Non vi era nessun serio motivo per ritrovarsi in tanti
in quell’occasione, se non l’aria del tempo, di una sorta
di speranza che induce a seguire in fretta il richiamo,
impercettibile e sicuro, di un tam-tam di grandi novità,
come un dovere. L’America sembrava sul serio spuntare
coi grattacieli subito dietro Ostia, al filo dell’ultimo
orizzonte, duna o fico d’India. Ci sembro di ricevere
il compenso della nostra sagace giovinezza:
l’annullamento delle distanze.
Fabio Mauri[1]
1. «Torniamo a proporre il mondo e il lavoro degli artisti come l’avvenimento di gran lunga più importante della nostra vita civile»
«Dicono i libri di storia che la guerra è finita nel 1945, ma noi tocchiamo con mano che i libri di storia mentiscono» – scrivono Valentino Bompiani e Cesare Zavattini nel primo numero della seconda serie di Almanacco Letterario Bompiani. È il novembre del 1958 e le loro voci si riallacciano idealmente alla prima serie del periodico, pubblicata fino al 1942. «Oggi […] abbiamo deciso che la guerra è finita e torniamo a proporre il mondo e il lavoro degli artisti come l’avvenimento di gran lunga più importante della nostra vita civile».[2]
La fine della guerra non è dunque bastata e sono serviti altri tredici anni a Valentino Bompiani perché l’Almanacco riprendesse il suo prezioso compito di aggiornamento culturale. La rivista è infatti una sua creatura già mentre è segretario di Mondadori e, quando poi lascia il posto e fonda la propria casa editrice, l’Almanacco costituisce parte della sua buonuscita, divenendo uno degli spazi in cui emerge la sua particolare figura di autore-editore.[3]