4.5. Ipercostruzione di Sé e intimità virale nelle opere di Juno Calypso

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Il saggio prende in analisi il caso di Juno Calypso, giovane fotografa britannica specializzata in serie autoritrattistiche. Gli scatti, estremamente omogenei, ricreano un immaginario vintage zuccheroso e barocco abitato dal suo alter ego Joyce, una donna intrappolata in un estenuante processo di femminilizzazione e perfezionamento. Nelle diverse serie analizzate, un ruolo centrale è ricoperto dagli spazi domestici, in particolare camere da letto e bagni, scelti e utilizzati con estrema cura. Attraverso l’obiettivo di Calypso le stanze, dalla casa della nonna alla suite matrimoniale dei Love Hotel fino al bunker del patron dei cosmetici Avon, rivelano la sua natura artificiosa di set ipertrofico che ospita la rigida messa in scena di Sé della donna e allude all’intimità virtuale e posticcia della cultura dei bedroom selfie.

The essay examines the case of Juno Calypso, a young British photographer who specializes in self-portrait series. The highly homogeneous shots recreate sugary, baroque vintage imagery inhabited by her alter ego Joyce, a woman trapped in a laborious process of feminization and refinement. In the different series analyzed, domestic spaces, particularly bedrooms and bathrooms, chosen and used with extreme care, are played a central role. Through Calypso's lens, each room, from the grandmother's house to the Love Hotel's bridal suite to the Avon cosmetics patron's bunker, reveals its contrived nature as a hypertrophic set that accommodates the rigid enactment of selves performed by the woman. In her work, she alludes to the virtual, posturing intimacy of bedroom selfie culture.

Nella recente Home Sweet Home 1970-2018. The British Home, A Political History, mostra curata da Isa Bonnet nei Rencontres d’Arles (2019) e dedicata al peculiare rapporto tra i britannici e la loro casa, stupisce trovare un autoscatto di Juno Calypso in un bunker americano. Se avrete la pazienza di leggere le righe seguenti, capirete perché.

Juno Calypso, classe 1989, è una giovane e pluripremiata fotografa britannica che si è affacciata sulla scena internazionale con le serie Joyce I (2012), vincitrice dell’Art Catlin Award, per essere poi consacrata dall’International Photography Award nel 2016. Tutti i suoi lavori artistici sono progetti autoritrattistici che sviluppa in serie, ai quali si sono aggiunte commissioni glamour come quella di Billie Eilish per la copertina di «Garage Magazine» (issue 16), per Stella McCartney (2017), per Burberry (2018). In Italia le sue fotografie sono state esposte allo Studio Giangaleazzo Visconti e alla Fondazione Prada a Milano.

Nel primo e più ampio progetto, Joyce, diviso in due serie, la prima del 2012 e la seconda del 2015, Calypso ha dato vita a un alter ego, Joyce, una sorta di casalinga disperata degli anni Settanta intrappolata in zuccherosi e irraggiungibili ideali di bellezza e femminilità. Ai primi scatti analogici centrati sulla performance dell’autrice che interpreta in mezzo busto frontale una receptionist, un’impiegata, una promoter, un’assistente di volo – per fare solo alcuni esempi – sono seguiti autoritratti intimi situati in camere da letto immaginarie. Al banco e al fondale grigio delle lavoratrici si sono sostituiti spazi più articolati con arredamenti retrò come la casa della nonna o le camere da letto di alcuni amici. L’elemento distintivo della serie Joyce, e più in generale delle opere di Juno Calypso, risiede proprio nella scelta e nell’elaborato allestimento dei set fotografici, patinati e rigorosamente in interni privati, che assegnano all’ambiente domestico un ruolo di comprimario negli autoritratti dell’artista. L’importanza del luogo è testimoniata dalla scelta originale delle ambientazioni delle sue opere e dalla preferenza accordata ai formati ampi, poco comuni negli scatti autoritrattistici.

Un secondo elemento di interesse pertiene l’immaginario di riferimento della fotografa. Accostata spesso a Cindy Sherman, Jeff Wall e Gillian Wearing (Gironimi 2017), Calypso assegna la genealogia del suo mondo fantastico all’ambito squisitamente cinematografico, citando tra le sue fonti di ispirazione film come Pink Flamingos (1972) e Female Trouble (1974) di John Waters, Shining (1980) di Stanley Kubrick, Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988) di Almodovar, Edward mani di forbice (1990) di Tim Burton (Davidson 2019).

L’ultimo aspetto che emerge con forza in tutti gli autoscatti dell’artista è la riflessione violenta sulla femminilità, in particolare sull’introiezione, da parte delle donne, degli stereotipi che la società contemporanea attribuisce loro, tra cui felicità, erotismo, bellezza. In Joyce, ad esempio, prevale la messa in scena delle pratiche di bellezza repressive, come l’inquietante maschera facciale antirughe elettrica (12 reasons you’re tired all the time, 2013), le fasce dimagranti a impulsi (Artificial Sweetener, 2012) fino al trionfale corpo in parrucca bionda che salta fuori da una torta (Popcorn Venus, 2012) e all’esilarante corpo chino e inerte accanto alla carne in scatola light (Reconstituted meat slices, 2013). Il tema sarà ripreso anche in seguito in modo sempre più graffiante, come dimostra l’installazione The Salon (2018) e la serie A Girl’s Guide to Egg Freezing, photo essay per la piattaforma statunitense Topic nel 2019, dedicato ai percorsi di fertilità e di procreazione medicalmente assistita. Nella sua prima serie fotografica sull’estenuante beauty routine quotidiana, il soggetto femminile è affogato nelle tinte rosa pastello e colto in un desiderio di piacere allo sguardo maschile che insterilisce e immobilizza in un anticipato rigor mortis.

Nei progetti successivi, il personaggio di Joyce perde progressivamente importanza mentre prende forma l’esplorazione dei rituali affettivi. Per The Honeymoon la fotografa sceglie come set la suite nuziale del Penn Hills Resort (Pennsylvania). Tradizionalmente abitata da coppie in luna di miele, la lussuosa e kitsch stanza matrimoniale con tanto di vasca a cuore rosa, parete e soffitto a specchi, e tappezzeria in nuances pastello in stile Grand Budapest Hotel (W. Anderson, 2014) vira, attraverso l’abile inquadratura di Juno Calypso, i toni più macabri di Psycho (A. Hitchcock, 1960). Anche in questa serie ritorna il tema dei trattamenti di bellezza con gli elettrostimolatori tonificanti (Slendertone I e II, 2015), la maschera facciale (Massage mask, 2015) e il trattamento alle alghe (A dream in green, 2015), ma l’atmosfera diventa più cupa e opprimente così, ad esempio, la maschera soffice rosa di Massage mask diviene in Eternal beauty (2015) una maschera di plastica più vicina all’immaginario horror. Gli interni invece acquisiscono maggior spessore: esplorati e ritratti con minuzia, sembrano esercitare uno strano potere sul soggetto ritratto. La vasca a cuore circondata da un’infinità di specchi disposti a raggiera (The Honeymoon suite, 2015) [fig. 1] e la vasca a coppa trasparente sormontata da un finto cielo stellato sono il climax della stanza nuziale, e di quello che già Foucault aveva definito il non luogo perfetto, l’eterotopia senza ancoraggio geografico. Ma invece di liberare la solitaria protagonista dall’immaginario soft porn, la stanza sembra possederla e costringerla a pose e atteggiamenti voluttuosi, compiuti però con la fissità di un automa. Lo sguardo vuoto, il volto coperto dal velo (The first night, 2015) o irrigidito dalla maschera di plastica (The champagne suite, 2015) sono i simboli di un manichino che affoga miseramente come la fotografa suggerisce in Seaweap wrap (2015) e Sensory deprivation (2016). In questa serie, Calypso ribalta l’immaginario della stanza da letto, spazio non privato ma pubblico dove non si consumano azioni personali ma si attinge a un copione abusato che, proprio come la stanza nuziale dell’hotel, non appartiene veramente a nessuno. L’eccesso di simboli, dal cuore al cielo stellato, sopprime ogni possibilità di abitare l’ambiente se non allineandosi a precise aspettative culturali. La meticolosa costruzione dell’inquadratura, il grande formato, le luci controllate e soffuse, l’omogeneità dei toni cromatici del rosa, del blu e del verde esaltano l’idea di studiata perfezione che la protagonista della serie The Honeymoon incarna nella sua performance. Si coglie, ancor più che nella serie Joyce, l’imperativo alla perfezione definito da Angela McRobbie in Notes on the perfect (2015), un orizzonte di attesa attraverso il quale le giovani donne sono persuase a cercare l’autodefinizione.

Per l’ultima serie che prenderemo in esame, What to Do with a Million Years (2018), Calypso individua un’altra ambientazione particolare, il bunker della villa fatta erigere a Las Vegas da Girard Henderson, CEO della società di cosmetici Avon, per sé e la moglie Mary nel 1978, e attualmente rilevata da una società legata alla criogenizzazione. Dopo essere entrati in una buca, come nella tana del Bianconiglio, si entra in uno spazio sotterraneo di 16.000 metri quadri, in rigoroso design anni Settanta opulento e in rosa pastello, dove non mancano la vasca idromassaggio e la piscina. Un sistema di illuminazione computerizzato simula il giorno, il tramonto e la notte piena di stelle mentre la rigogliosa vegetazione artificiale rimanda al tema del paradiso perduto. Nel mausoleo di Henderson, dove il tempo sembra essersi fermato, la fotografa alterna scatti in interno a riprese dal giardino, mimando lo sguardo di un immaginario voyeur (e le perfette composizioni di La finestra sul cortile, A. Hitchcock, 1954) che coglie la protagonista nella sua esistenza ovattata e autoreferenziale. Anche se è probabilmente l’ultima donna della terra, il fantasma che abita il bunker non riesce a liberarsi dal peso delle convenzioni, dell’idea di una femminilità precostituita, dall’ansia della messa in scena di sé. Come per la donna, la casa eccessivamente femminile e di smagliante perfezione si riduce a masquerade (Riviere 1989), uno strato decorativo che nasconde una non-identità; in questo caso a set impersonale che non ha legami con chi la abita. La casa e la sua abitante si riducono a segni vuoti. L’oggettivazione della donna si fa palpabile in Die now, pay later (2018) [fig. 2] in cui da dietro l’isola della cucina affiorano le gambe criogenizzate avvolte nella stagnola come un pezzo di carne avanzata, o in A clone of your own (2017) in cui il corpo della protagonista in bikini di cristallo sembra mimetizzarsi con i lampadari anch’essi di cristallo che grondano dal soffitto. Nell’incubo domestico di Juno Calypso, una casa delle bambole a grandezza naturale sembra fagocitare il soggetto femminile privato di desideri e identità, un po’ come succede nella serie fotografica Domestic Demise (2018) della statunitense Patty Carroll, non a caso parte del grande progetto in itinere Anonymous Woman.

L’ambientazione retrò non deve trarre in inganno, la riflessione di Calypso aderisce perfettamente al contemporaneo, dove le infinite rifrazioni degli specchi che abbiamo incrociato nella serie The honeymoon e ora in A clone of your own (2017) rimandano alla pratica del selfie e alla continua messa in scena dell’intimità e degli spazi domestici online. In rete e sui social il bagno e la camera da letto, proprio come nei set appena descritti, divengono la perfetta ambientazione in cui giovani donne si ritraggono alle prese con rituali di seduzione e di bellezza più o meno invasivi (ricordiamo la moda dei selfie pre e post chirurgia plastica) (Toschi 2016). La stessa fotografa, in un’intervista alla rivista «Cortex» (Sutcliffe 2022), spiega che il suo ricorso al «looped gaze», ovvero il perturbante disallineamento dello sguardo rivolto al nostro sé riflesso nel device e non all’obiettivo, fa sì che nella pratica del selfie lo sguardo sia più basso. L’ambientazione vintage, che ci permetteva di prendere le distanze dai modelli femminili problematici ritratti nelle serie, si infrange nel looped gaze, figlio dei dispositivi digitali, spingendoci a riflettere sulle pratiche dell’autoconfigurazione contemporanee. Il looped gaze e il gioco di specchi è molto evidente se si guardano con attenzione le sue foto e alcuni backstage postati sul suo profilo Instagram.

E in questo senso, Calypso spinge oltre il concetto di «bedroom culture» promossa nel pioneristico studio di McRobbie e Garber (2015), i quali descrivono la stanza da letto come luogo privato e protetto dalle pressioni sociali e dallo sguardo maschile, spazio dedicato alla sperimentazione e alla costruzione dell’identità attraverso pratiche di consumo come quelle di riviste, musica, make-up, abiti. Oggi le stanze più private della casa sono ancora luogo di sperimentazione ma con un ampio affaccio sulla scena pubblica, come dimostrano la passione delle celebrity per i bedroom e i bathroom selfie (Rogan 2022). Bagno e camera da letto risultano particolarmente funzionali sia per il richiamo all’autenticità e a un’intimità virtuale condivisa, sia per la presenza di specchi che permettono inquadrature di più ampio respiro. Gli spazi domestici da luoghi di consumo diventano luoghi di produzione del nostro prolungamento virtuale e, per alcune, come blogger o social media influencer, vero e proprio spazio di costruzione professionale (Marwick 2015) Non a caso, nelle diverse serie, nonostante l’ambientazione retrò, il personaggio femminile ha grande dimestichezza con i marchingegni elettronici di bellezza. Allora, come suggerisce Juno Calypso, la casa è ancora spazio di elaborazione dell’identità ma di un’identità rigidamente performata per essere condivisa, insomma di una soggettività più virtuale che reale, un racconto di sé che come le storie di Instagram dura non più di ventiquattr’ore.

 

Bibliografia

J. Davidson, ‘Personality Crisis’, We Heart, June 19th, 2019 <https://www.we-heart.com/2013/07/08/juno-calypso/> [accessed 20 September 2022].

F. Gironimi, ‘Le donne postfemministe di Juno Calypso’, Art Tribune, 18 giugno 2017 <https://www.artribune.com/arti-visive/fotografia/2017/06/juno-calypso-ritratti-donne/> [accessed 15 September 2022].

A.E. Marwick, ‘Instafame. Luxury selfies in the attention economy’, Public Culture, 27, 1(27), 2015, pp. 137-160.

A. McRobbie, ‘Notes on the perfect. Competitive femininity in neoliberal times’, Australian Feminist Studies, vol. XXX, 83, 2015, pp. 3-20.

A. McRobbie, J. Gerber, ‘Girls and Subcultures. An exploration’, in S. Hall, T. Jefferson (a cura di), Resistance through Rituals: Youth subcultures in post-war Britain, London, Routledge, 1976, pp. 209-223.

J. Riviere, ‘Womanliness as a Masquerade’, 1929 ristampato in V. Burgin, J. Donald, C. Caplan (a cura di), Formations of Fantasy, London, Methuen, 1989, pp. 35–44.

F. Rogan, Digital Femininities. The Gendered Construction of Cultural and Political Identities Online, London-New York, Routledge, 2022.

B. Sutcliffe, ‘Interview Juno Calypso’, Cortex Creatives <https://cortexmag.com/INTERVIEW-JUNO-CALYPSO> [accessed 15 September 2022].

D. Toschi, ‘Autorappresentazione e fotografia medica. L’evoluzione del ritratto pre/post operatorio’, in L. Cardone, C. Tognolotti (a cura di), Imperfezioni, ETS, Pisa, 2016, pp. 111-120.

 

Sitografia

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P. Carroll, <www.pattycarroll.com> [accessed 26 July 2023].