Io so che in ogni grande scrittrice […] c’è una grande attrice e viceversa […]. Feci questa scoperta con Elsa Morante, un giorno di sua ira furiosa […] mi trovai sotto i suoi insulti a stupirmi affascinata dei tempi d’attrice che possedeva. Lei mi insultava e io pensavo: […] [potrebbe] essere una tragica perfetta; in certi suoi sguardi e gesti, infatti, mi ricordò la Magnani. […] Anche della silenziosa Natalia Ginzburg si potrebbe fare un’attrice comica.
Goliarda Sapienza, La mia parte di gioia
1. Orientarsi con le stelle
Dietro, o meglio dentro, ogni grande scrittrice si indovina la figura, e soprattutto la voce, di una attrice (Sapienza 2013, pp. 129-130). È una intuizione lucidissima di Goliarda Sapienza, che ha vissuto in bilico fra i suoi talenti, a indicarci la rotta da seguire, segnando poeticamente la nostra mappa.
E dunque, a partire dalla immagine fantasticata di una Elsa Morante impareggiabilmente tragica e di una Natalia Ginzburg silenziosamente comica (ibidem), cominciamo a interrogarci sul nodo, strettissimo, che lega scrittura e recitazione, guardando alla folta schiera delle attrici che scrivono. Questa prima ricognizione appare promettente e foriera di rilanci e ricerche future, giacché le nostre attrici-autrici, convocate dalle studiose in una sorta di animata e risonante fotografia di gruppo, testimoniano la ricchezza, la molteplicità e lo spessore di una produzione testuale che sembra non fermarsi e porsi in continuità, o meglio in serrato confronto, con le parole, i gesti performativi, e con il loro muoversi sul set o sul palcoscenico. Che si tratti di romanzi (e pensiamo ancora, per prima, a Sapienza e alla sua Arte della gioia), o di poesie, come nel caso di Elsa de’ Giorgi, Mariangela Gualtieri e Isa Miranda; di arguti scritti giornalistici e di interventi di costume più immediatamente prossimi alla costruzione della immagine divistica, come testimoniano la rubrica di piccola posta curata da Giulietta Masina e le saporose ricette elaborate da Sophia Loren per le sue ammiratrici; o dell’ampio panorama delle autobiografie, da Doris Duranti a Asia Argento; ciò che emerge e risuona è la mutevole presenza di voci che cercano, aprono e in ogni caso mettono in scena la partitura di un dialogo. Con se stesse, con le lettrici-spettatrici, con il riflesso della loro facies pubblica, con le attrici e le donne che sono, che sono state o che desiderano diventare. È forse proprio questo carattere intimamente relazionale – in molti e differenti sensi – il filo rosso che tiene insieme esperienze e parole fra loro molto distanti, sia per la cronologia, sia per la varietà dei generi letterari attraversati.
Del resto quella fra le attrici e la scrittura è una lunga storia, perché lo spazio della pagina, fin dall’Ottocento, è stato per loro, donne di visibilità straordinaria e finanche scandalosa, un luogo privilegiato dove riflettere su di sé, sulla propria vita e sul proprio lavoro (Mariani 1991). Tale inclinazione non subisce flessioni, anzi si infittisce lungo tutto il Novecento e giunge fino alla contemporaneità, consegnandoci una miriade di multiformi oggetti testuali. Non stupisce, quindi, la ampia varietà offerta da questa prima panoramica di gruppo, capace di annodare percorsi lontanissimi e di collegare imprevedibilmente le ‘grand’attrici’ del teatro e le dive 2.0, le tavole del palcoscenico e le luminescenze degli schermi digitali, i set cinematografici e le copertine dei rotocalchi. Così, le scritture prodotte dalle attrici si dispiegano in forme ibride e chiedono approcci multidisciplinari, sporgendosi su una zona impervia e attraente, una specie di terra di nessuno dove i Film Studies, le letterature comparate, la storia culturale e quella delle donne cercano di incrociarsi, generando sovente letture corsare, imprevedibili e avventurose. Invero, sebbene privi del Jolly Rogers, il nero e ossuto vessillo dei Pirati, i testi che raccogliamo qui propongono un viaggio verso l’incognito, un veleggiare leggero e a suo modo rischioso nel frammentario arcipelago delle divagrafie, che rivela subito la natura speciale di un territorio ancora inesplorato. È un paesaggio vitale e lussureggiante, sinuoso, che consente di guardare più da vicino e diversamente la storia dello spettacolo filmico in Italia, aprendo un inedito affaccio sugli aspetti concreti e sui fatti immaginari del lavoro dell’attrice, sul ruolo e sulle potenzialità trasformative della parola scritta, sui nuovi filoni letterari e paraletterari, dalle riviste a YouTube, tenendo salda la nostra bussola sul punto di vista delle attrici (Pierini 2017). È dunque nella forma di una mappa tracciata a mano libera, ancor grezza e bisognosa di ulteriori specificazioni, che presentiamo questa prima incursione nelle divagrafie, tentando una provvisoria suddivisione in alcune, fascinose, macroregioni, che consentono di disegnare una prima scansione.
2. Il corpo e / è la penna
Cominciamo dunque la nostra esplorazione con le attrici letterate, ossia con quelle figure poliedriche per le quali la parola scritta ha rappresentato un ambito fondante, una attività intensa e non seconda rispetto alla recitazione. Per loro, ci piace immaginare una specie di vitale cortocircuito, una irresistibile forza attrattiva che salda il geroglifico del corpo performativo e il gesto della mano che scrive. Fin dall’invenzione della categoria di divagrafia (Rizzarelli 2017), ci siamo trovate di fronte a casi emblematici di attrici-scrittrici propriamente divise, o forse moltiplicate, dalla spinta tensiva di un doppio talento (Cometa 2014). Occorre nominare, ancora e ancora, la già citata Goliarda Sapienza, stella brillantissima e, per molti versi, sicuro riferimento.
È ormai noto il suo percorso artistico di attrice e di «cinematografara», come lei stessa amava definirsi, che ha trovato infine la sua misura più autentica nel romanzo e, in senso lato, in una coraggiosa ricerca sulle forme letterarie (Rizzarelli 2018). Nei suoi scritti, le parole e il tempo del cinema si intrecciano in pagine mirabili, eccedenti, attraversate come sono dalle cose grandi e piccole della vita. Il magnifico ingombro della sua figura non deve però ingannare la nostra navigazione: ché non si tratta di un astro isolato, ma di una fitta e variamente splendente costellazione di attrici-letterate. Pensiamo ad esempio a Adriana Asti, a Laura Betti, a Franca Valeri, e l’elenco potrebbe ben continuare.
Il tragitto dallo schermo alla pagina è punteggiato di donne che scrivono e che talvolta trovano nell’industria culturale un preciso e inatteso sbocco. è il caso di Marcella Albani, messa in luce da Micaela Veronesi, che si muove dai set italiani e tedeschi degli anni Venti e Trenta alla letteratura di genere e al giornalismo di costume. Autrice feconda di romanzi d’amore e arguta osservatrice del mondo del cinema, Albani rivendica per sé e propone al pubblico dei lettori una vertiginosa prossimità con le creature filmiche, tanto da immaginare una conversazione a braccetto con Greta Garbo. L’attrice-autrice tratteggiata da Veronesi si impone come eccellente case study, giacché appartiene alla folta e misconosciuta schiera delle scrittrici attive nel giornalismo e nella letteratura di intrattenimento nei primi decenni del Novecento, sul cui lavoro si è rafforzata e diffusa la nascente industria culturale italiana. Oggi di loro sappiamo poco, a volte pochissimo: di alcune ignoriamo persino il nome, oscurato dalla pseudonimia corrente; eppure non di rado queste donne dalla penna agilissima hanno conosciuto, in vita, una fama clamorosa, destinata a consumarsi rapidamente nelle vorticose rotatorie dell’editoria popolare.
Certamente più nota è invece Elsa de’ Giorgi, indagata qui da Corinne Pontillo nella prospettiva del doppio talento, marcandone soprattutto l’impianto audiovisuale. Basti ricordare la dirompenza di I coetanei, recentemente ripubblicato da Feltrinelli (2019), sorta di mémoire cinematografico e resistenziale, percorso da un fremito romanzesco, che racconta i tempi terribili ma esaltanti della ‘Roma città aperta’, e l’emergere, anche nella zona grigia e in certo senso a parte del cinema, della lotta antifascista. La scrittura di de’ Giorgi è un riecheggiare di voci: voci visibili, intimamente legate alla memoria dello schermo, alla levigata immagine di diva dei Telefoni bianchi, dal «candido profilo marmoreo», per usare le parole di Pontillo, cui il divismo del Ventennio ha provato a confinarla; e voci dissonanti, fuori dal coro. Perché nonostante la sua ascendenza alto borghese, legata alla intellettualità fiorentina, de’ Giorgi è stata una donna di scandalose trasgressioni, irriducibile a qualsivoglia stereotipo, e di questa sua imprendibilità dànno conto, ancor oggi, i suoi romanzi, e i sorprendenti racconti nei quali la finzione letteraria e l’esperienza biografica si fondono e si confondono.
Il tracimare della dimensione esistenziale nelle pieghe della scrittura sembra essere un tratto ricorsivo delle divagrafie, come mostrano i romanzi di Anne Wiazemsky, icona della Nouvelle Vague francese e significativa presenza nel cinema d’autore italiano e internazionale, convocata qui dalla ricerca di Beatrice Seligardi. Difatti la trilogia pubblicata da Gallimard – Jeune Fille (2007), Une année studieuse (2013) e Un an après (2015) – è incentrata sulla sua carriera di attrice e mescola consapevolmente i piani, mettendo in scena le stagioni della sua vita in una partitura scivolosamente finzionale. Il suo trasformarsi nella vita e nel cinema, sospeso fra memoria e affabulazione, segna il percorso di un Bildungsroman fuori dal canone, capace di schivare le definizioni, di sfuggire alla vettorialità obbligatoria dei percorsi di formazione, misurandosi invece con il nomadismo di una identità femminile imprendibile, mai compiuta, proprio come accade nei «romanzi del divenire» (Bono e Fortini 2007).
Al crocevia tra vita vissuta e trama immaginata, troviamo un altro testo contemporaneo, Brividi immorali. Racconti e interludi, pubblicato recentemente da Laura Morante (2018) ed analizzato qui da Mariagiovanna Italia attraverso una metafora sartoriale, un taglia e cuci che ben si adatta al raccontare fluido e aderente alle esperienze concrete, alle memorie sedimentate delle personagge interpretate sullo schermo e agli interludi che spezzano la narrazione, originando un tessuto franto, diseguale e difficilmente riferibile alle consuetudini di genere.
Sospesi e imprendibili nella rete stringente delle categorizzazioni sono anche gli esiti letterari di Isa Miranda e Monica Vitti, trattati qui rispettivamente da Elena Mosconi e Simona Busni. Diva internazionale e star autoctona di soffusa malinconia, Miranda si confronta con generi differenti, dal mémoire autobiografico alla poesia, passando per le sue celebri lettere, vergate con una grafia ampia, fiorita e leggiadra, esaltata dall’inchiostro lilla che prediligeva (Brin 1941; Mura 1941). Ed è proprio nella pratica della scrittura che si può intravedere il suo afflato trasformativo, la capacità di adattarsi e rimodellarsi provando, sovente invano, di corrispondere ai mutamenti del circostante, alle accelerazioni del cinema, e ai radicali rivolgimenti dello Star System. Così, nell’avvicendarsi delle forme letterarie che ha sperimentato possiamo cogliere non soltanto il riflesso di una carriera lunghissima, vissuta da una parte all’altra del mondo, attraversando oceani ed epoche, dagli anni Trenta al secondo dopoguerra; ma vediamo anche come la parola scritta sia stata per lei gesto di disvelamento e al contempo spazio altro, luogo deputato alla continua messa scena della propria immagine divistica, nell’inesausto tentativo di ri-scriversi all’interno dei copioni correnti senza venir meno a se stessa. Una analoga, seppur differente, tensione sperimentativa si trova in Sette sottane (1993) e nel successivo Il letto è una rosa (1995), nei quali Monica Vitti sembra giocare a nascondino con se stessa e con le sue maschere. Nel primo, sorta di autobiografia involontaria, come recita il sottotitolo, l’attrice si narra nella cornice di una intervista immaginaria, condotta da una implacabile giornalista che forse cela il profilo di Oriana Fallaci. Riflessa in una miriade di specchi, Vitti appare presa nella trappola dei fraintendimenti, e si diverte nell’esercizio di uno sguardo autoironico, capace di guardare alla sua infanzia, alla stravaganza della sua famiglia, alla presunta casualità del suo successo. A prevalere è la postura leggera di una «alienata con riserva» che ricama, in punta di penna, uno spassoso ritratto letterario del suo personaggio pubblico, inventando una situazione apertamente finzionale, frammista a schegge autobiografiche. Il letto è una rosa sceglie invece una direzione nettamente letteraria e finanche poetica; è composto, infatti, da una serie piccoli testi, a tratti lapidari e incantati, come gli Haiku giapponesi, intervallati da sottili ed enigmatici disegni tracciati dall’autrice. Qui davvero la pagina è diventata uno spazio tutto per sé, uno spazio aperto alla elaborazione creativa, e abitato da una soggettività complessa, eccedente, quasi una «smarginatura» rispetto al calco divistico e al lavoro dell’attrice, che pure resta sul fondo, petalo silenzioso e vellutato capace di tramutare il letto in una rosa.
3. Scrivere di sé. Le auto-divagrafie
Non suscita certo meraviglia che nell’arcipelago delle divagrafie l’isola più vasta e misteriosa sia quella delle scritture autobiografiche. Del resto esiste un fiorente filone, nella pubblicistica americana, di simili testi, tanto da definire un vero e proprio genere letterario. Il contesto italiano, al contrario, che pure denota una netta predilezione da parte delle attrici a scrivere di sé e del proprio vissuto, mostra un panorama piuttosto frastagliato e non si presta invero a ipotesi di sistematizzazione.
è possibile e forse utile, però, traguardare la varietà dei singoli testi per cercare alcuni punti comuni. Salta agli occhi, anzi tutto, la centralità riconosciuta all’esperienza cinematografica che, anche in racconti molto distanti fra loro, orienta saldamente il fluire delle narrazioni: l’ingresso nel mondo dello spettacolo e la conseguente, temuta o desiderata trasformazione in diva segna indelebilmente le esistenze di tutte.
A partire da Francesca Bertini, che ha scritto e ri-scritto la sua vita a misura di schermo, come segnala lo studio di Stella Dagna, col chiaro proposito di disegnarsi, sempre, nel ruolo di indiscussa protagonista, pur tenendo conto dell’instabile variabilità delle stagioni e delle voghe filmiche. Differente, ma analogo nel continuo relazionarsi con un passato che non passa, bloccato nella moviola memoriale del tempo, è l’approccio delle attrici del Ventennio, di cui si occupa qui Paola Zeni. Così Doris Duranti e Lilia Silvi, a molti anni di distanza dalle loro carriere cinematografiche, raccontano di sé ancorandosi agli antichi copioni che le hanno viste signoreggiare sugli schermi degli anni Trenta e Quaranta. E a ben vedere in Il gioco della verità (1993) Maria Denis raggela se stessa nella trama oscura di un intrigo degno dei Telefoni bianchi, dove è un presunto scambio di persona, espediente drammatico frequentissimo nelle sceneggiature dell’epoca, a dar senso all’affaire Visconti e al terribile scandalo giudiziario che la travolse, nel dopoguerra, gettandole addosso l’ingiusta accusa di collaborazionismo. La verità di Denis e lo strenuo tentativo di mettere ordine nei fatti della sua vita e negli accadimenti legati all’arresto e alla liberazione di Visconti seguono dunque, inconsapevolmente, il pattern di un intreccio cinematografico, e la stessa autrice finisce per apparire ancora nei panni dell’ingenua e amorosa fanciulla di Addio giovinezza! (F.M. Poggioli, 1940), a dispetto di una scrittura e di un portamento modellati dalla maturità.
Un secondo elemento che accomuna il corpus delle auto-divagrafie è la dimensione dialogica, articolata in varie modulazioni, che inclina il ‘portare la voce’, gesto non dimenticabile per una attrice, verso un parlare con se stesse, come testimonia lo scavo quasi psicoanalitico di Catherine Spaak, esaminato da Federica Piana; un rivolgersi ad altri, come accade ad alcune attrici contemporanee – Asia Argento, Cristiana Capotondi, Isabella Rossellini, per citare al cui nomi fra i numerosi possibili – che utilizzano i Social e i nuovi linguaggi per costruire un racconto di sé da condividere, a tratti spudoratamente, col pubblico, cercando o forse soltanto mettendo in scena un contatto diretto; e un dialogo con gli interlocutori di professione, sovente giornalisti, cui alcune affidano la cura delle loro memorie. è il caso di Gian Franco Venè per Doris Duranti, e di Danièle Georget per Claudia Cardinale. Un incontro decisivo quest’ultimo, come sostiene Cristina Jandelli, sottolineando il fortissimo cambiamento nella figura dell’attrice ritratta in Le stelle della mia vita (2006) rispetto a Io, Claudia, tu, Claudia (1995), la precedente autobiografia scritta a quattro mani con Anna Maria Mori. Il caso di Valentina Cortese, che costruisce il suo Quanti sono i domani passati (2012) assieme a Enrico Rotelli, aggiunge un elemento ulteriore, argutamente rilevato da Federica Mazzocchi e Mariapaola Pierini, vale a dire la dimensione della oralità, di un ‘portare la voce’ capace di fare la differenza. Testo ibrido e bizzarro, l’autobiografia di Cortese è concepito come una sorta di copione – ed è la diva stessa a definirlo in questi termini – ed è dunque inseparabile dalla dimensione performativa e dalla soave vocalità dell’attrice, della quale lo scritto sembra non poter fare a meno, come dimostra il film che ne è stato tratto, DIVA! (F. Patierno, 2017). Allo stesso modo, la scrittura di Laura Betti, scandagliata qui da Stefania Rimini, appare inseparabile dal suo passo e soprattutto dalla sua voce, che riecheggia sulla pagina nelle invenzioni linguistiche dell’attrice.
4. A tu per tu con la diva, dai periodici al web
La curiosità per la vita privata delle star è nata con il divismo stesso, anche se è stato l’imborghesimento del cinema seguito all’avvento del sonoro a far discendere i semidei provvisti di un’avvincente superpersonalità dalle colline hollywoodiane (Morin 1957). La sezione A tu per tu con la diva, dai periodici al web parte con un intervento che Marga Carnicé Mur dedica al racconto autobiografico dell’avventura americana di Anna Magnani, che data al 1953, pochi anni prima che Edgar Morin scrivesse il suo saggio sulle star. I primi anni Cinquanta sono in Italia un momento particolarissimo per la storia del divismo e anche per il modo in cui il cinema racconta le attrici, tanto ciò che rappresentano quanto ciò che ‘sono’: Bellissima di Luchino Visconti del 1951; Siamo donne di Cesare Zavattini del 1953 che ha coinvolto più registi; La signora senza camelie di Michelangelo Antonioni del 1953. Film di uomini che raccontano l’essere attrice o che, come nel caso del progetto zavattiniano, hanno l’ambizione di rivelare la donna ‘vera’ dietro la diva. Anche le attrici, però, si raccontano e gli affondi di questa galleria interrogano una parola scritta che parte veleggiando sulle pagine dei periodici per finire con l’approdo al web.
Questa galleria si muove dunque tra media diversi indagando il modo in cui una diva si relazione a tu per tu con il suo pubblico, facendo di questa relazione sia un modo di raccontarsi sia un modo di controllare la propria immagine popolare e divistica.
La dimensione di controllo è chiarita molto bene negli attraversamenti di Elisa Bianchi e di Angela Bianca Saponari. Tra la fine degli anni Sessanta e quella degli anni Settanta, in una fase in cui le donne italiane stanno sempre più prendendo consapevolezza di dover ingaggiare una lotta seria contro il patriarcato, Giulietta Masina e Sandra Milo trovano il modo di riposizionarsi in quanto ‘persone pubbliche’ nel contesto dei media. Sono entrambe protagoniste di un cinema, quello degli anni Cinquanta, popolato da nuove figure femminili. Le loro vite si incrociano, inoltre, in vario modo ma il divismo si declina in ognuna in maniera diversa. Una diversità che ben si evidenzia confrontando la raccolta di consigli dispensati da Masina ai lettori di La stampa dal 1968 al 1974, di cui si occupa Bianchi, e le varie scritture assunte dal multiforme racconto di sé di Sandra Milo, che si è mosso, come descrive Saponari, tra la radio, la televisione e la scrittura, più tarda, di due scandalose autobiografie.
L’intimità di una diva rende avidi i suoi fan ed è difficile immaginare un luogo più intimo di una cucina, soprattutto quando l’attrice è una star di fama internazionale, acclamata da Hollywood ma saldamente ancorata nella tradizione partenopea, che del buon cibo ha fatto uno dei suoi punti di forza. Per questo motivo, e anche per scoprire lati inediti della costruzione divistica di Sophia Loren, Chiara Tognolotti offre un’analisi iconotestuale di In cucina con amore (1971), scoprendo una narrazione dell’eccedenza che prova a riposizionare la star dentro i rassicuranti confini domestici senza in realtà raggiungere lo scopo.
È però con il web 2.0 che l’interattività tra celebrities e fan ha permesso di accorciare ulteriormente le distanze, dando l’illusione di un dialogo costante con attrici che si fanno autrici di se stesse attraverso una tessitura sapiente di immagini e parole, di finzione e realtà, di fiction e cronaca quotidiana. Vanno letti in questi termini le identità mediali di Geppi Cucciari, scrittrice prolifica i cui testi, come evidenziato da Myriam Mereu, utilizzano spesso i canoni dell’auto-fiction, e Cristiana Capotondi, caso scelto da Giulia Raciti, la cui star persona è veicolata su Instagram nella forma della condivisione del suo ‘diario’ con i fan, tra aforismi, commenti sull’attualità e immagini glamour e quotidiane. Uno scenario mediale sempre più complesso in cui si muovono anche le spesso giovanissime dive creator del web analizzate da Alessandra Porcu, frutto di una cultura dell’iperselfie (Scrivano 2015) che sfuma sempre più i confini identitari e rimescola le carte sia dei processi di identificazione sia del fandom. Nei casi di Cucciari e delle creator l’ibridazione di generi e forme di scritture lascia presagire l’esplorazione di oceani ancora sconosciuti, ribollenti di un magma in costante divenire.
5. La polvere e l’inchiostro. Il teatro, lo schermo, la pagina
La nostra mappa delle scritture d’attrice – tracciata con mano rapida, a cogliere la ricchezza di un territorio ancora da esplorare – propone una sorta di ‘geografia degli affetti’ che tiene al centro le esperienze cinematografiche, senza però dimenticare il teatro, luogo primigenio della visibilità e del protagonismo femminile, strettamente connesso alla parabola dell’emancipazionismo e della presa di parola pubblica delle donne (Mariani 1991). Così, la riflessione di Laura Mariani che ospitiamo qui getta uno sguardo lungo e sapiente sul panorama delle donne che scrivono dal palcoscenico. Ne discende un quadro vivace, fitto di presenze, capace di restituire la risonante croccantezza di stili di vita e di recitazione diversissimi, cuciti insieme dal filo sottile delle scritture: Mariani muove dalla prima diva letterata, Adelaide Ristori, incastonata nel tempo eroico delle ‘grand’attrici’, per giungere alle autrici di prose poetiche attive sulla scena contemporanea, come Ermanna Montanari e Mariangela Gualtieri, passando per le comiche che lavorano sui propri personaggi e li fanno esistere anche sulla pagina, come Franca Valeri e Franca Rame.
Della Signorina Snob e delle sue funamboliche invenzioni si occupa Giulia Simi, che ritrae l’irrefrenabile creatività di Valeri osservando il suo singolare approccio alle scritture del sé. Il caso di Rame, invece, è indagato da Simona Scattina, che sceglie la poderosa produzione letteraria dell’attrice, in particolare la sua autobiografia, per sottrarla all’orbita dell’ingombrante e geniale marito. Il confronto con Fiato d’artista (2001), composito mémoire edito da Sellerio, consente poi a Marta Marchetti di avvicinare Paola Pitagora, figura sottile e interessantissima che affida alla pagina il racconto della sua vita, in una narrazione ibrida, che mescola frammenti diaristici e pensieri sparsi, ma ficcanti, che si appuntano sul quadro vivace dell’avanguardia italiana, del teatro di ricerca e del cinema. Infine a chiudere la rassegna sulle teatranti, aprendo un vertiginoso rilancio sull’ambiguo scenario del web, è Federica Cocciola che, assieme al fantasma digitale del suo alter ego, Martina Dell'Ombra de Broggi de Sassi, offre a Lorenza Fruci uno straordinario caso di studio, sospeso tra la polvere del palcoscenico e le scritture finzionali della rete.
*Il saggio, concepito congiuntamente dalle tre autrici, è stato scritto da Lucia Cardone nei paragrafi 1 e 3, da Anna Masecchia nel paragrafi 4 e 5, e da Maria Rizzarelli nel paragrafo 2.
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