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Per secoli l’illustrazione è stata definita come ‘arte del margine’ per la posizione che occupa nella pagina, sorta di cornice del testo scritto, supplemento ornamentale che delimita graficamente le sezioni del libro. Per questo ruolo ancillare, squisitamente estetico, dell’immagine, lo studio dell’illustrazione è stato a lungo relegato nell’ambito della storia dell’arte e della storia del libro. È solo a partire dagli anni Novanta che si è assistito a una nuova specifica tendenza di ricerca, grazie principalmente a tre fattori.

In primo luogo, con la valorizzazione del libro come bene patrimoniale nazionale vengono riscoperti i cataloghi stilati da bibliomani e conservatori, che costituiscono il materiale di base per una nuova ricognizione bibliografica, volta a riscoprire i libri con immagini, in particolare ottocenteschi (fondamentali in tal senso sono stati i lavori di Gordon Ray, Jean Adhèmar, Paola Pallottino). Su quest’onda, in concomitanza con lo sviluppo dei visual studies, sono emersi i primi studi che analizzano l’illustrazione come prodotto culturale, cercandone costanti e varianti stilistiche, interrogando il suo ruolo nella fortuna del romanzo ottocentesco (si vedano in particolare i numerosi studi di Ségolène Le Men). In terzo luogo, la pubblicazione dell’ormai famoso volume curato da Alain Montadon, Iconotexts (Ophrys, 1990), nel quale l’illustrazione è esclusa dalla categoria di ‘iconotesto’, ha scatenato un dibattito critico attorno a questa definizione (sul quale si rimanda ai lavori di Peter Wagner, Benoî Tane, Jan Baetens) che ha portato anche la critica letteraria ad avvicinarsi ai libri con figure.

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Abstract: ITA | ENG

L’incrocio di linguaggi, suggestioni e prospettive tra arti visive e teatro è parte della stagione di rinnovamento delle arti che caratterizza la cultura italiana degli anni Sessanta. Questo studio ne fissa e osserva alcuni aspetti e momenti attraverso la lettura di Almanacco Letterario Bompiani e Marcatrè, riviste distinte sul piano della storia e degli obiettivi, ma accomunate dalla vocazione interdisciplinare e dalla rilevanza nel dibattito culturale dell’epoca.

The intersection of languages, suggestions and perspectives between visual arts and theater is part of the renewal season of arts that characterized the Italian culture of the 1960s. This study fixes and observes some aspects and moments through the reading of Almanacco Letterario Bompiani and Marcatrè, distinct in terms of history and objectives, but united by the interdisciplinary vocation and relevance in the cultural debate of the time.

Non vi era nessun serio motivo per ritrovarsi in tanti

in quell’occasione, se non l’aria del tempo, di una sorta

di speranza che induce a seguire in fretta il richiamo,

impercettibile e sicuro, di un tam-tam di grandi novità,

come un dovere. L’America sembrava sul serio spuntare

coi grattacieli subito dietro Ostia, al filo dell’ultimo

orizzonte, duna o fico d’India. Ci sembro di ricevere

il compenso della nostra sagace giovinezza:

l’annullamento delle distanze.

 

Fabio Mauri[1]

 

 

1. «Torniamo a proporre il mondo e il lavoro degli artisti come l’avvenimento di gran lunga più importante della nostra vita civile»

«Dicono i libri di storia che la guerra è finita nel 1945, ma noi tocchiamo con mano che i libri di storia mentiscono» – scrivono Valentino Bompiani e Cesare Zavattini nel primo numero della seconda serie di Almanacco Letterario Bompiani. È il novembre del 1958 e le loro voci si riallacciano idealmente alla prima serie del periodico, pubblicata fino al 1942. «Oggi […] abbiamo deciso che la guerra è finita e torniamo a proporre il mondo e il lavoro degli artisti come l’avvenimento di gran lunga più importante della nostra vita civile».[2]

La fine della guerra non è dunque bastata e sono serviti altri tredici anni a Valentino Bompiani perché l’Almanacco riprendesse il suo prezioso compito di aggiornamento culturale. La rivista è infatti una sua creatura già mentre è segretario di Mondadori e, quando poi lascia il posto e fonda la propria casa editrice, l’Almanacco costituisce parte della sua buonuscita, divenendo uno degli spazi in cui emerge la sua particolare figura di autore-editore.[3]

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  • [Smarginature] Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono →
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Io so che in ogni grande scrittrice […] c’è una grande attrice e viceversa […]. Feci questa scoperta con Elsa Morante, un giorno di sua ira furiosa […] mi trovai sotto i suoi insulti a stupirmi affascinata dei tempi d’attrice che possedeva. Lei mi insultava e io pensavo: […] [potrebbe] essere una tragica perfetta; in certi suoi sguardi e gesti, infatti, mi ricordò la Magnani. […] Anche della silenziosa Natalia Ginzburg si potrebbe fare un’attrice comica.

Goliarda Sapienza, La mia parte di gioia

 

1. Orientarsi con le stelle

Dietro, o meglio dentro, ogni grande scrittrice si indovina la figura, e soprattutto la voce, di una attrice (Sapienza 2013, pp. 129-130). È una intuizione lucidissima di Goliarda Sapienza, che ha vissuto in bilico fra i suoi talenti, a indicarci la rotta da seguire, segnando poeticamente la nostra mappa.

E dunque, a partire dalla immagine fantasticata di una Elsa Morante impareggiabilmente tragica e di una Natalia Ginzburg silenziosamente comica (ibidem), cominciamo a interrogarci sul nodo, strettissimo, che lega scrittura e recitazione, guardando alla folta schiera delle attrici che scrivono. Questa prima ricognizione appare promettente e foriera di rilanci e ricerche future, giacché le nostre attrici-autrici, convocate dalle studiose in una sorta di animata e risonante fotografia di gruppo, testimoniano la ricchezza, la molteplicità e lo spessore di una produzione testuale che sembra non fermarsi e porsi in continuità, o meglio in serrato confronto, con le parole, i gesti performativi, e con il loro muoversi sul set o sul palcoscenico. Che si tratti di romanzi (e pensiamo ancora, per prima, a Sapienza e alla sua Arte della gioia), o di poesie, come nel caso di Elsa de’ Giorgi, Mariangela Gualtieri e Isa Miranda; di arguti scritti giornalistici e di interventi di costume più immediatamente prossimi alla costruzione della immagine divistica, come testimoniano la rubrica di piccola posta curata da Giulietta Masina e le saporose ricette elaborate da Sophia Loren per le sue ammiratrici; o dell’ampio panorama delle autobiografie, da Doris Duranti a Asia Argento; ciò che emerge e risuona è la mutevole presenza di voci che cercano, aprono e in ogni caso mettono in scena la partitura di un dialogo. Con se stesse, con le lettrici-spettatrici, con il riflesso della loro facies pubblica, con le attrici e le donne che sono, che sono state o che desiderano diventare. È forse proprio questo carattere intimamente relazionale – in molti e differenti sensi – il filo rosso che tiene insieme esperienze e parole fra loro molto distanti, sia per la cronologia, sia per la varietà dei generi letterari attraversati.

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Dopo aver vissuto da protagonista la stagione cinematografica degli anni Sessanta, Sandra Milo torna sulla scena mediatica alla fine degli anni Settanta, in un contesto politico-culturale profondamente mutato. Il suo riposizionamento continuo attraverso televisione, pubblicità e rotocalchi sembra determinare il passaggio da star a celebrità pubblica sul modello contemporaneo, in cui il corpo eccentrico dell’attrice si carica di un elemento ‘agentico’ che, tuttavia, tenta di liberare e di affermare una femminilità non più attuale. Questo tentativo di costruzione di uno spazio di manovra esterno al cinema che le consenta di tornare in auge, trova la sua affermazione nella scrittura di due autobiografie, dedicate rispettivamente alla scandalosa relazione professionale e sentimentale con Federico Fellini, Caro Federico (Rizzoli 1982), e ai suoi controversi rapporti con leader politici, cortigiani e portaborse di un’Italia di corrotti e corruttori, Amanti (Pironti 1993).

Mentre la progressività femminista dagli anni Settanta in poi si va consolidando attraverso la rappresentazione di nuovi modelli identitari, la Milo – apparentemente esclusa dalle forme del progresso – nel racconto di sé trova invece un mezzo per condurre la sua personale ‘rivoluzione del femminile’, proponendosi come eccentrica eroina di un pensiero genuinamente anticonvenzionale e contro-egemonico, a suo modo capace di mettere in discussione ogni pretesa razionalistica del patriarcato e del conformismo socio-culturale. Nel panorama mediatico italiano, l’esuberante figura di Sandra Milo si è consolidata come una presenza costante, che ha sempre finito per eccedere il luogo della sua rappresentazione.

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È con «Un saluto ai lettori» che il 26 novembre del 1976 Giulietta Masina prende commiato dalle colonne de La Stampa. Per otto anni, dal 1968, le pagine del quotidiano hanno accolto le parole attraverso le quali l’attrice si è rivolta agli italiani – ma soprattutto alle italiane – per dar loro conforto nei momenti difficili, offrire consigli, e approfittare dei racconti personali dei lettori per aprire una riflessione verso i problemi sociali dell’epoca. Sono questi gli anni che vedono Masina indossare le vesti di Gabrielle de La pazza di Chaillot (Bruce Forbes 1969), quelle di Eleonora (Silverio Blasi 1973) e di Camilla (Sandro Bolchi 1976); nello stesso arco di tempo compare con regolarità su rotocalchi e quotidiani, sia in qualità di compagna di Federico Fellini, sia come attrice capace di coniugare l’impegno alla popolarità.

L’immagine di Giulietta Masina appare legata al marito attraverso un doppio filo. Da un lato ci sono i personaggi che il regista le cuce addosso e che, come lui stesso ben descriverà a distanza di anni nel mémoire Fare un film, sono scelti per mettere in luce le sue grandi doti attoriali; essi prendono forma all’interno di una dimensione di meraviglia e di sogno, contraddistinti da una gioia frenetica e infantile ma al contempo capaci di conservare la tristezza di un clown. Dall’altra c’è invece l’immagine di una moglie che, nonostante i ripetuti tradimenti del marito, decide comunque di restare al suo fianco. Stando alla stampa popolare, infatti, Fellini crea attorno a sé un vero e proprio harem: oltre ai numerosi flirt che gli vengono attributi, da più di dieci anni accanto al regista (sembra dal 1957) per alberghi e ristoranti c’è Anna Giovannini, la procace farmacista da lui stesso ribattezzata «La Paciocca» che negli anni Novanta rivendicherà una storia d’amore trentennale; ma anche Sandra Milo, che, presentatagli nel ‘62 da Ennio Flaiano, sarà sua amante per ben diciassette anni. Nonostante ciò, il loro matrimonio durerà per cinquant’anni, fino alla morte del regista.

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Con questa videointervista vogliamo inaugurare un nuovo spazio di confronto dedicato al tema della comunicazione della ricerca, divenuto ormai cruciale per rilanciare l’efficacia degli studi umanistici rispetto alle sfide della contemporaneità. L’obiettivo è individuare prassi e strategie di disseminazione del sapere capaci di costruire un archivio mobile delle istanze ermeneutiche del presente.

 

Roberto De Gaetano, già direttore e responsabile di Fata Morgana – punto di riferimento indiscutibile nell’ambito degli studi cinematografici ed estetici –, presenta il progetto culturale di quello che può dirsi una sorta di spin off della rivista cartacea, cioè appunto la piattaforma Fata Morgana Web. Forte di un consolidato gruppo redazionale, e aperta a collaborazioni esterne, la nuova review si muove in una direzione precisa, ovvero la riconfigurazione di un pensiero critico che sappia individuare la «verità dell’opera» (Benjamin) senza escludere il rapporto con la tradizione. Accanto al cinema, che resta il campo d’azione privilegiato, l’asse culturale della rivista prevede una feconda apertura ad altri linguaggi della visione (la fotografia, il teatro, la serialità televisiva), nonché mirate incursioni nell’alveo della letteratura e della riflessione filosofica, a testimonianza di una vocazione plurale ma sempre rigorosa nei metodi e nella selezione dei casi di studio. La pubblicazione di un annuario, che raccoglie – accanto ai materiali già apparsi sul sito – contributi inediti di taglio teorico e interviste a registi e attori, conferma l’ambizione cartografica propria dei fascicoli di Fata Morgana e dei volumi del Lessico del cinema italiano.

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