossi, tutti i lettori che siano decisi a indagare le fattezze, le origini e gli sviluppi dei suoi dispositivi testuali».[4] Si presenta quindi come una sfida a chiunque «cerchi di compilare una sua precisa carta d’identità»,[5] proprio a causa della «drammatica ineffabilità della propria costituzione».[6] Grazie alla sua «natura proteiforme»,[7] dunque, quello autobiografico si caratterizza come genere «beffardamente anarchico»,[8] soprattutto se si guarda al controverso rapporto che si crea, all’interno dei testi, tra verità e finzione. Gli studiosi concordano sul fatto che la finzione faccia parte della natura stessa di un’autobiografia, per almeno due ordini di ragioni: prima di tutto perché l’atto della scrittura passa attraverso la memoria, che di per sé è fallace e tende a deformare, omettere, prediligere alcuni avvenimenti e a tralasciarne altri; e, secondariamente, perché la finzione fa parte anche del metodo scelto per ricostruire la propria storia, ovvero il racconto. Il narrare agisce peraltro come la memoria: si seleziona, si modifica, si taglia; se per ricordare «è necessario dimenticare, per raccontare è necessario omettere».[9] Non può esistere né un «racconto che non costituisca in qualche modo un’interpretazione (e dunque un’organizzazione) degli avvenimenti»,[10] né un’autobiografia che sia in maniera univoca vera, corretta, o anche solo «fedele» alla realtà.[11] In qualsiasi testo autobiografico viene infatti prodotta, in misura più o meno ampia, della fiction, poiché «la realtà, quale essa sia (e ammesso che ce ne sia una) nel momento in cui viene trascritta, dipinta, fotografata, messa in note […] assume un altro volto, che è quello della rappresentazione».[12] Muovendo da queste premesse, va da sé che la pretesa del raggiungimento di una supposta «verità assoluta» debba essere ridimensionata: «tutta la questione della “verità” dell’autobiografia pare proliferare sulla ingenuità “esistenziale” di teorici i quali possono vantare una pratica delle tecniche e delle forme della menzogna che non oltrepassa lo stadio dei luoghi comuni».[13] È forse proprio a causa di questo suo statuto ibrido, in bilico tra verità e finzione, che spesso al genere autobiografico non viene attribuita validità scientifica, come se necessitasse tuttora, nonostante la mole di studi che ha suscitato, di una sorta di «‘autorizzamento’ di cui il lavoro su altri generi più collaudati tende a fare tranquillamente a meno».[14]
Per tornare quindi al caso delle autobiografie delle attrici, non è tanto importante sapere se in questi testi venga detta o meno tutta la verità, né il fatto che le autobiografie siano state scritte autonomamente dalle attrici o se quest’ultime si siano servite di ghostwriter. Del resto, spesso queste opere hanno alle spalle un massiccio lavoro curatoriale ed editoriale che però nella maggior parte dei casi viene indicato esplicitamente, come testimonia anche l’autobiografia di Antonella Lualdi, scritta a quattro mani con Diego Verdegiglio e con la collaborazione di Lino Belleggia. Ciò che realmente interessa e che merita di essere indagato, all’interno di questi testi, è la visione che le attrici hanno del mondo (e in particolar modo del mondo del cinema) e di loro stesse: ponendo anche il caso che tale visione non sia stata scritta materialmente da loro, il testo porta comunque la loro firma ed è orientato dalla loro soggettività. Talvolta attraverso la propria autobiografia, come si vedrà nel caso preso in esame, le autrici consegnano alla pagina scritta la negoziazione di una nuova identità, mediata e ricostruita attraverso i meccanismi della retrospezione; e questo processo, insieme alla volontà di mostrare pubblicamente un’inedita versione di sé, rimane immutato anche se la stesura dell’autobiografia avviene con il supporto di altri autori. Si potrebbe affermare, con Ruth Amossy, che la star che assume uno scrittore professionista per raccontare la propria storia, rispondendo così alla richiesta del mercato, non sia diversa da quella che si improvvisa autrice e che prova a esprimere, con la scrittura, i suoi sentimenti più profondi.[15]
È bene considerare, poi, che in tutti i testi autobiografici entra in gioco il cosiddetto «patto», secondo l’intuizione teorizzata da Philippe Lejeune nel suo celebre studio, che resta tuttora fondamentale per chiunque intenda misurarsi con l’autobiografia. Per Lejeune tra autore e lettore viene stipulato un patto di lettura secondo il quale il lettore è portato a credere che l’identità di chi produce l’enunciato sia la stessa della persona reale a cui l’enunciato viene attribuito. Questo a causa di alcuni rimandi testuali e soprattutto paratestuali quali, ad esempio, il titolo, una possibile introduzione e soprattutto il nome riportato sulla copertina. Così
l’autore si definisce allo stesso tempo come persona reale socialmente responsabile, e come produttore di un discorso. Per il lettore, che non conosce la persona reale pur credendo alla sua esistenza, l’autore si definisce come la persona capace di produrre il discorso e lo immagina considerando ciò che produce. [16]
Nel caso delle attrici ciò viene rafforzato dalla loro dimensione di personaggi pubblici già noti ai potenziali lettori: la celebrità delle autrici modifica il campo, e cambiano quindi le aspettative e le modalità di lettura di questi testi.
2. Studiare le autobiografie delle attrici
Le autobiografie delle attrici rientrano in quelle scritture che si possono definire «di categoria»[17], ovvero dei «brand narrativi costruiti intorno a una specifica caratteristica sociale dell’autore».[18] Tali testi, che solitamente nascono su commissione, fanno parte di un fenomeno nato a partire dall’Ottocento e consolidatosi nel Novecento, fino ad arrivare alla contemporaneità.[19]
Nonostante ciò, come notano sia Rizzarelli sia Amossy, sembra aleggiare un disinteresse diffuso, nell’ambito degli studi accademici, verso tale tipologia di testi: a sorprendere è appunto «la disattenzione sul fronte degli Stardom e dei Celebrities Studies, come pure su quello della teoria letteraria e in special modo degli studi dedicati alle scritture del sé, nei confronti di un fenomeno di così vasta portata».[20] È sintomatico che, da un lato, gli studi dedicati allo star system non considerino le autobiografie delle star in quanto troppo marginali rispetto ad altri fattori più concreti dell’industria cinematografica; dall’altro, che gli studiosi delle scritture del sé non mostrino particolare interesse verso questi testi poiché li considerano un esempio di paraletteratura strettamente legata al mercato del cinema.[21]
Le «scritture di categoria» potrebbero rientrare in due delle «categorie» di testi mediali che Richard Dyer indica come fondamentali nella creazione della immagine divistica. Le autobiografie di attrici si trovano infatti a metà strada fra la categoria della «promozione», che comprende tutti quei testi nati nell’ambito della fabbricazione di una determinata immagine (come fotografie di moda, apparizioni pubbliche, materiali che promuovono la star in un particolare film), [22] e quella della «pubblicità», di cui fanno parte testi che non mostrano un’esplicita e intenzionale costruzione di immagine (come le interviste o le rubriche di cronaca rosa).[23] Nella stessa direzione, Amossy sostiene che «l’autobiografia di una star del cinema fa[ccia] parte di un’abbondante produzione incentrata sulla presentazione di sé».[24] Per la studiosa si tratta della promozione di un prodotto cinematografico tipica dello star system: «come altri discorsi culturali legati alla presentazione di sé, l’autobiografia delle star si iscrive in una specifica attività sociale e non può essere pienamente compresa al di fuori di questo contesto».[25]
Constatata quindi la strategia di autopromozione che sostiene ogni autobiografia di questo genere, occorre interrogarsi su come ci si debba porre davanti a un testo scritto non da una vera e propria diva ma da una attrice, se vogliamo, non particolarmente celebre e considerata dai più come ‘minore’ all’interno del panorama cinematografico italiano. Nel caso di Antonella Lualdi, come tenterò di dimostrare, il tentativo di promozione rimane immutato ma si arricchisce, allo stesso tempo, di altre questioni.
Spesso per le attrici la pubblicazione della propria autobiografia può segnalare l’intento di riposizionarsi all’interno dei discorsi sociali e del sistema dei media, come nel caso di Sandra Milo, che «ha opposto resistenza alla marginalizzazione dalle scene attraverso continui tentativi di riappropriazione della sfera pubblica»;[26] o in quello di Catherine Spaak, che pubblica la sua autobiografia nel 1993,[27] periodo in cui la sua presenza sugli schermi è ormai notevolmente diminuita e si è intensificata quella televisiva. Sul piccolo schermo Spaak si fa quindi portavoce di «un modello di femminilità di mezz’età di successo […] perfettamente consapevole della sua trasformazione agli occhi del pubblico».[28]
Nell’autobiografia di Antonella Lualdi, invece, più che un tentativo di riappropriazione della sfera mediale, come si vedrà, si avverte una precisa strategia di affermazione e legittimazione della propria carriera passata. Posto che ogni autobiografia di attrice dovrebbe essere analizzata secondo un’ottica prettamente di genere,[29] ritengo che lo scritto di Antonella Lualdi, proprio a causa di tale desiderio di autoaffermazione che emerge prepotentemente dal testo, si presti alla perfezione ad essere letto nella prospettiva indicata dai più recenti studi incentrati sulle autobiografie delle donne.
3. Una questione di genere
È stata ormai da più parti ravvisata quella sorta di affinità elettiva che lega le donne al racconto, in particolare biografico,[30] a partire dal celebre studio di Adriana Cavarero sulle biografie femminili[31] e dalle più recenti ricerche che mostrano come «l’arte del narrare si configur[i] come un’arte femminile».[32]
Le prime autobiografie scritte da donne (nell’ambito della cultura occidentale), come è noto, sono quelle di carattere mistico-religioso: a partire dai primi secoli cristiani, e con maggior vigore dal tardo Medioevo, testi come la Vita di Ildengarda di Bingen o quella di Teresa D’Avila dimostrano «come alcune donne cominciassero a documentare la loro esperienza religiosa mediante la scrittura».[33]
Nei secoli successivi l’autobiografia femminile ha faticato ad affermarsi come genere autonomo, almeno fino alla rivalutazione critica attuata, per prima, da Virgina Woolf.[34] Le scritture del sé delle donne hanno infatti raggiunto una forma di legittimazione solo negli ultimi decenni, grazie alla riscoperta operata dagli studi femministi:
se l'autobiografia è stata a lungo un genere letterario minore, è proprio grazie […] alle ricerche femministe che assurge a nuovo valore letterario. Da un' esclusione reiterata nel tempo, le donne che scrivono di sé entrano in un ruolo finalmente riconosciuto, costituendo una nuova tradizione letteraria.[35]
Prima di allora, le autobiografie femminili hanno subito, in campo critico, un diffuso ostracismo, causato dalla presunta scarsa oggettività di questi testi rispetto alle autobiografie maschili.
Queste ultime venivano considerate infatti più obiettive, «caratterizzate da una narrazione logica e spesso lineare in cui la vita è concepita come un progetto coerente»,[36] mentre quelle femminili risultavano meno sistematiche dal punto di vista formale e più legate al mondo della vita privata e dei sentimenti.[37] Le studiose femministe hanno però ribaltato la prospettiva, riconoscendo proprio nella dimensione soggettiva «l’originalità del pensiero femminile [che] è individuabile nel partire da sé, dai propri vissuti e desideri».[38] Si tratta
senz'altro della categoria più innovativa prodotta dal pensiero femminista: mentre il metodo scientifico tradizionale cerca di superare i limiti del soggetto della conoscenza postulando un intelletto che si pone fuori e al di sopra delle proprie esperienze particolari, il metodo femminista pone il personale, il quotidiano, come oggetto privilegiato di indagine.[39]
Tale rivalutazione, quindi, assegna all’esperienza una validità scientifica e, di conseguenza, pone le storie di vita al centro della ricerca, trasformandole in «modelli di microstoria»[40] che oscillano «tra il pubblico e il privato, ma che proprio per questo ci parlano dei soggetti e della loro condizione locale di esistenza e di presenza storica».[41]
Per le donne, «le assenti» dalla Storia e dalla cultura ufficiale,[42] l’autobiografia appare quindi come un’opportuna via di accesso alla parola scritta, la possibilità di dirsi e di prendersi cura di un io rimasto sempre inespresso,[43] perché raccontato dalla parola altrui, costruito attraverso un simbolico edificato da altri. È in questo senso che entra in gioco il bisogno di ri-appropriarsi di sé, di trovare un proprio modo per auto-rappresentarsi,[44] libero dall’influenza di qualsivoglia Pigmalione.[45]
L’autobiografia, dunque, si presenta «come un passaggio necessario, anche se arduo, la condizione per ricostituirsi nella figurazione complessa, molteplice di quello che è una donna, non più detta, ma che si appropria della parola su di sé».[46]
4. L’autobiografia di Antonella Lualdi
Tali premesse permettono di avvicinarsi con maggiore consapevolezza a un caso di studio peculiare come quello della scrittura autobiografica di Antonella Lualdi.
“Io Antonella, amata da Franco”, infatti, appare a tutti gli effetti come un unicum non solo all’interno del corpus delle «divagrafie» ma anche nell’ambito di quel preciso filone in cui l’attrice/autrice, nel ripercorrere la propria vita, sceglie di soffermarsi sul racconto di una o più relazioni sentimentali.
A una prima occhiata, l’unione di Antonella Lualdi con il collega Franco Interlenghi è posta in primo piano, a partire da alcuni riferimenti paratestuali: il sopracitato titolo, la firma con il doppio cognome «Lualdi Interlenghi» e la dedica «a Franco Interlenghi, uomo indimenticabile». Nella stessa introduzione, l’autrice spiega le motivazioni che l’hanno portata a scrivere:
Si dice che con la psicanalisi, ripercorrendo gli eventi soprattutto drammatici della propria vita, si riesca a guarire dalle depressioni. Io dirò un grande “grazie” alla scrittura di questo libro: il riandare con la memoria alla storia mia e di Franco in tutti i suoi aspetti è stata per me una vera catarsi. Mi ha alleggerita dall’oppressione in cui sono precipitata dopo la scomparsa di mio marito.[47]
A volte, «può bastare una crisi acuta o un' intensa vicenda a determinare quel culmine di esperienza che, a qualsiasi età, è stimolo a riepiloghi e messe a punto».[48] Come anticipato, la crisi, in questo caso, ha origine dalla morte di Franco Interlenghi avvenuta nel 2015, in seguito a una malattia; circostanza che ha tenuto uniti i due attori nonostante la loro separazione, risalente agli anni Settanta.
A una lettura approfondita, tuttavia, ci si accorge di come il testo si discosti profondamente dalle premesse: più che una ricostruzione della propria relazione sentimentale, in cui il racconto della vita di coppia è posto in primo piano (come avviene ad esempio nel caso di Claudia Mori, che dedica la propria autobiografia alla storia con Adriano Celentano)[49] e più che un omaggio alla memoria dell’ex marito, quella di Lualdi è un’autobiografia che sembra rispondere al solo desiderio di autoaffermazione. Come tenterò di dimostrare, ritengo che l’attrice, spesso messa in ombra, negli anni, da altre colleghe ma soprattutto dalla figura del marito, utilizzi la scrittura autobiografica per prendere finalmente la parola su di sé e per inserire in maniera autonoma la sua immagine nello scenario cinematografico italiano.
Lungo tutto il testo, infatti, Antonella Lualdi ripercorre nel dettaglio le tappe della sua carriera, a partire dagli esordi come «diva delle réclame»[50] e dal vero e proprio ingresso nel mondo del cinema con il film Signorinella (M. Mattoli, 1949). A questa pellicola è legata anche l’origine del nome d’arte dell’attrice (all’anagrafe Antonietta De Pascale): un concorso bandito dalla rivista ‘Hollywood’ la presenta in un servizio fotografico come «Signorina X» e invita i lettori a trovarle un nome in occasione delle riprese del film di Mattoli.[51] Come scrive l’attrice, «su tutti i giornali apparve la mia foto con la dicitura “è nata una stella, l’ingenua numero uno del Cinema italiano”. Come premio il vincitore avrebbe ricevuto una vacanza e due milioni di lire. Un farmacista toscano vinse suggerendo “Antonella Lualdi” e Dino De Laurentiis lo trovò subito adattissimo».[52]
Al suo esordio, dunque, Lualdi sembra corrispondere all’ideale «italiano della “fidanzata” acqua e sapone, tutta casa e fedeltà»,[53] soprattutto in film come (oltre al sopracitato Signorinella) L’ultima sentenza (M. Bonnard, 1951), Il romanzo della mia vita (L. De Felice, 1952), Perdonami! (M. Costa, 1953) e Gli uomini, che mascalzoni! (G. Pellegrini, 1953).
Tale immagine viene consolidata nel 1953 dal suo fidanzamento con Franco Interlenghi, conosciuto sul set di Canzoni, canzoni, canzoni (D. Paolella, 1953) e dal loro matrimonio, celebrato nel 1955. Negli anni Cinquanta i due attori rappresentano la coppia perfetta del cinema italiano e recitano insieme in dodici film,[54] spesso nella parte degli innamorati anche sullo schermo.
Sui rotocalchi, quindi, viene dato molto spazio alle notizie che coinvolgono la giovane coppia;[55] spazio che aumenta considerevolmente dopo la nascita della prima figlia, Stella,[56] nel 1956, e della seconda, Antonellina,[57] nel 1961, tanto che gli articoli sulla famiglia Interlenghi si moltiplicano e diventa pressoché impossibile tenerne il conto. Quella di Antonella Lualdi, dunque, è una notorietà ’divisa’, che l’attrice si ritrova a spartire con gli altri membri della sua famiglia e che la allontana dai casi più celebri di divismo nazionale.
Alle soglie degli anni Sessanta, stando a quanto racconta nella sua autobiografia, l’attrice tenta di allontanarsi sia dall’immagine di ragazza ingenua, sia dalla collaborazione lavorativa con Interlenghi:
Fu infatti proprio in quel momento della nostra vita che decidemmo di non fare più film insieme, riproponendo ogni volta la solita coppia anche sugli schermi. Non potevo rimanere per l'eternità “l'ingenua numero uno” e lui per sempre il ragazzino dei suoi esordi.[58] Scegliemmo di incanalarci in altre storie, con altra gente, proprio per cercare nuovi personaggi più adatti ai tempi ai quali andavamo incontro. Era una scelta necessaria.[59]
Allo stesso tempo, Lualdi si ritrova a fare i conti non solo con la popolarità del marito, ma anche con quella delle altre attrici: nel testo autobiografico dedica a questo aspetto, e a quelle che chiama «le occasioni mancate»[60], un interessante capitolo. In queste pagine Lualdi descrive come, nel corso della sua carriera, siano sfumate delle opportunità potenzialmente molto importanti anche a causa del comportamento di alcuni produttori italiani che tendevano a imporre quelle che l’atutrice definisce «le loro protette»:[61]
Ero tra le attrici italiane più famose e richieste dell’epoca […] tuttavia, quando venivano a sapere di qualche co-produzione, i fidanzati, i compagni o gli amici intimi delle mie colleghe si intromettevano e dicevano che ci avrebbero pensato loro a contattarmi in Italia. […] Loro mi dicevano di stare tranquilla, che sarebbe andato tutto bene e poi sparivano. A distanza di anni, venni a sapere dalle produzioni francesi che mentre loro trattavano con questi signori per avere me, si sentivano rispondere che ero impegnata, che stavo lavorando o che mi trovavo in America, proponendo invece le loro attrici.[62]
Se si presta fede a quanto scrive, una delle occasioni mancate è l’interpretazione di Jill McBain in C’era una volta il West (S. Leone, 1968), poi affidata a Claudia Cardinale.[63] La situazione descritta da Lualdi è la stessa in cui si ritrovano molte attrici del periodo: alcune lamentano infatti la mancanza di offerte lavorative che colpisce coloro che decidono di non avere una relazione con un produttore. Tra queste, spicca senz’altro Silvana Pampanini che affronta a sua volta l’argomento nella sua autobiografia.[64] Altre volte, invece, gli ‘inciampi’ nella carriera di Lualdi sono determinati da ragioni diverse, come nel caso di Le amiche (M. Antonioni, 1955), rifiutato a causa del suo impegno sul set di un altro film;[65] o come gli inviti a Hollywood, sempre respinti per evitare la separazione dalla famiglia e per la diffidenza nei confronti dei severi contratti che regolavano lo star system americano.[66]
Mi pare dunque che emerga, lungo tutto il testo, il tentativo dell’attrice di confermare e magnificare i traguardi accumulati nel corso della sua carriera cinematografica, nonostante le numerose opportunità mancate. Ritengo che non si possa spiegare in altri modi l’insistenza, spesso superflua, con la quale Lualdi si sofferma nel descrivere quasi ogni pellicola a cui ha preso parte, né l’ostinazione con cui elenca tutte le persone considerate di spicco che ha incontrato o frequentato, insieme a Interlenghi, nel corso degli anni. Pur tenendo conto, infatti, del carattere aneddotico rintracciabile in ogni autobiografia di attrice, è sorprendente come, in questo caso, emerga a chiare lettere la volontà dell’autrice di affermare: ‘Eccomi, c’ero anche io!’.
Il desiderio di autoaffermazione prende forma, nel testo, tramite alcuni meccanismi propri delle scritture del sé: il processo compiuto dall’attrice, infatti, è quello caratteristico di ogni autobiografia, che «decostruisce e interpreta, mette al centro una coscienza-sguardo che legge, ordina e così facendo legittima e definisce anche se stessa».[67] Da un lato si ripercorre un tessuto esistenziale, se ne fissano blocchi, traumi, ma anche svolte, eventi-chiave; dall’altro si dà a questa stessa esistenza un’immagine nuova rispetto alla linearità del vissuto cronologico, legata alla direzione impressa dall'interpretazione.[68]
Si tratta ovviamente di un atto che può essere compiuto solo retrospettivamente, per riprendere Cavarero: «chi cammina sul terreno non può vedere la figura che i suoi passi si lasceranno dietro, gli è necessaria un’altra prospettiva».[69] Il raccontare, per chi vuole legittimare il proprio vissuto, diventa fondamentale, poiché «una vita può scorrere come un flusso confuso di atti, accadimenti, un giorno dopo giorno insignificante se non se ne racconta la storia, se questa stessa vita non diventa narrazione».[70] È il significato stesso dell’esperienza che, per essere colto, deve essere situato all’interno di un racconto. A tale proposito entra in gioco il cosiddetto sense-making narrativo, ovvero «la costruzione di una sequenza di eventi che serve a spiegare l'esito di una storia nei termini dell’inizio, integrando ogni dettaglio in una catena continua di causalità».[71] Ciò fa sì che, all’interno della narrazione, ci si senta finalmente artefici di se stessi e che ‘gli altri’ entrino in scena solo come comparse.[72]
Ed è appunto un ruolo di secondo piano quello che Antonella Lualdi assegna, nel testo autobiografico, a Franco Interlenghi, a dispetto delle premesse paratestuali a cui si è già accennato.
Come anticipato, l’ex marito dell’attrice viene certamente raccontato ma in misura minore rispetto a quanto ci si possa aspettare. Non solo nel testo mancano quasi totalmente gli aspetti della commemorazione e dell’elaborazione del lutto, ma spesso l’immagine di Interlenghi che emerge è tutt’altro che positiva. È utile, a questo proposito, richiamare un aneddoto riportato da Lualdi nel quale lei e l’ex marito assistono a un alterco tra Claudia Mori e Adriano Celentano. In riferimento a Mori, scrive: «dissi a Franco: “Vedi come bisogna trattare i mariti?”. Io invece non reagivo mai, nonostante Franco fosse tremendo in certe cose e non mi lasciasse mai aprire bocca».[73]
L’attrice descrive anche come, soprattutto nella sfera pubblica, venisse messa in ombra dalla figura del consorte:
Ero un po' oscurata dalla personalità di Franco, ma stare nell’ombra non mi costava molto. Mio marito mi affascinava e gradivo parlare di lui. Quindi non raccontavo molto di me, perché quello di cui parlava mi sembrava più importante. Durante gli incontri con i giornalisti aprivo bocca raramente, lasciavo fare a Franco, anche perché mi piaceva molto ciò che diceva. Era sempre ironico, non si prendeva sul serio e si proponeva con molta semplicità. […] Lui era l'uomo e il protagonista, ed era sempre al centro dell'attenzione. Io invece, proprio come le donne del Medio Oriente,[74] parlavo poco e spesso me ne rimanevo in silenzio a lungo. Ero però molto vivace e dinamica, un lato del mio carattere che lego alla vitalità delle donne greche, così come mi piace far risalire il mio aspetto alle radici italiane. Questo miscuglio era affascinante per coloro che venivano a intervistarci e li spingeva a scoprire qualche mio lato nascosto, che prescindesse dal mio rapporto con Franco.[75]
In generale, il comportamento di Franco Interlenghi all’interno della famiglia viene tratteggiato come severo e autorevole, di stampo tradizionale. Basti pensare che, in uno dei tanti aneddoti, Antonella Lualdi racconta di come sia stata aiutata da Alberto Sordi a ‘coprire’ la figlia Stella mentre tornava da una festa all’insaputa del padre.[76]
Una tale adesione, da parte di Interlenghi, a un modello prettamente patriarcale si può spiegare tenendo in considerazione il periodo storico in cui si sposa e porta avanti il suo matrimonio, ovvero dai primi anni Cinquanta fino a metà dei Settanta. Tenendo infatti in considerazione alcune riflessioni di Sandro Bellassai sulla crisi dell’identità maschile negli anni del boom economico, si può affermare che
di fronte a mutamenti epocali che lasciano presagire una ridefinizione dell’equilibrio di potere tra uomini e donne […] la maggioranza degli uomini tende in genere a reagire con un irrigidimento identitario che ha anche la funzione di tracciare una barriera psicologica contro il temuto sconvolgimento delle gerarchie consolidate[77]
Nelle pagine finali dell’autobiografia, Antonella Lualdi annota: «ora in famiglia manca molto questo padre, perché è stata una figura talmente forte che quando è scomparso la nostra casa si è ritrovata senza la sua guida dispotica, ma amorevole: perché dopotutto il suo comportamento era guidato da un eccesso d'amore».[78]
Eppure, stando a quanto scrive la stessa attrice, è anche a causa dei modi autoritari e rigidi di Interlenghi che il loro matrimonio finisce e che Antonella Lualdi comincia una nuova relazione con il musicista Stelvio Cipriani: «mi bastava l'idea di poter essere autonoma, di avere la possibilità di gestire il mio tempo e di non sentirmi più soffocare».[79]
Gli anni Settanta rappresentano quindi un periodo di svolta, per l’attrice, sia per quanto riguarda la sfera privata sia quella pubblica:
A un certo punto della mia carriera mi ribellai a questa immagine ingenua “acqua e sapone” […] Mi accorsi di non poter più essere quella che veniva pilotata e messa lì come se fosse un burattino. Avevo bisogno di affermarmi come persona e non più come colei che va guidata, dai genitori prima e da un marito dopo. Cominciai a dire la mia e fu un trauma in famiglia, perché Franco non mi conosceva sotto l'aspetto di donna reattiva e autonoma, ma io non ne potevo più e dovevo cambiare per forza, in qualsiasi modo.[80]
Il tentativo, intrapreso a partire dagli anni Sessanta, di lasciarsi alle spalle il ruolo e l’immagine di ‘ingenua’ si concretizza ora nel connotare la sua figura con una maggiore carica di trasgressione e sensualità. È infatti nel 1979 che decide di posare per un servizio fotografico di Angelo Frontoni per la rivista Playboy: «ero sulla scia del cambiamento […] Mi ero sempre opposta alle scene di nudo, ma Frontoni mi aveva ispirato molta fiducia […] e poi ero cresciuta, mi sentivo pronta».[81]
Il servizio, intitolato allusivamente La prima volta di Antonella,[82] allontana l’attrice anche da quell’icona ‘familiare’ e materna che, come si è visto, i rotocalchi amavano dipingere. Questo perché Playboy (comunque orientata da un desiderio e da uno sguardo prettamente maschile) si opponeva a un tipo di femminilità rispettabile e propensa all’autocensura e tendeva a promuovere un modello femminile che si discostava significativamente dagli stereotipi tradizionali di moglie e madre.[83]
A proposito delle scene di nudo mai accettate, Lualdi fa riferimento ad altre occasioni mancate, affermando di aver rifiutato una parte in Nerosubianco di Tinto Brass (1969) e un film diretto da Mike Nichols.[84] Stando a quanto scrive l’attrice, la decisione di non recitare in scene erotiche era motivata sia dal suo riserbo, sia dal controllo esercitato da Franco Interlenghi:
naturalmente, anche Franco era coinvolto in queste mie scelte. Sebbene non venisse mai sul set, evitando di esporsi ufficialmente, lavorava prima sul copione, quando c'era la lettura del personaggio, e in base a quello, una volta stabiliti i termini e firmato il contratto, eliminava le scene di nudo. Se la produzione accettava, stava tranquillo, perché io ero tutelata dalla mia firma e da quella della produzione.[85]
Antonella Lualdi, dunque, dopo essere cresciuta sotto la ferrea e restrittiva educazione della madre[86] e dopo il matrimonio di stampo tradizionale con Interlenghi, decide sia di porre fine al rapporto col marito sia di liberarsi di quell’aura di ingenuità che aveva da sempre caratterizzato la sua immagine divistica. Tale proposito è mantenuto anche nell’autobiografia, la cui copertina, non a caso, riporta una foto apparsa in prima pagina sulla rivista Nat. Nuova Alta Tensione, nel 1966, in cui l’attrice copre la sua nudità solo con un asciugamano.
Le copertine della rivista, infatti, erano solitamente caratterizzate da «attrici semisvestite, in pose ammiccanti, sovente con lo sguardo diretto al lettore».[87]
Infine, si potrebbe mettere a confronto l’autobiografia di Lualdi con uno dei due testi autobiografici di Claudia Cardinale, pubblicato nel 1995 con il titolo di Io, Claudia, tu, Claudia.[88] Se infatti Antonella Lualdi ‘prende la parola’ dopo la morte di Franco Interlenghi per problematizzare e rinforzare la propria immagine pubblica, Cardinale scrive a tre anni dalla morte dell’ex marito e produttore Franco Cristaldi[89] ma, al contrario, con l’intento di gettare luce su alcuni fatti della sua vita privata (primo fra tutti lo scandalo che la coinvolse nel 1967) e per smentire «il discorso pubblico che negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta veniva intessuto su di lei».[90]
L’attrice tunisina, disciplinata dalla sua casa di produzione attraverso le rigide regole (ormai anacronistiche) dello studio system hollywoodiano classico, per tutti gli anni di permanenza alla Vides non solo viene oscurata dalla figura del suo Pigmalione Cristaldi, ma anche dal «doppio» di quest’ultimo, il press agent Fabio Rinaudo.[91] È quindi in questo senso che la scrittura autobiografica di Cardinale assume il valore di una «replica»: dopo anni di silenzio parla in due riprese, forte dell’autorevolezza conquistata grazie alla sua luminosa carriera cinematografica.[92] Viceversa, Lualdi, non sorretta da altrettanto successo ma, anzi, spinta dal desiderio di rivendicare i propri traguardi di attrice, decide infine, in seguito al lutto, di intervenire.
Entrambe, una volta libere dal fantasma degli ex coniugi, cercano di riappropriarsi della loro immagine: una tenta di farlo spinta da una motivazione privata (ovvero il racconto della violenza subita da adolescente e del figlio tenuto segreto), l’altra nel tentativo di rinforzare il suo status di diva, nonostante si tratti, come si è visto, di una diva ‘mancata’.
Da sempre oscurata dalla notorietà di alcune colleghe ma soprattutto dalla presenza ingombrante del marito, alla morte di quest’ultimo Antonella Lualdi coglie l’occasione (paradossalmente nascondendosi ancora una volta dietro al nome di Franco Interlenghi) per prendere finalmente la parola su di sé e per riscrivere una storia di cui essere, stavolta, la protagonista.
1 M. Rizzarelli, ‘L’attrice che scrive, la scrittrice che recita. Per una mappa della diva-grafia’, in L. Cardone, G. Maina, S. Rimini, C. Tognolotti (a cura di), Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano, Arabeschi, 10, luglio-dicembre 2017, < http://www.arabeschi.it/13-/> [accessed 1.03.2021]).
2 Faccio riferimento all’edizione del 2019 del Forum FAScinA (Forum Annuale delle Studiose di Cinema e Audiovisivi), le cui riflessioni sono state raccolte in L. Cardone, A. Masecchia, M. Rizzarelli, ‘Scritto dalle stelle. Sulla rotta delle attrici italiane che scrivono’, in L. Cardone, A. Masecchia, M. Rizzarelli (a cura di), Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono, Arabeschi, 14, luglio-dicembre 2019, < http://www.arabeschi.it/numbers/arabeschi-n-14/ > [accessed 2.03.2021]. Con l’intento di attuare una prima ricognizione delle scritture delle attrici prende forma anche il PRIN 2017: Divagrafie. Drawing a Map of Italian Actresses in writing // D.A.M.A. / Divagrafie. Per una mappatura delle attrici italiane che scrivono // D.A.M.A., che vede come Principal Investigator Lucia Cardone (Università degli Studi di Sassari) e come responsabili delle altre unità coinvolte nel progetto Anna Masecchia (Università di Napoli Federico II) e Maria Rizzarelli (Università degli Studi di Catania). Questo saggio nasce appunto nell’ambito di tale progetto di ricerca.
3 A. Lualdi interlenghi, D. Verdegiglio, “Io Antonella, amata da Franco”, Imola, Manfredi Edizioni, 2018.
4 I. Tassi, Storie dell’io. Aspetti e teorie dell’autobiografia, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 4.
5 Ibidem.
6 Ibidem.
7 Ivi, p. 11.
8 Ivi, p. 84.
9 M. A. Mariani, Sull’autobiografia contemporanea. Nathalie Sarraute, Elias Canetti, Alice Munro, Primo Levi, Roma, Carocci, 2011, p. 12.
10 I. Tassi, Storie dell’io, p. 77.
11 J. Bruner, ‘The Autobiographical Process’, in R. Folkenflik (a cura di), The Culture of Autobiography. Constructions of Self-Representation, Stanford, Stanford University Press, 1993, p. 39. Salvo dove espressamente indicato, le traduzioni dall’inglese sono dell’autrice.
12 D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1996, pp. 53-54.
13 B. Anglani, I letti di Procuste. Teorie e storie dell’autobiografia, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 93
14 Ivi, p. 17.
15 R. Amossy, ‘Autobiographies of Movie Stars: Presentation of Self and Its Strategies’, Poetics Today, vol. 7, No. 4, 1986, p. 681.
16 P. Lejeune, Il patto autobiografico, p. 23.
17 G. Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, Bologna, il Mulino, 2018, p. 322.
18 Ibidem.
19 L. Cardone, A. Masecchia, M. Rizzarelli, ‘Scritto dalle stelle. Sulla rotta delle attrici italiane che scrivono’.
20 M. Rizzarelli, ‘Il doppio talento dell’attrice che scrive. Per una mappa delle “divagrafie”’, Cahiers d’études italiennes, 32, 2021, p. 1, < http://journals.openedition.org/cei/9005 > [accessed 2.03.2021].
21 R. Amossy, ‘Autobiographies of Movie Stars: Presentation of Self and Its Strategies’, p. 677.
22 R. Dyer, Star [1979], trad. it. di C. Capetta, D. Paggiaro, A. Verze, Torino, Kaplan, 2003, p. 85.
23 Ivi, p. 86.
24 R. Amossy, ‘Autobiographies of Movie Stars: Presentation of Self and Its Strategies’, p. 673.
25 Ivi, p. 676.
26 A. B. Saponari, ‘Cara Sandrocchia… La scrittura come agency per un riposizionamento nello spazio mediatico’, in L. Cardone, A. Masecchia, M. Rizzarelli (a cura di), Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono, Arabeschi, 14, luglio-dicembre 2019, < http://www.arabeschi.it/34-cara-sandrocchia-la-scrittura-come-agency-per-un-riposizionamentonello-spazio-mediatico-/ > [accessed 6.03.2021].
27 C. Spaak, Da me, Milano, Bompiani, 1993. Per un affondo sull’autobiografia di Catherine Spaak rimando a F. Piana, ‘Lo specchio della scrittura. Catherine Spaak e le storie della sua solitudine’, in in L. Cardone, A. Masecchia, M. Rizzarelli (a cura di), Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono, Arabeschi, 14, luglio-dicembre 2019, < http://www.arabeschi.it/25-lo-specchio-della-scrittura-catherine-spaak-e-le-storie-sua-solitudine/ > [accessed 6.03.2021].
28 D. Missero, ‘Catherine Spaak. L’invecchiamento di una diva, tra postfemminismo ed evoluzione dei media italiani’, in P. De Rosa, E. Mandelli, Valentina Re (a cura di), Aging girls. Identità femminile, sessualità e invecchiamento nella cultura mediale italiana, Sesto San Giovanni, Meltemi, 2021, p. 138.
29 È necessario infatti tenere conto delle peculiarità simboliche delle autobiografie femminili e della loro consistente numerosità. Segnalo, a questo proposito, D. C. Stanton, ‘Autogynography: Is the Subject Different?’, in D. C. Stanton (a cura di), The Female Autograph, Chicago-London: The University of Chicago Press, 1984, pp. 3-20 e B. Mapelli, ‘Memoria e scrittura come cura di sé’, in S. Ulivieri, I. Biemmi (a cura di), Storie di donne. Autobiografie al femminile e narrazione identitaria, Milano, Edizioni Angelo Guerini e Associati, 2011, p. 62. Per una visione di insieme sugli studi dedicati alle scritture del sé delle donne rimando invece a L. Mattesini, ‘Scrivere di sé: una rassegna critica sull’autobiografia femminile’, DWF, 2-3, 1993, pp. 28-47.
30 S. Ulivieri, ‘Metodo narrativo e ricerca di genere’, in A. Cagnolati, C. Covato (a cura di), La scoperta del genere tra autobiografia e storie di vita, Benilde Ediciones, 2016, p. 188.
31 A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano, Feltrinelli, [1997] 2011.
32 F. Pulvirenti, ‘Autobiografia e narrazione di genere’, in S. Ulivieri, I. Biemmi (a cura di), Storie di donne. Autobiografie al femminile e narrazione identitaria, p. 52.
33 L. Mattesini, ‘Scrivere di sé: una rassegna critica sull’autobiografia femminile’, p. 33.
34 V. Woolf, Una stanza tutta per sé [1929], trad. it. di E. Costantino, Milano, BUR Rizzoli, 2013.
35 S. Ulivieri, ‘Donne, narrazione di sé e autoriconoscimento’, in S. Ulivieri (a cura di), Le donne si raccontano. Autobiografia, genere e formazione del sé, Pisa, ETS, 2019, p. 26
36 C. Covato, ‘La dimensione storiografica dell’autobiografia femminile’, in S. Ulivieri (a cura di), Le donne si raccontano. Autobiografia, genere e formazione del sé, p. 19.
37 Ibidem.
38 S. Ulivieri, ‘Donne, narrazione di sé e autoriconoscimento’, p. 24.
39 S. Ulivieri, ‘Metodo narrativo e ricerca di genere’, p. 186.
40 F. Cambi, L’autobiografia come metodo formativo, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 29.
41 Ibidem.
42 B. Mapelli, ‘Memoria e scrittura come cura di sé’.
43 Ivi, p. 65.
44 S. Ulivieri, ‘Donne, narrazione di sé e autoriconoscimento’, p. 33.
45 Il rapporto tra attrice e Pigmalione è stato recentemente indagato in C. Tognolotti (a cura di), Cenerentola, Galatea e Pigmalione. Raccontare il divismo femminile nel cinema tra fiaba e mito, Pisa, ETS, 2020 (in corso di pubblicazione) e, con particolare riferimento al caso di Sophia Loren e Carlo Ponti, in C. Tognolotti ‘Sirena, Cenerentola e Pigmalione. L’immagine divistica di Sophia Loren, 1951-1968’, in L. Busetta, F. Vitella (a cura di), Schermi, IV, 8, luglio-dicembre 2020, pp. 37-60.
46 B. Mapelli, Soggetti di storie. Donne, uomini e scritture di sé, Milano, Edizioni Angelo Guerini e Associati, 2008, p. 98.
47 A. Lualdi interlenghi, D. Verdegiglio, “Io Antonella, amata da Franco”, p. 17.
48 R. De Mattei, La musa autobiografica, Firenze, Casa Editrice Le Lettere, 1990, p. 39.
49 C. Mori, Due guerrieri innamorati, Milano, Bompiani, 2014.
50 A. Lualdi interlenghi, D. Verdegiglio, “Io Antonella, amata da Franco”, p. 51.
51 E. Lancia, R. Pioppi, Le attrici, Roma, Gremese Editore, 2004, p. 207.
52 A. Lualdi interlenghi, D. Verdegiglio, “Io Antonella, amata da Franco”, p. 53.
53 E. Lancia, R. Pioppi, Le attrici, Roma, Gremese Editore, 2004, p. 207.
54 Le pellicole in cui recitano insieme, oltre al già citato Canzoni, canzoni, canzoni, sono: Amori di mezzo secolo (G. Pellegrini, P. Germi, M. Chiari, R. Rossellini, A. Pietrangeli, 1954); Non c’è amore più grande (G. Bianchi, 1955); Gli innamorati (M. Bolognini, 1955); Altair (L. De Mitri, 1956); Il cielo brucia (G. Masini, 1957); Padri e figli (M. Monicelli, 1957); Giovani mariti (M. Bolognini, 1958); Polikuska (C. Gallone, 1958); La notte brava (M. Bolognini, 1959); Sangue sull’asfalto (B. Borderie,1959); La colonna di Traiano (M. Dragan, 1968).
55 Come ad esempio: ‘Antonella e Franco fidanzamento incerto’, Oggi, X, 2, 14/01/1954, p. 37; ‘Antonella e Franco si sono fidanzati lungo la Senna’, Oggi, X, 21, 27/5/1954; ‘Franco e Antonella hanno telefonato ai genitori di essere marito e moglie’, Oggi, XI, 38, 29/9/1955; ‘Come nel loro film’, Noi donne, X, 39, 2/10/1955, p. 3. Tutti gli articoli consultati fanno parte del database del progetto PRIN 2015 ‘Comizi d’amore. Il cinema e la questione sessuale in Italia (1948-1978)’.
56 Per citarne alcuni, ‘È arrivata una bambina per la gioia di Antonella e Franco Interlenghi’, Oggi, XII, 7, 23/2/1956; ‘Antonella, mamma felice’, Oggi, XII, 50, 13/12/1956, p. 10; ‘La famiglia Interlenghi al completo’, Così, III, 20, 19/5/1957, p. 20; ‘Tra Roma e Fregene il ferragosto di Stella e di Antonella Lualdi’, Oggi, XIII, 34, 22/8/1957.
57 ‘Antonella aspetta un bimbo’, Oggi, XVII, 11, 16/3/1961, p. 60; P. Rufo, ‘La famiglia Interlenghi in attesa’, Così, VII, 21, 21/5/1961, p. 7; ‘Antonella seconda’, Così, VII, 34, 20/8/1961, p. 34; ‘Sulla neve con mamma’, Così, IX, 2, 13/1/1963, p. 31; ‘La famiglia Interlenghi in vacanza’, Così, IX, 40, 6/10/1963, p. 34; ‘Alla scuola di mamma Antonella’, Così, X, 48, 29/11/1964, p. 40.
58 Si riferisce alla prima interpretazione di Franco Interlenghi in Sciuscià (V. De Sica, 1946). All’epoca, l’attore aveva quindici anni.
59 A. Lualdi interlenghi, D. Verdegiglio, “Io Antonella, amata da Franco”, p. 199.
60 Ivi, p. 89.
61 Ivi, p. 91.
62 Ivi, p. 90.
63 Ivi, p. 91.
64 S. Pampanini [1996], Scandalosamente perbene, Roma, Gremese Editore, 2004.
65 A. Lualdi interlenghi, D. Verdegiglio, “Io Antonella, amata da Franco”, p. 96.
66 Ivi, pp. 92-93.
67 F. Cambi, L’autobiografia come metodo formativo, p. 24.
68 Ivi, p. 23.
69 A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, p. 10.
70 S. Ulivieri, ‘Donne, narrazione di sé e autoriconoscimento’, p. 28.
71 S. Ulivieri, ‘Metodo narrativo e ricerca di genere’, p. 183.
72 D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, p. 51.
73 A. Lualdi interlenghi, D. Verdegiglio, “Io Antonella, amata da Franco”, p. 129.
74 In queste righe l’attrice fa riferimento alle sue origini: è nata infatti in Libano, sua madre era greca e suo padre italiano.
75 Ivi, p. 209.
76 Ivi, pp. 135-136.
77 S. Bellassai, ‘Mascolinità, mutamento, merce. Crisi dell’identità maschile nell’Italia del boom’, in P. Capuzzo (a cura di), Genere, generazione e consumi. L’Italia degli anni Sessanta, Roma, Carocci, 2003, p. 107.
78 A. Lualdi interlenghi, D. Verdegiglio, “Io Antonella, amata da Franco”, pp. 215-216.
79 Ivi, p. 213.
80 Ivi, p. 193.
81 Ivi, p. 199.
82 N. Salvalaggio, ‘La prima volta di Antonella’, Playboy, anno VIII, 6, giugno 1979, pp. 34-52.
83 D. Missero, ‘Playboys and the Cosmo Girls: Models of Femininity in Italian Men’s and Women’s Magazines and the Popularization of Feminist Knowledge’, AG About Gender, vol. 8, N° 16, 2019, p. 89.
84 A. Lualdi interlenghi, D. Verdegiglio, “Io Antonella, amata da Franco”, p. 199.
85 Ibidem.
86 L’attrice ricorda come la madre le proibisse di toccare qualsiasi uomo prima del matrimonio, compreso suo padre. Ivi, p. 24.
87 G. Maina, Play, Men! Un panorama della stampa italiana per adulti (1966-1975), Milano – Udine, Mimesis, 2019, p. 29.
88 C. Cardinale, A. M. Mori, Io, Claudia, tu, Claudia, Milano, Frassinelli, 1995.
89 La seconda autobiografia viene invece pubblicata in seguito alla separazione da Pasquale Squitieri, C. Cardinale, Le stelle della mia vita, Milano, Frassinelli, 2006.
90 C. Jandelli, ‘Le confessioni di CC’, in L. Cardone, A. Masecchia, M. Rizzarelli (a cura di), Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono, Arabeschi, 14, luglio-dicembre 2019, < http://www.arabeschi.it/numbers/arabeschi-n-14/ > [accessed 20.03.2021].
91 Il rapporto fra Cardinale e i suoi due Pigmalioni è accuratamente descritto in C. Jandelli, ‘Cardinale e Cristaldi’, in C. Tognolotti (a cura di), Cenerentola, Galatea e Pigmalione. Raccontare il divismo femminile nel cinema tra fiaba e mito, pp. 119-132.
92 Ivi, p. 129.