4.2. Paola Pitagora scrittrice. Il saccheggio di una vita

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1. Questa è la storia di un gruppo di ragazzi…

Con questa premessa Paola Pitagora introduce il suo Fiato d’artista, libro di memorie che ripercorre, a distanza di quasi quarant’anni, le tensioni avanguardistiche della Roma degli anni Sessanta. A condurre il lettore tra gallerie d’arte, piazze, bar, palcoscenici, set cinematografici e case private, sono le voci intrecciate di due amanti appassionati che all’epoca fecero della loro relazione il motore comune dell’esperienza artistica. È Pitagora stessa a spiegare che l’idea di scrivere questo romanzo autobiografico è nata rileggendo, negli anni Novanta, i quaderni scritti con Renato Mambor ai tempi della loro storia d’amore. Il risultato è un libro composito, fatto non solo della testimonianza privata dei due ma anche del racconto con cui Pitagora cuce insieme una lettera con l’altra, usando tutto ciò che può servire a dar di nuovo corpo a quella storia: molte parole certamente (oltre alle sue anche quelle di chi scrisse di quegli anni, da Pasolini a Calvesi), ma anche immagini scelte per spingere il lettore all’incrocio fra arti diverse là dove, all’epoca dei fatti, si attivava ogni creazione artistica [fig. 1].

Di per sé Fiato d’artista è un libro che permette di cogliere molti aspetti di una doppia vocazione realizzata dall’interazione tra scrittura e performance (Rizzarelli 2017). Intanto perché chi scrive è un’attrice versatile che ha raggiunto un pubblico molto vasto, popolare e non, frequentatore di teatri o appassionato di cinema, amante degli sceneggiati televisivi o anche semplicemente avventore casuale davanti ai programmi Rai degli anni Sessanta. In secondo luogo perché in questo libro, così materico nella sua composizione, si parla molto del lavoro dell’attore nella sua inafferrabile dimensione antropologica. A farlo sono i due protagonisti che si incontrano proprio a un workshop di recitazione nel 1958. Sedici anni lei, ventidue lui. Grandi doti mimiche il giovane pittore del Quadraro; puro potenziale invece la ragazzina emiliana che a quel mondo si era avvicinata principalmente per noia. Poco più di un anno dopo i loro percorsi erano già delineati: Mambor allestiva la mostra alla Galleria Appia Antica con Cesare Tacchi e Mario Schifano, mentre Pitagora, sotto contratto con la casa di produzione cinematografica Vides di Franco Cristaldi, cominciava a frequentare le lezioni di recitazione di Alessandro Fersen a via della Lungara. «La vita per noi è cambiata» scriveva allora Pitagora, «io vado a scuola tutti i giorni, sto in un ambiente nuovo. Ed ecco le naturali problematiche, abituata com’ero a pensare con la tua visione» (Pitagora 2001, p. 36. Corsivo mio). L’atto della visione è centrale in Fiato d’artista certamente per la sua doppia natura di opera verbo-visuale (Cometa 2017), ma anche perché esso nutre la formazione attorica di chi scrive: «avrei potuto diventare attrice se non avessi incontrato quel buffo pittore? Forse sì ma in altro modo. Intanto, il vedere. Un pittore insegna in qualche modo a vedere» (Pitagora 2001, p. 56).

Da questo punto di vista è avvincente seguire la cronaca dei fatti con cui Pitagora ha costruito la propria professione: la scoperta di ‘avere un corpo’ durante i primi laboratori di recitazione; l’esperienza a Belgrado sul set di Kapo quando rimase scioccata nel vedersi su uno schermo per la prima volta; la presenza sul set fiorentino de La viaccia accanto a Claudia Cardinale e Jean-Paul Belmondo, dove però a emozionarla fu il Leonardo degli Uffizi; la gestione della propria immagine pubblica guidata dai consigli di Paolo di Valmarana capo ufficio stampa della Rai; lo studio del ruolo di Artemisia Gentileschi insieme al regista Luigi Squarzina, il quale per primo le chiese, come attrice, di pensare; lo smarrimento il 22 dicembre 1965, dietro le quinte del Teatro Carignano, quando entrò in scena nei panni di una giovane pittrice del Seicento con in testa l’immagine dell’omicidio del presidente Kennedy; la lavorazione indimenticabile de I pugni in tasca di Marco Bellocchio; la tournée sud-americana con Vittorio Gassman, il grande attore accanto al quale svaniva ogni certezza di essere veramente un’attrice; infine lo spavento davanti all’icona di Lucia Mondella a cui avrebbe dato il volto nei Promessi Sposi di Sandro Bolchi nel 1967 [figg. 2-4].

 

2. I tanti volti di un’attrice

Giulia Fanara osserva come l’appellativo di ‘fidanzata d’Italia’ attribuitole dopo il successo dei Promessi Sposi abbia condizionato il giudizio critico sull’attrice, comunemente considerata interprete di ruoli che occupano uno spazio tra tradizione e contestazione (Fanara 2017). In realtà, suggerisce la studiosa, le donne interpretate da Pitagora rifuggono le vie di mezzo e incarnano sempre, per prima la stessa Lucia manzoniana, una ferma e risoluta volontà di non cedere mai alle mezze misure. La capacità di mostrarsi nella loro interezza, come se fossero le prime e le sole ogni volta, permette a queste donne di interpretare le profonde mutazioni e le trasformazioni sociali della loro epoca. In questo senso è particolarmente significativo che si parli di ‘personagge’, come fa Fanara usando un neologismo recentemente dibattuto in ambito critico (Mazzanti et al. 2016), poiché la modernità di cui esse si fanno portatrici non è legata al ruolo femminile interpretato di volta in volta, ma al modo di essere donna sempre in maniera nuova. Da questo punto di vista Fiato d’artista ci offre un ulteriore spunto di riflessione: «Ma tu sogni mai di diventare una diva?» chiedeva Renato a Paola nei giorni in cui la loro vita si incrociava con quella di Marcello Mastroianni e Anita Ekberg sul set de La dolce vita. La risposta è netta: «No». «Mi sentivo troppo lontana da un ideale di attrice» (Pitagora 2001, p. 24). Se tale sentire continuerà a sostenere un modo di essere attrice, esso è del resto anche il motivo per cui non possiamo considerare questo libro tra le autobiografie delle stelle (Rizzarelli 2017). È vero che qui il tema è dichiaratamente un altro (si racconta la storia di un gruppo di ragazzi…) [fig. 5], eppure il costante interrogarsi sulla propria immagine di attrice (già ma quale attrice? si chiede Pitagora) serve non tanto a negare il proprio io-finzionale, quanto a mantenerlo distante e sempre mobile. A tal proposito è indicativo l’aneddoto sul nome: si racconta come fu proprio il pittore tanto amato a modificare un cognome poco adatto a una futura attrice.

In una recente intervista Pitagora riferisce come la più evidente delle trasformazioni fosse nata da un gioco intimo che riguardava il suo aspetto fisico: «sei piatta come la tavola Pitagorica. Chiamati Pitagorica» suggeriva Mambor (Io Donna, 4 maggio 2019). Così Gargaloni fu sostituito con Pitagora, nome che divenne sintomo di una volontà di cambiare e segno visibile di un sottrarsi all’immagine bidimensionale di sé: «non devi fermarti» la esortava il ‘suo’ pittore quando orami la distanza tra loro era sempre più marcata. In un ambiente artistico molto innovativo ma ancora profondamente maschilista e strutturato su logiche patriarcali, la coppia Pitagora/Mambor visse l’amore come esperienza piena, pura energia vitale che spingeva al rinnovarsi creativo della vita stessa. Così quando il cerchio iniziò a chiudersi sulla parabola di quel gruppo di giovani artisti, anche la storia d’amore finì. Una separazione che Pitagora raccontava così: «…sai, ecco perché non desidero più fare l’amore con te: da troppo tempo, dopo, non mi guardo più allo specchio» (Pitagora 2001, p. 141). Smettere di cercare il mistero fuggevole del proprio riflesso significava smettere di cambiare. La storia dell’avanguardia degli anni Sessanta, secondo Alberto Boatto citato nel libro, finì quando si pensò di poter affermare quella creatività. Non c’era stato invece nulla di stabile per gli artisti romani nei dieci anni che portarono al 1968, se non probabilmente il luogo dove tutto era iniziato. Alla fine di Fiato d’artista ritroviamo proprio Piazza del Popolo, «dove muore e rinasce il tempo» e dove alle soglie del terzo millennio tornano i due innamorati. È il 1998 e il loro dialogo è pura finzione. Lui e lei che parlano d’amore e di ciò che è rimasto del loro. «Cosa sei tu oggi per me?» chiede lei. A lui l’ultima parola, che risponde all’impertinente domanda di lei con un esercizio grafico che spoglia il testo di ogni dispositivo rappresentativo: niente scenari o messaggi ma solo un «punto alla sinistra del foglio» che scorrendo traccia le lettere che servono a dirsi «IO SONO» (Pitagora 2001, pp. 167-169).

 

3. La voce di un’attrice che scrive

«Sulla scena del testo, niente ribalta» scriveva Roland Barthes nel 1973. Per un’attrice che scrive ciò implica necessariamente una perdita doppia, dal momento in cui rinunciare ai dispositivi della teatralità rappresentativa significa in fondo esporre ogni cosa, anche il proprio corpo, al potere di uno sguardo vergine. Forse è anche per questo che Pitagora sceglie di essere ancora scrittrice, pubblicando due romanzi di pura invenzione: Antigone e l’onorevole (2003) e Sarò la tua bambina folle (2006) [figg. 6-7]. In modo opposto e complementare i due libri raccontano storie in cui il tema dello smascheramento delle finzioni sociali è centrale, sia quando la trama si svolge fuori scena (come nel caso della relazione extraconiugale tra Sergio e Antigone detta Tina), sia qualora essa si dipani proprio tra le tavole del palcoscenico (è il caso della scomparsa misteriosa dell’attore semi-sconosciuto Roberto P.). Ma prima ancora della tematica, ciò che è particolarmente significativo dal nostro punto di vista è la modalità di enunciazione utilizzata, che passa dal narratore in terza persona di Antigone e l’onorevole, alla prima persona di un romanzo costruito sul topos letterario del ritrovamento di un manoscritto, il diario di un attore scomparso ritrovato per caso. Se consideriamo anche Fiato d’artista [fig. 8], in cui la narrazione è multipla, possiamo facilmente rintracciare la costante performativa delle opere di Pitagora in un’autorialità che sembra voler ‘giocare’ (anche per regolare i conti) con il mondo maschile. È Pitagora del resto a sottolineare come nella lingua italiana che parla di teatro sia proprio l’assenza di un nesso semantico con il verbo giocare a rendere difficile l’abbandonarsi al lavoro da attrice; soprattutto quando non c’è un montaggio, come nel cinema, a definire il senso e il pensiero (Pitagora 2001, p. 119). Così l’attrice che scrive si muove come dovesse conquistare questo campo d’azione, praticandone le sfumature attraverso un’identità capace di confondersi.

Dopo quel «IO SONO» con cui si conclude Fiato d’artista, la scrittrice lascia alle personagge di Antigone e l’onorevole le domande su cosa significhi essere donna ai tempi del crollo del Muro di Berlino: Tina (l’amante), Elena (la moglie) e Silvia (la compagna di Elena). Tre donne che hanno in comune la dipendenza dallo stesso uomo che, anche se in maniera diversa, orienta i loro desideri. Chi narra qui non commenta né svela ma entra nella prospettiva di ognuna per interpretare le tracce che lascia dietro di sé: una foto da bambina con la posa imposta dal padre; un verso di Sylvia Plath scarabocchiato su un muro, e il coraggio di aver aderito a SCUM, ovvero il manifesto per l’eliminazione dei maschi in cui Valerie Solanas nel 1967 scriveva: «il vero artista è ogni femmina sana, sicura di sé» (Pitagora 2003, p. 122).

Nel romanzo successivo capiamo che un completamento artistico che passi per la scrittura del sé in fondo deve misurarsi ancora con questo slogan un po’ sorpassato; forse perché leggendo Sarò la tua bambina folle sentiamo solo la voce di Paola Pitagora a rendere reali i dettagli su cui è costruita la trama. E forte è lo straniamento che si prova quando aggettivi declinati al maschile ci ricordano che, a raccontare le percezioni di una vita d’attrice, è invece un uomo.

 

Bibliografia

R. Barthes, Il piacere del testo, Milano, Einaudi, 1975.

M. Cometa, ‘Al di là dei limiti della scrittura. Testo e immagine nel “doppio talento”’, in M. Cometa, D. Mariscalco (a cura di), Al di là dei limiti della rappresentazione. Letteratura e cultura visuale, Macerata, Quodlibet, 2014, pp. 47-78.

G. Fanara, ‘Paola Pitagora, una ragazza della prima generazione’, in L. Cardone, G. Maina, S. Rimini, C. Tognolotti (a cura di), Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano, Arabeschi, 10, luglio-dicembre 2017, ˂http://www.arabeschi.it/58-paola-pitagora-una-ragazza-della-prima-generazione-/> [accessed 10.10.2019].

N. Gordimer, ‘La costola di Adamo: narrazioni e realtà’, in Ead., Scrivere ed essere. Lezioni di poetica, Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 9-26.

R. Mazzanti, S. Neonato, B. Sarasini (a cura di), L’invenzione delle personagge, Roma, Iacobelli Editore, 2016.

P. Pitagora, Fiato d’artista. Dieci anni a Piazza del Popolo, Palermo, Sellerio, 2001.

P. Pitagora, Antigone e l’onorevole, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2003.

P. Pitagora, Sarò la tua bambina folle, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2006.

M. Rizzarelli, ‘L’attrice che scrive, la scrittrice che recita. Per una mappa della ‘diva-grafia’’, in L. Cardone, G. Maina, S. Rimini, C. Tognolotti (a cura di), Vaghe stelle, ˂http://www.arabeschi.it/13-/> [accessed 10.10.2019].