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Il saggio prende in analisi il caso di Juno Calypso, giovane fotografa britannica specializzata in serie autoritrattistiche. Gli scatti, estremamente omogenei, ricreano un immaginario vintage zuccheroso e barocco abitato dal suo alter ego Joyce, una donna intrappolata in un estenuante processo di femminilizzazione e perfezionamento. Nelle diverse serie analizzate, un ruolo centrale è ricoperto dagli spazi domestici, in particolare camere da letto e bagni, scelti e utilizzati con estrema cura. Attraverso l’obiettivo di Calypso le stanze, dalla casa della nonna alla suite matrimoniale dei Love Hotel fino al bunker del patron dei cosmetici Avon, rivelano la sua natura artificiosa di set ipertrofico che ospita la rigida messa in scena di Sé della donna e allude all’intimità virtuale e posticcia della cultura dei bedroom selfie.

The essay examines the case of Juno Calypso, a young British photographer who specializes in self-portrait series. The highly homogeneous shots recreate sugary, baroque vintage imagery inhabited by her alter ego Joyce, a woman trapped in a laborious process of feminization and refinement. In the different series analyzed, domestic spaces, particularly bedrooms and bathrooms, chosen and used with extreme care, are played a central role. Through Calypso's lens, each room, from the grandmother's house to the Love Hotel's bridal suite to the Avon cosmetics patron's bunker, reveals its contrived nature as a hypertrophic set that accommodates the rigid enactment of selves performed by the woman. In her work, she alludes to the virtual, posturing intimacy of bedroom selfie culture.

Nella recente Home Sweet Home 1970-2018. The British Home, A Political History, mostra curata da Isa Bonnet nei Rencontres d’Arles (2019) e dedicata al peculiare rapporto tra i britannici e la loro casa, stupisce trovare un autoscatto di Juno Calypso in un bunker americano. Se avrete la pazienza di leggere le righe seguenti, capirete perché.

Juno Calypso, classe 1989, è una giovane e pluripremiata fotografa britannica che si è affacciata sulla scena internazionale con le serie Joyce I (2012), vincitrice dell’Art Catlin Award, per essere poi consacrata dall’International Photography Award nel 2016. Tutti i suoi lavori artistici sono progetti autoritrattistici che sviluppa in serie, ai quali si sono aggiunte commissioni glamour come quella di Billie Eilish per la copertina di «Garage Magazine» (issue 16), per Stella McCartney (2017), per Burberry (2018). In Italia le sue fotografie sono state esposte allo Studio Giangaleazzo Visconti e alla Fondazione Prada a Milano.

Nel primo e più ampio progetto, Joyce, diviso in due serie, la prima del 2012 e la seconda del 2015, Calypso ha dato vita a un alter ego, Joyce, una sorta di casalinga disperata degli anni Settanta intrappolata in zuccherosi e irraggiungibili ideali di bellezza e femminilità. Ai primi scatti analogici centrati sulla performance dell’autrice che interpreta in mezzo busto frontale una receptionist, un’impiegata, una promoter, un’assistente di volo – per fare solo alcuni esempi – sono seguiti autoritratti intimi situati in camere da letto immaginarie. Al banco e al fondale grigio delle lavoratrici si sono sostituiti spazi più articolati con arredamenti retrò come la casa della nonna o le camere da letto di alcuni amici. L’elemento distintivo della serie Joyce, e più in generale delle opere di Juno Calypso, risiede proprio nella scelta e nell’elaborato allestimento dei set fotografici, patinati e rigorosamente in interni privati, che assegnano all’ambiente domestico un ruolo di comprimario negli autoritratti dell’artista. L’importanza del luogo è testimoniata dalla scelta originale delle ambientazioni delle sue opere e dalla preferenza accordata ai formati ampi, poco comuni negli scatti autoritrattistici.

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Mai come ora le immagini dei nostri corpi trovano nella casa la scena della propria autorappresentazione. Complice la pandemia, che ha reso l’ambiente domestico da una parte rifugio dal pericolo esterno, dall’altra unico possibile affaccio, grazie alle immagini dispositivo, a quel mondo fisicamente vietato. Due sole le questioni che sembrano pervadere le forme di auto-ritrattistica digitale se interrogate nel quadro dei modi di auto-mostrazione femminile tra le mura domestiche tramite i social media. Da una parte il segreto dall’altra parte la posa, due aspetti dell’essere che gravitano antiteticamente su lati opposti: il segreto nella sfera del privato, del recesso, del nascondimento, mentre la posa in quella del pubblico, dell’esibizione, del performativo.

The images of our bodies find the scene of their self-representation in the house. Thanks to the pandemic, which made the home environment, on the one hand a refuge from external danger, on the other the only possible view, thanks to the device images, to that physically forbidden world. Two issues seem to pervade the forms of digital self-portraiture when questioned in the context of the ways of female self-display at home via social media. On the one hand the secret, on the other the pose, two aspects of being that gravitate antithetically on opposite sides: the secret in the private sphere while the pose in that of the public, of the exhibition, of the performative.

 

 

Take a look at you and me

Are we too blind to see?

Do we simply turn our heads

And look the other way.

Elvis Presley, In the Ghetto


 

Paolo Sorrentino commenta così la scelta di celare fino alla fine la figura della sorella, che dietro alla porta del bagno diventa una presenza assente, invisibile eppure significativa. La sottrazione allo sguardo dei famigliari, che vengono tenuti all’oscuro dei rituali di preparazione della giovane donna che si fa bella per uscire, si riflette sulla sottrazione alla visione, come se quel corpo in trasformazione diventasse un segreto. Questa suggestione che arriva dall’ultimo film di Sorrentino, È stata la mano di Dio, ci porta a mettere a fuoco due questioni che sembrano pervadere alcune forme di auto-ritrattistica digitale se interrogate nel quadro dei modi di auto-mostrazione femminile tra le mura domestiche tramite i social media. Mai come ora le immagini dei nostri corpi trovano infatti nella casa la scena per la propria autorappresentazione. Complice la pandemia, che ha reso l’ambiente domestico da una parte rifugio dal pericolo esterno ma, dall’altra, anche unico possibile affaccio, grazie alle immagini dai nostri spazi privati, a quel mondo fisicamente vietato.

Le due questioni in gioco sembrano essere da una parte il segreto e dall’altra la posa, due aspetti dell’essere che gravitano antiteticamente su lati opposti: il segreto nella sfera del privato, del recesso, del nascondimento, mentre la posa in quella del pubblico, dell’esibizione, del performativo. La sorella di Fabietto nasconde il proprio rituale di trasformazione, cela il processo di costruzione dell’immagine di Sé come donna, quell’immagine che una volta costruita diventa essenziale per mettersi in posa nel passeggio pubblico. Anche se Sorrentino, sul finire del film, finalmente decide di aprire la porta del bagno per farla sfilare, incedere a passi lenti verso la macchina da presa lungo il corridoio di una casa ormai vuota, per arrivare a mettersi in posa in un camera look, con il volto smarrito bagnato di lacrime [fig. 1].

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«Non ha senso chiedersi se Montale o Zavattini o Pasolini siano veramente dei pittori, è chiaro che non lo sono. È invece interessante vedere quali siano il posto e la funzione della figurazione nel quadro delle loro attività preminenti. Quant’acqua porta al mulino della loro poesia o narrativa, o, magari, cinematografica?».[1] Così scriveva nel 1978 Giulio Carlo Argan nel catalogo della mostra Pier Paolo Pasolini. I disegni 1941/1975 che, a pochi anni dalla morte dello scrittore, ne riuniva per la prima volta i lavori grafici e pittorici. Oggi, a oltre quarant’anni di distanza, la mostra Pasolini pittore, allestita presso la Galleria d’Arte Moderna di Roma (29 ottobre 2022-16 aprile 2023), a cura di Silvana Cirillo, Claudio Crescentini e Federica Pirani, ha il merito di presentare nuovamente nella sua organicità il percorso compiuto da Pasolini come pittore autodidatta, e parallelamente di ricostruire i legami da lui intessuti con i maggiori artisti e studiosi dei suoi tempi, fra cui emergono con evidenza le figure di Roberto Longhi e di Fabio Mauri.

Di fronte alle pitture e ai disegni del poeta ora esposti negli spazi museali di via Francesco Crispi, prova di un lungo percorso artistico compiuto all’insegna del figurativismo, le domande poste da Argan nel 1978 risultano ancora attualissime, fra tutte: quale ruolo ha assunto l’arte moderna nella definizione dell’immaginario visivo di Pasolini? E perché gli scrittori, per quanto avanzato sia il loro gusto letterario, quando disegnano ostinatamente rifuggono dal non-figurativo? Le spiegazioni date dallo storico dell’arte vanno oltre le vicende che vedono Pasolini prendere una chiara posizione a favore del realismo nello scontro che dal 1948 opponeva i sostenitori di questo indirizzo politico-culturale ai difensori dell’astrattismo. Egli ne fa piuttosto una questione di metodo: il fatto è che, scrive Argan, la ricerca astratta vuole essere fondazione di linguaggio, mentre la grafica e la pittura, così come vengono intese da alcuni scrittori, si pongono come un esercizio utile a restituire consistenza visiva e peso di materia al codice linguistico. Per il critico d’arte, dunque, Pasolini utilizzando il disegno e la pittura con un intento narrativo non può che rivolgersi alla figurazione, funzionale a esplicitare visivamente qualcosa di «già verbalmente (e sia pure mentalmente) descritto».[2] E questo dipingere da poeta, come osservano al contempo Mario De Micheli e il pittore Giuseppe Zigania nello stesso catalogo del 1978, appare con evidenza anche allo spettatore che oggi si addentra nelle sale della mostra. Attraverso un chiaro e lucido allestimento, il percorso espositivo prende avvio da un primo nucleo di dipinti e disegni degli anni Quaranta, radunati attorno al tema della corporeità, propria e altrui. Questo soggetto, affrontato in ambito letterario e cinematografico da Pasolini, appare in questa sede ben messo a fuoco anche attraverso il medium della pittura e della grafica. Segue la presentazione di alcune opere – paesaggi, volti, composizioni – realizzate dall’autore durante il suo soggiorno nel paese materno di Casarsa della Delizia, in Friuli, luogo prima di vacanze estive, poi di rifugio durante gli anni della guerra, e infine residenza fissa del poeta sino al 1950.

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Il contributo intende indagare la nascita e lo sviluppo di una ‘iconografia pasoliniana’ attraverso un percorso che intersechi espressioni verbali e visuali, seppure nella ovvia impossibilità di prendere in considerazione tutte le testimonianze. Si vedrà come la definizione di questa immagine ‘mitica’ sia stata consapevolmente ricercata e orchestrata dallo stesso Pasolini: ossessione narcisistica e tensione manierista ne hanno infatti accompagnato la vita e l’opera sin dagli esordi (poetici, narrativi, pittorici). Nell’ultimo paragrafo verranno prese in considerazione tre immagini realizzate rispettivamente da Tullio Pericoli, Tommaso Pincio e Ernest Pignon-Ernest con lo scopo di esemplificare alcune delle modalità di ricezione contemporanea del volto e del corpo pasoliniani in relazione a costanti e varianti.

This contribution investigate the birth and development of ‘Pasolini’s iconography’ through a path that intersects verbal and visual expressions, despite the obvious impossibility of taking into consideration all the testimonies. We will see how the definition of this ‘mythical’ image was consciously researched and orchestrated by Pasolini himself: narcissistic obsession and mannerist tension have in fact accompanied his life and work from the very beginning (in poetry, narrative, painting). In the last paragraph, three images created respectively by Tullio Pericoli, Tommaso Pincio and Ernest Pignon-Ernest will be considered with the aim of exemplifying some of the methods of contemporary reception of the Pasolini face and body in relation to constants and variants.

 

Non Narciso, lo specchio

brilla nel verdecupo

prato della mia morta

fanciullezza di lupo…

 

Pier Paolo Pasolini

 

Core stava guardando il narciso.

Guardava il guardare.

 

Charles Simić

 

 

1. «Così mi sarei innamorato solo dei suoi occhi»

 

 

Con queste parole Federico Zeri, tra i più celebri critici d’arte italiani, traccia un ritratto per verba di Pier Paolo Pasolini, un ritratto in soggettiva ove la parzialità e la contraddittorietà delle percezioni sensoriali (l’udito, il tatto) sono sintetizzate nella visione unitaria «di una bellissima statua greca in bronzo caduta da un autotreno, sull’autostrada e ammaccata». L’ekphrasis di Zeri, interamente fondata sul registro dell’antitesi, cerca di restituire l’enigma del volto pasoliniano (inteso quale sineddoche dell’uomo e dell’artista) attraverso la densità semantica dell’immagine conclusiva, esito dell’incontro perturbante tra le rovine di una bellezza classica e la modernità che le degrada.

L’ammaccatura citata da Zeri, fuor di metafora, potrebbe peraltro riferirsi a quello che è il dettaglio fisiognomico più caratteristico e connotante del ‘volto-icona’ pasoliniano: gli zigomi sporgenti. Segno iconografico che si è scelto di utilizzare in questa prima parte quale traccia, insieme visuale ed ermeneutica, per dipanare il filo di un discorso che intreccia i ‘ritratti-ricordi’ altrui agli autoritratti giovanili (scritti e dipinti) per giungere, nell’ultimo paragrafo, a indagare alcune reinterpretazioni contemporanee di quelli che sono ormai divenuti un volto e un corpo simbolici e perciò riutilizzabili, soggetti a variazioni e alle più disparate forme di appropriazione.

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Premessa

Questo secondo Focus di Punctum in motion: fotografia e scritture dell’io presuppone il quadro teorico tracciato nell’introduzione al primo, pubblicato su Arabeschi n. 16. In quell’orizzonte ideale vanno infatti collocati i contributi qui raccolti, che riannodano il filo tra narrazione e immagini attraverso l’analisi di alcune opere di scrittori, cineasti e videoartisti prodotte dagli anni Settanta fino ad oggi. In particolare, nei casi analizzati l’interazione tra immagine, filmico e parola autobiografica tende ad effetti stranianti, ottenuti valorizzando gli ‘scarti’; è qui sovvertito il senso di luoghi di memoria assai banali come l’album familiare e le riproduzioni di monumenti e quadri famosi. I nove saggi interdisciplinari sono dedicati agli incroci intermediali più sperimentali e alle implicazioni culturali e formali – tra analogico e digitale – tanto dell’uso dell’immagine fotografica, quanto della sua relazione con l’immagine filmica o la videoarte, nel quadro di fenomeni narrativi che si sono fatti sempre più multimodali. Rispetto alla macchina da presa, la videocamera diviene una protesi, una lente d’ingrandimento sempre più efficace, in grado di rappresentare la relazione tra fotografia e racconto di sé: un occhio straniante capace di indagare e mostrarci cosa succede poco prima e poco dopo un’immagine pittorica o un’istantanea fotografica, di rivelare le sfasature tra film e autoritratto evocando sperimentalmente la soggettività presente nel secondo. La fotografia associata al racconto diviene inoltre un oggetto artistico a sé nelle forme della Narrative Art che riprende, anche in questo caso distorcendoli, aspetti effimeri e marginali del nostro quotidiano. Alla maniera delle minuziose osservazioni fenomenologiche già realizzate dai prosatori del Nouveau Roman, l’immagine, come in un album di famiglia, è trattata innanzitutto come traccia memoriale. Anche gli autofotobiotesti e le autovideobiografie, il cui modello implicito è sempre l’album familiare, incrociano originalmente ritrattistica e racconto di sé, offrendosi come nuovi prodotti estetici che rinnovano il rapporto tra arte, introspezione e intimità. Tre case studies, ad esempio, approfondiscono alcune scelte estetiche innovative: la scrittrice Marie Ndiaye, la videoartista Valérie Mréjen e la regista Fiorenza Florentine Menini condividono l’analisi di sé attraverso il proprio e l’altrui sguardo in un caleidoscopio di prospettive in cui vengono proposte nuove riflessioni sull’identità del singolo nella sua relazione, mai pacifica, con l’altro.

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In una nota preparatoria alla Chambre claire del 17 gennaio 1980, Barthes affermava: «Je ne suis pas spécialiste de la photo: je ne suis spécialiste que de moi-même».[1] La frase, con una sagacia retorica che riecheggia Montaigne, mette in luce il legame tra racconto di sé e fotografia e allo stesso tempo suggerisce che quest’ultima non possa essere analizzata senza la parte autobiografica che le è propria. La fotobiografia, per usare il controverso neologismo di Gilles Mora, rivela l’ineludibile impronta personale presente in ogni scatto, oltre a definire le opere in cui si combinano immagini e narrazione personale.[2]

È questo il tema del Focus Punctum in motion,[3] che raccoglie otto saggi interdisciplinari aventi come denominatore comune fotografia e racconto di sé tra letteratura e cinema. Alcune linee di forza attraversano e accomunano i progetti degli scrittori e dei registi studiati in questo primo Focus, al quale seguirà un secondo, previsto per il prossimo numero di Arabeschi, dedicato agli incroci intermediali più sperimentali e alle implicazioni culturali e formali dell’immagine digitale, del video e del racconto multimediale.[4]

 

1. Fotografia, ritratti, identità

Fin dalla sua invenzione, la fotografia ha compiuto una rivoluzione che ha toccato la parola letteraria e altri media che la hanno integrata al loro messaggio.[5] Una spiegazione di questa pervasività sta nel fatto che il soggetto fotografato, per quanto ignoto o già dimenticato, non smette di interpellare l’osservatore.[6] A ispirare scrittori e cineasti è dunque la duplice natura del dispositivo fotografico che, da un lato, rappresenta il suo oggetto in modo fedele ed è dotato dunque di una particolare forza testimoniale, e che dall’altro «resta tuttavia costituzionalmente incompleto e frammentario»,[7] perché l’inquadratura e l’istante dello scatto l’hanno ‘bloccato’, sospeso in attesa di essere completato, ricostruito.

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La storia che vorrei raccontare è una storia di collaborazioni e lavoro di gruppo. Inizia negli anni Ottanta, prosegue fino ad oggi e si sviluppa da un collettivo di artisti a una coppia di artiste, da Correnti Magnetiche a Pigreca. È una storia di pionieri e pioniere delle immagini in movimento e in particolare delle audio-visioni digitali: anzi, all’inizio siamo proprio sulla soglia, negli anni esplorativi di quelle tecnologie ancora non diffuse e soprattutto allora inesistenti al di fuori dei primi utilizzi operativi e concreti.

Il gruppo Correnti Magnetiche nasce a Milano nel 1985 ed è uno dei gruppi che caratterizzano la scena indipendente italiana, tradizione che ha radici nel campo del cinema e del video di controinformazione già in anni e decenni precedenti. Nel campo delle immagini elettroniche ‘innovative’ a Milano, nel 1982, era nato il gruppo di Studio Azzurro e a Firenze nel 1984 quello dei Giovanotti Mondani Meccanici, per fare solo due esempi di rilievo. La peculiarità di Correnti Magnetiche è quella di esplorare, prima di altri, le modalità artistiche delle tecnologie e dei software digitali (fra cui i primissimi programmi per le immagini tridimensionali), anche nelle relazioni musica-immagine. Ricerca incarnata dalle diverse provenienze degli iniziatori del gruppo: Adriano Abbado (musica elettronica e arte digitale), Mario Canali (di formazione pittore), Riccardo Sinigaglia (architetto e musicista). Il gruppo si arricchisce poi con altri apporti fra cui quello di Stefano Roveda (anche per la realtà virtuale), nel 1986 di Flavia Alman (studi in lingue, cinema e immagine pubblicitaria ma anche pittrice e scultrice) e di Sabine Reiff, nata e cresciuta in Germania, con formazione in economia aziendale, e specialista, nel gruppo (cui si unisce nel 1989), di sviluppo di software per applicazioni grafiche e interattive. Questi e altri nomi formano un insieme – intorno al quale ruotano collaboratori e collaboratrici diversi, a seconda delle opere e delle iniziative – in cui dialogano musica, informatica, pittura, grafica, teoria e tecnologia, e che di fatto, volendo sintetizzare, apre la strada in Italia alla computer grafica d’artista. Un tipo di computer grafica che sa dialogare con la ricerca internazionale (a partire dai pionieri del computer film negli USA) ma anche con la tradizione figurativa antica e moderna. Fra memoria e futuro, citazione e astrazione. E con grande attenzione a una creazione musicale originale.

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L’immagine di Lenin sdraiato sul fieno con un filo d’erba in bocca è tratta da Rasskazy o Lenine (Racconti su Lenin, 1957) di Sergej Jutkevič, regista formatosi alla scuola di Mejerchol’d. Il fotogramma fa parte del primo dei due racconti che compongono il film sovietico, nel quale si narra della fuga di Lenin nella campagna russa ai confini con la Finlandia (Ul’janov è ricercato dai cosacchi, che hanno l’incarico di arrestarlo con l’accusa di spionaggio). Lontano dalla sua casa di Pietrogrado, Lenin si crea uno «studio nel verde» (zelënyj kabinet), presso la casa dei contadini che lo nascondono, vicino ad un fienile, tra le betulle, usando due ceppi come sedia e tavolo (immagine che riporta, fosse anche involontariamente, all’«orto» ricordato in Atti impuri, dove Pasolini passava «lunghe ore […] leggendo o scrivendo»). Lì Lenin continua a lavorare agli articoli per la Pravda e a Stato e rivoluzione. Pasolini seleziona la brevissima serie di fotogrammi che mostra lo statista sdraiato sul fieno, che medita guardando il cielo (altra immagine pasoliniana topica), tenendo un filo d’erba in bocca, e quindi prende la matita e scrive. Sebbene nella costruzione delle inquadrature dedicate al Lenin nello zelënyj kabinet si rifletta con evidenza l’iconografia stereotipata della ritrattistica del Realismo socialista dedicata al padre dell’Ottobre, Maksim Štrauch, l’attore che lo interpreta, annulla ogni retorica attraverso la recitazione. I gesti sono studiati, è vero, ed è evidente la volontà e la necessità di imitare il modello in modo quasi scientifico, ma altrettanto evidente è la consapevolezza del proprio corpo attoriale, che non è simulacro, ma realmente (non realisticamente) segno (di Lenin, in questo caso) all’interno di un progetto semiotico (come l’attore aveva appreso alla scuola di Ejzenštein e di Mejerchol’d). Difficile supporre che Pasolini potesse avere coscienza di tutto questo al momento della scelta delle immagini del film di Jutkevič (anche se tre anni dopo, nel 1966, le sue riflessioni sul linguaggio del cinema ricorderanno in modo suggestivo quelle di Ejzenštein). Di fatto, però, anche se per pura intuizione estetica e politica, Pasolini individua nell’interpretazione di Štrauch (nel suo cinèma) un elemento affine alla sua idea di cinema, preferendo un Lenin cinematografico a quello “vero” rintracciabile nei documentari disponibili presso l’archivio di Italia-Urss; cosa che gli permette, inoltre, di proporre un’immagine altrimenti impossibile da trovare, quella di un Lenin steso sul fieno con in bocca un filo d’erba. E a Pasolini serviva proprio quell’immagine (che nel suo campo semantico comprendeva anche il se stesso di Casarsa) per rendere l’idea del leader della Rivoluzione russa quale intellettuale immerso nel mondo della Tradizione. Il topos del fiore o lo stelo d’erba in bocca accompagna l’opera di Pasolini dagli esordi di Atti impuri fino a Petrolio. È un topos nato in Friuli, nelle campagne di Casarsa, dove, negli anni Quaranta, Pasolini annota le immagini di fiori, erba, fieno, grano e alberi, che formeranno uno stabile nucleo iconico all’interno del suo immaginario e della sua ideologia. La natura friulana è il deposito uterino dei segni che dicono l’infanzia, la madre, la morte del fratello, l’omosessualità, il ballo, la musica, la religiosità e la perdita della fede, l’approccio erotico/pedagogico ai giovani, le questioni linguistiche, la filologia, la pittura, l’adesione al marxismo. La poesia. Da un punto di vista ‘figurale’ (o meglio dell’ ‘immagine’, come avrebbe detto Pavese), essa media due realtà: l’eros concreto e carnale dei giovani contadini (che diventerà poi quello dei sottoproletari romani e infine dei giovani del “Terzo Mondo”), e l’ ‘innocenza’, forza politica, pura, barbara e sensuale, espressione del Passato. All’interno di questa più vasta ‘figura’, l’immagine del fiore, o dello stelo d’erba in bocca, fissa, in particolare, i segni dell’eros di cui è intriso il ruolo pedagogico che Pasolini si assume in Friuli, e dell’innocenza rivoluzionaria appresa durante le lotte contadine nelle campagne intorno a Casarsa che lo condurranno all’adesione al marxismo (come ricorda il poeta, «una volta che ebbi deciso di schierarmi a fianco di questi comunisti contadini, il resto fu facile. Col tempo, lessi i testi e diventai marxista»).

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I fotogrammi del Decameron nei quali Pasolini veste i panni del «migliore discepolo di Giotto» compongono uno straordinario atlante della figura del pittore, in cui il regista ci mostra in dettaglio i vari aspetti del ruolo dell’artista che si autoritrae dentro la cornice del suo quadro. Come ha notato giustamente Galluzzi, «la lettura delle pagine di Foucault su Las Meninas non era stata dimenticata […] anche se il poeta ne dà una declinazione assolutamente personale». Il cinema, del resto, per quanto stilisticamente connotato dalla scelta di piani fissi, consente a Pasolini di costruire un autoritratto a tutto tondo. Potendo contare sulla ‘mobilità’ della macchina da presa l’autore-personaggio si sofferma ora sui modelli della creazione (la realtà fuori, nello spazio affollato del mercato, e lo schizzo cartaceo poggiato su una delle pareti della chiesa che si accinge ad affrescare, ma anche la visione del sogno del Giudizio universale), ora sugli strumenti (i pennelli, i colori, le impalcature); mette in primo piano la squadra di aiutanti; o inquadra con l’obiettivo i gesti (la prima pennellata, la smania della creazione che pervade ogni istante della vita quotidiana e non lascia spazio a nessun altro impulso, mettendo a tacere la fame e il sonno) e lo sguardo (dalla inquadratura dell’umanità che si aggira nel mercato racchiusa nella cornice costruita dall’intreccio delle dita all’osservazione del modello cartaceo, fino alla contemplazione dell’opera compiuta).

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