1.2. Per una declinazione del doppio talento nella carriera di Elsa de’ Giorgi

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  • [Smarginature] Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono →

Tra cinema, teatro e letteratura, il percorso lavorativo di Elsa de’ Giorgi e il suo poliedrico profilo artistico non possono che rinviare, per una ideale ricomposizione unitaria, a coordinate afferenti a linguaggi espressivi molteplici. Diva del cinema dei ‘telefoni bianchi’, de’ Giorgi esordisce nel 1933 in T’amerò sempre di Mario Camerini, dove giovanissima si presta all’interpretazione della protagonista Adriana, una ragazza-madre sedotta e abbandonata. Alla carriera cinematografica – che prosegue anche attraverso una nutrita schiera di film in costume, tra cui La sposa dei re (1938), Il fornaretto di Venezia (1939), Capitan Fracassa (1940), La maschera di Cesare Borgia (1941) di Duilio Coletti – si affianca negli anni Quaranta la strada del teatro, che vede de’ Giorgi impegnata nei ruoli di Desdemona, nell’Otello di Renzo Ricci, o di Annette nella rilettura del Francillon di Dumas figlio diretta da Luigi Carini. Oltre ad alcune prove di regia teatrale, una lunga pausa dalla scena cinematografica, iniziata nel dopoguerra, verrà interrotta soltanto nel 1963 con la partecipazione di de’ Giorgi a due pellicole di Pasolini, La ricotta, episodio del film Ro.Go.Pa.G., e Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), le scandalose sequenze dove l’attrice domina lo schermo nelle vesti della superba e cinica signora Maggi [fig. 1]. Al ritiro che connota la parabola cinematografica di Elsa de’ Giorgi non corrisponde tuttavia un silenzio dell’artista, che a partire dagli anni Cinquanta, lungo un arco cronologico che si snoda per più di vent’anni, si esprime attraverso saggi, poesie, romanzi pubblicati in volume.

Considerata nel suo complesso, dunque, l’attività di de’ Giorgi appare contrassegnata da una duplice inclinazione, protesa, in un durevole contrappunto, tanto verso il dominio del verbale quanto in direzione dei linguaggi visuali. Dal punto di vista teorico, dunque, l’erma bifronte dell’ispirazione dell’attrice può avvalersi della categoria interpretativa del ‘doppio talento’. Delineata in anni recenti da Michele Cometa, tale prospettiva ermeneutica si fonda sulla ‘doppia vocazione’, appunto, «di scrittori che fanno ricorso ai media visuali durante la creazione letteraria o accanto a essa» (Cometa 2014, p. 48), laddove per «media visuali» si intendono la pittura e, in misura minore, anche la scultura e l’architettura. Ad un primo sguardo, le riflessioni che lo studioso ha elaborato in relazione, prevalentemente, agli scrittori-pittori sembrano attagliarsi al terreno critico delle attrici che scrivono (e delle scrittrici che recitano). In quella che rappresenta la prima mappatura della diva-grafia, infatti, Maria Rizzarelli ha già offerto un accostamento della duplice vocazione di de’ Giorgi al concetto di Doppelbegabung; tuttavia, nel tracciare il sentiero di un inquadramento teorico delle divagrafie, questa pioneristica ricognizione indica una serie di criticità rispetto alle quali Rizzarelli enuncia un appropriato avvertimento:

 

Il caso dell’attrice che scrive rientra senz’altro a pieno titolo nell’ampia e sfaccettata categoria del «doppio talento» […]. Provare ad applicare tale categoria all’eterogenea produzione letteraria firmata dalle attrici, per saggiarne in tal modo la fecondità ermeneutica, significa innanzitutto interrogarsi sugli oggetti di studio implicati (produzioni doppie, filmiche e letterarie), sulle convergenze (o sulle divergenze) fra l’immagine attoriale rappresentata dall’autrice nella propria esperienza performativa e quella contenuta nel testo letterario, sui riverberi e sulla dimensione metatestuale che la scrittura produce rispetto allo stile recitativo e alla star persona. Per quanto, però, si provi a tradurre le tipologie individuate da Michele Cometa in riferimento agli scrittori-pittori […], la traslazione delle arti figurative a quelle performative impone un adeguamento dello sguardo critico ad un codice più complesso e sfuggente (Rizzarelli 2017).

 

In effetti, una lettura dell’attività di Elsa de’ Giorgi condotta attraverso la prospettiva del doppio talento restituisce in controluce una collocazione fuori asse della carriera dell’attrice e lascia emergere, piuttosto, un iter artistico che, sebbene nell’ambito di un terreno di confronto parzialmente condiviso, risulta allineato in maniera imperfetta con una tassonomia, quella degli scrittori che hanno fatto ricorso alle arti figurative, articolata principalmente sulla pagina come unico supporto mediale. Una delle difficoltà più evidenti nell’adeguamento della categoria del doppio talento al territorio delle attrici che scrivono riguarda le questioni poste dall’autorialità. Cometa restringe il campo d’indagine ai soli casi in cui «l’autore della parte testuale e di quella figurativa coincidono perfettamente» (ivi, p. 48n). Sia per l’esperienza attoriale che per quella registica, è noto come lo statuto autoriale non goda di una immediata individuazione. Spesso conteso tra le figure dell’attore, del regista, dello sceneggiatore, l’autore di un film (e il discorso non appare meno complicato per il teatro) può addirittura spostarsi sul terreno della produzione, qualora si consideri autore «il responsabile materiale della fattura dell’opera» e la pellicola venga valutata «come artefatto o come prodotto» (Pescatore 1999, p. 204). Ma a prescindere dalle ambiguità derivanti dal lavoro collettivo che presiede all’opera filmica, alcune frizioni tra l’assetto teorico e gli oggetti di analisi sono rinvenibili anche nel caso in cui sotto la lente d’ingrandimento del doppio talento venga posta la produzione letteraria di Elsa de’ Giorgi, nel tentativo di rintracciarne, sulla base dei codici espressivi chiamati in causa, raccordi e sfasature, momenti di incontro e divergenze.

Uno dei punti di contatto, già rilevato da Rizzarelli come una ‘costante’ individuabile nella «maggior parte dei libri scritti dalle attrici» (ibidem), riguarda «l’ossessione autobiografica» (Cometa 2014, p. 55). Tanto nella produzione degli scrittori-pittori, quanto nei testi delle attrici che scrivono, l’autobiografia e la «costruzione del Sé» (ivi, p. 55) si pongono come generi e temi predominanti. Il caso di de’ Giorgi non fa eccezione; la sua penna scorre lungo i rivoli di un continuo auto-riflettersi attraverso molteplici soluzioni formali, di un costante ripensare la propria biografia entro le potenzialità espressive offerte dal mezzo letterario. Un testo esemplificativo, in tal senso, può essere considerata l’opera d’esordio dell’artista, I coetanei [fig. 2], edita nel 1955 e, dopo una ristampa del 1992, finalmente riproposta al pubblico dei lettori nel 2019 con una ‘Introduzione’ di Roberto Deidier. Finora ingiustamente trascurata dalla critica, la cronaca romanzata dei Coetanei coglie i personaggi – in realtà persone reali riplasmate dall’autrice nel flusso del racconto – alla vigilia dell’ingresso dell’Italia in guerra e li accompagna fino al tracollo elettorale del 1948. Esercitandosi sugli eventi vissuti durante uno scorcio di secolo tra i più controversi, la prosa di Elsa de’ Giorgi, in tensione dialettica con i testi di argomento resistenziale consacrati dal canone (si pensi al primo Calvino, a Vittorini, Pavese, Fenoglio), tesse una trama sospesa tra i dialoghi e le descrizioni di alcuni dei protagonisti della nostra storia culturale (tra i quali Trilussa, Alberto Savinio, Carlo Levi) da una parte, e le vicende dell’io narrante dall’altra. Protagonista, infatti, è una narratrice intradiegetica costruita sulla scorta di manifeste corrispondenze con la biografia dell’autrice; si presenta ai lettori proiettandosi nell’appellativo «“Ciao, diva”» (de’ Giorgi 2019, p. 28), pronunciato in apertura dalla Nanna (doppio letterario di Anna Magnani), e li conduce per mano negli episodi ambientati a Cinecittà o nel ventre di Roma durante l’occupazione. Quindici anni dopo la pubblicazione dei Coetanei, con Storia di una donna bella de’ Giorgi propone un’ulteriore edificazione in chiave letteraria del sé, ma ne affida questa volta le sembianze a un personaggio di finzione [fig. 3]. Nel romanzo del 1970 l’io narrante dei Coetanei cede il posto al racconto in terza persona della vita di Elena, costruita, en abyme, sulla storia di un’attrice e del suo contesto familiare, nel quale si riconosce, ad esempio, la disapprovazione del padre nei confronti del mestiere di attrice.

I due poli rappresentati dall’affresco corale dei Coetanei e dalla narrazione, più introspettiva e privata, contenuta in Storia di una donna bella non esauriscono il campionario di prove che potrebbero essere citate in rapporto alla componente autobiografica dei testi di Elsa de’ Giorgi. Spingendosi talvolta in direzione della ‘veste’ finzionale, altre volte accentuando l’oscillazione verso l’elemento autobiografico come «esperienza autentica e vissuta» (Battistini 1990, p. 174), la scrittura dell’artista non lesina frequenti rinvii a dati extratestuali. Così avviene con i versi confluiti nel volume del 1962 La mia eternità [fig. 4], dove si inseguono le trasfigurazioni liriche dello ‘Sposo rapito’, titolo di una delle tre sezioni della raccolta e pregnante allusione al marito Sandrino Contini Bonacossi, allontanatosi dall’Italia nel 1955 in circostanze poco chiare, e dello ‘Scoglio’, titolo della seconda parte del testo e metafora della pertinacia di una passione amorosa nella quale non è difficile scorgere la figura di Italo Calvino. Proprio la relazione con lo scrittore, intercorsa nella seconda metà degli anni Cinquanta, sarà al centro di Ho visto partire il tuo treno [fig. 5], pubblicato nel 1992 e dato nuovamente alle stampe nel 2017. Si tratta di un testo che, insieme ai Coetanei, è stato oggetto di un recupero editoriale e di un incipiente interesse critico sintetizzato, ancora una volta, nella ‘Prefazione’ di Roberto Deidier. Lungi dal limitarsi a una sterile rievocazione di una vicenda sentimentale, la scrittura in prima persona di Ho visto partire il tuo treno si muove a proprio agio tra dichiarazioni di poetica, episodi autobiografici e digressioni dal respiro collettivo in cui sfilano – come è già accaduto, con un maggiore grado di finzionalità, nell’opera d’esordio – i ritratti di coloro che hanno abitato la scena artistica e intellettuale del Novecento, contribuendo a sciogliere in stile ed espedienti formali le ragioni di una prosa che tende ad una consapevole «pretesa di verità» (Deidier 2017, p. 19).

Se attraverso la narrazione autobiografica la scrittura di Elsa de’ Giorgi dà prova di un’adesione alla teoria del doppio talento, uno scarto interpretativo interviene, invece, nel momento in cui tra le righe del testo letterario subentra, a livello tematico, l’interazione con il cinema. Rimane escluso dall’analisi di Cometa, infatti, l’intero campo semantico e semiotico relativo all’«espressione del volto; voce, gesti […]; postura […]; movimenti del corpo» (Dyer 2009, p. 163); agli elementi, ovvero, che pertengono alla performance. Se è presente una dimensione performativa nelle argomentazioni dello studioso, essa «attiene alla sostanza performativa della figuratività» e si concretizza nei «collage» o nei «montage delle avanguardie novecentesche» (Cometa 2014, p. 77), rimanendo confinata all’interno di una inevitabile bidimensionalità. Eppure, la produzione letteraria di Elsa de’ Giorgi è costellata di rimandi a un medium e a un linguaggio esterni ai confini della pagina scritta, dove la tematizzazione della performance attoriale e della stessa ‘pratica’ del cinema possono assumere anche una valenza poietica; si tratta di un impulso creativo che insieme alla componente metatestuale attivata dai rimandi all’attività cinematografica riconnette, per vie traverse, l’ispirazione letteraria dell’attrice alla categoria del doppio talento, rendendone allo stesso tempo necessaria un’integrazione funzionale con gli studi sul divismo.

A tal proposito, sarà opportuno ricordare che durante l’arco degli anni Trenta e, in parte, degli anni Quaranta, l’attrice Elsa de’ Giorgi è pienamente partecipe di un mito divistico che si nutre di donne facilmente etichettate. Per il cinema di regime l’attrice viene annoverata tra le figure femminili candide, marmoree, spesso insidiate, e colte ad agire in cornici melense e quasi rarefatte (cfr. Savio 1975, pp. V-XXII; Scaglione 2003). A fronte di uno scenario divistico ad elevato grado di stereotipia, i capitoli dei Coetanei possono nuovamente rappresentare un valido punto di partenza, giacché si prestano a tracciare una dinamica tra immagine divistica e personaggio, nonché a dimostrare una maturità ideologica, più problematiche di quanto non lascino percepire le sequenze cinematografiche. Ciò diviene tanto più eloquente qualora si osservi la cronologia del percorso dell’artista, che nel 1947, con Minù il contrabbandiere di Lucio De Caro, sospende il lavoro per il cinema e inizia a dedicarsi nel decennio successivo alla scrittura, in un passaggio di consegne che si presuppone particolarmente significativo ai fini di una riflessione sulla propria identità di attrice e di intellettuale.

Intercettando, appunto, un’altra peculiarità del doppio talento – anch’essa, come si è visto, adeguatamente evidenzata da Rizzarelli – la dimensione metatestuale dei Coetanei propone talvolta un confronto con i film in cui l'autrice recita negli anni recuperati sotto forma di plot. Durante le riprese della Maschera di Cesare Borgia [fig. 6], l’io narrante accoglie la notizia dell’entrata in guerra ritirandosi nel camerino: «sedetti davanti allo specchio», riferisce, «il rimmel si era sciolto e tracciava due solchi neri, sulle guance color arancione, due segni tristi da clown» (de’ Giorgi 2019, p. 42). Esplicito, inoltre, diviene il distacco dalla tecnica di recitazione durante una scena girata in concomitanza con la notizia della morte di Balbo, quella «di selvaggio tentato possesso da parte di Cesare Borgia», in relazione alla quale l’autrice ricorda: «impersonavo la consueta tenera colomba fra le grinfie del Nibbio. […] La scena era stupida, difficile, e io ero stanca e distratta» (ivi, p. 55).

Più di quanto non avvenga con i ruoli interpretati per il cinema, dunque, la scrittrice de’ Giorgi contribuisce alla definizione della propria immagine divistica, sconfessandone i tratti di maggiore ‘passività’ ed esibendo nei suoi libri una profonda coscienza della propria bellezza e, spesso, un consapevole compiacimento. Nell’ambito della «dialettica […] che lega la persona reale al personaggio dello schermo e viceversa» (Morin 1995, p. 145), posta da Morin alla base della nascita della star, la letteratura firmata da de’ Giorgi riveste pertanto un ruolo fondamentale, interferendo con il processo di costruzione della star persona e ponendosi come linguaggio depositario di un’immagine divistica che si intende sempre più definita qualora se ne provi a cogliere la fisionomia non già nei contrappunti tra ruolo cinematografico e persona reale, bensì nel riflettersi di quest’ultima nel personaggio letterario. Attraverso la specola offerta da questa chiave di lettura varrebbe la pena ripercorrere in maniera sistematica l’intera produzione letteraria di de’ Giorgi, in cui è possibile sorprendere, ad esempio, Elena – l’alter ego dell’autrice in Storia di una donna bella – che, ancora alle prime armi, avverte sconcertata «il clamore del cinema, la scoperta meccanicità dei suoi mezzi […]. La scomposizione tecnica della più piccola scena, quella della stessa anatomia della sua persona nel ritrarla, il frazionamento del racconto e del personaggio» (de’ Giorgi 1970, pp. 32-33); e in cui si trova, perfino tra le pieghe dell’‘io’ più remissivo del breve romanzo L’innocenza (1960), vessato dall’indifferenza del marito, un ricordo d’infanzia posto in apertura: «appena mi sentivo osservata cominciavo a comporre il personaggio vezzoso che il mio aspetto suggeriva per invitare gli altri ad occuparsi di me» (de’ Giorgi 1960, pp. 11-12) [fig. 7].

Su un piano strettamente metodologico, non stupisce che le interazioni chiamate in causa dal doppio talento, nella loro massima estensione, raggiungano la musica, oltre alla scultura e all’architettura, ma non il codice audiovisivo. Sulla base della trattazione di Cometa, è possibile supporre che un retroterra teorico sia costituito dal fondamentale studio di Warren e Wellek – quest’ultimo, peraltro, più volte citato, sebbene nell’ambito di un aggiornamento critico – dove il rapporto della letteratura con le arti viene correlato alla pittura, alla scultura e alla musica (cfr. Wellek, Warren 1956, p. 167). Se si ammette per valida questa ipotesi, ad entrare in gioco, dunque, non sarebbe soltanto l’individuazione della sfera di pertinenza del doppio talento, ma l’intero campo di ricerca relativo al dialogo tra letteratura e visualità.

Ponendosi come punto di fuga di questioni teoriche ancora irrisolte e ritagliandosi uno spazio di primo piano nel panorama ibrido delle attrici che scrivono, la carriera di de’ Giorgi invita, se non ad estendere le coordinate del doppio talento dal medium letterario e figurativo a quello audiovisivo – il che comporterebbe un ripensamento a lungo raggio di sintassi, forme, strumenti – quantomeno ad ampliarne «le zone di reciproca opacità, “l’imperfezione” delle loro grammatiche» (Cometa 2014, p. 73). Lo stesso territorio in cui, verosimilmente, agisce e si sedimenta il doppio talento di Elsa de’ Giorgi.

 

 

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