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  • [Smarginature] Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono →

Tra cinema, teatro e letteratura, il percorso lavorativo di Elsa de’ Giorgi e il suo poliedrico profilo artistico non possono che rinviare, per una ideale ricomposizione unitaria, a coordinate afferenti a linguaggi espressivi molteplici. Diva del cinema dei ‘telefoni bianchi’, de’ Giorgi esordisce nel 1933 in T’amerò sempre di Mario Camerini, dove giovanissima si presta all’interpretazione della protagonista Adriana, una ragazza-madre sedotta e abbandonata. Alla carriera cinematografica – che prosegue anche attraverso una nutrita schiera di film in costume, tra cui La sposa dei re (1938), Il fornaretto di Venezia (1939), Capitan Fracassa (1940), La maschera di Cesare Borgia (1941) di Duilio Coletti – si affianca negli anni Quaranta la strada del teatro, che vede de’ Giorgi impegnata nei ruoli di Desdemona, nell’Otello di Renzo Ricci, o di Annette nella rilettura del Francillon di Dumas figlio diretta da Luigi Carini. Oltre ad alcune prove di regia teatrale, una lunga pausa dalla scena cinematografica, iniziata nel dopoguerra, verrà interrotta soltanto nel 1963 con la partecipazione di de’ Giorgi a due pellicole di Pasolini, La ricotta, episodio del film Ro.Go.Pa.G., e Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), le scandalose sequenze dove l’attrice domina lo schermo nelle vesti della superba e cinica signora Maggi [fig. 1]. Al ritiro che connota la parabola cinematografica di Elsa de’ Giorgi non corrisponde tuttavia un silenzio dell’artista, che a partire dagli anni Cinquanta, lungo un arco cronologico che si snoda per più di vent’anni, si esprime attraverso saggi, poesie, romanzi pubblicati in volume.

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1. La fragilità dei ricordi

Molte vite cadono nell’oblio e le impronte lasciate su questo pianeta non sono indelebili. Se poi tali impronte sono state lasciate sullo schermo argentato di un vecchio cinema o sulla fragile carta di un quotidiano di cento anni fa, è ancora più raro che ne siano rimaste tracce evidenti. Alcune di quelle vite dimenticate hanno avuto un tempo di gloria, in cui la celebrità deve essere parsa immensa e senza fine. Sono state acclamate e amate, e hanno riempito i loro bauli di ricordi. Proprio da uno di quei bauli estraggo una foto e un ritaglio di giornale. Sono supporti fragili, che rischiano di sbriciolarsi fra le dita, ma testimoniano l’esistenza di una vita che è stata vissuta. Nella foto c’è una donna giovane e sorridente; posa in un abito elegante, la testa leggermente reclinata e il busto girato di tre quarti. Si chiama Marcella, e anche se quello non è il suo vero nome, è così che si firma nell’articolo. Ci sono altre foto e ritagli di giornale, lettere, programmi di sala e documenti di produzione, alcuni scritti in tedesco. Fragilissimi fogli che parlano di lei o sono stati scritti da lei. Nelle foto è in posa, elegantissima, o in scena in costumi improbabili da odalisca o vestita da sci. Infine ci sono dei libri. Le copertine – disegnate con una grafica razionalista tipica degli anni Trenta – presentano titoli come Innamorata o Straniera.

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