Take a look at you and me
Are we too blind to see?
Do we simply turn our heads
And look the other way.
Elvis Presley, In the Ghetto
Paolo Sorrentino commenta così la scelta di celare fino alla fine la figura della sorella, che dietro alla porta del bagno diventa una presenza assente, invisibile eppure significativa. La sottrazione allo sguardo dei famigliari, che vengono tenuti all’oscuro dei rituali di preparazione della giovane donna che si fa bella per uscire, si riflette sulla sottrazione alla visione, come se quel corpo in trasformazione diventasse un segreto. Questa suggestione che arriva dall’ultimo film di Sorrentino, È stata la mano di Dio, ci porta a mettere a fuoco due questioni che sembrano pervadere alcune forme di auto-ritrattistica digitale se interrogate nel quadro dei modi di auto-mostrazione femminile tra le mura domestiche tramite i social media. Mai come ora le immagini dei nostri corpi trovano infatti nella casa la scena per la propria autorappresentazione. Complice la pandemia, che ha reso l’ambiente domestico da una parte rifugio dal pericolo esterno ma, dall’altra, anche unico possibile affaccio, grazie alle immagini dai nostri spazi privati, a quel mondo fisicamente vietato.
Le due questioni in gioco sembrano essere da una parte il segreto e dall’altra la posa, due aspetti dell’essere che gravitano antiteticamente su lati opposti: il segreto nella sfera del privato, del recesso, del nascondimento, mentre la posa in quella del pubblico, dell’esibizione, del performativo. La sorella di Fabietto nasconde il proprio rituale di trasformazione, cela il processo di costruzione dell’immagine di Sé come donna, quell’immagine che una volta costruita diventa essenziale per mettersi in posa nel passeggio pubblico. Anche se Sorrentino, sul finire del film, finalmente decide di aprire la porta del bagno per farla sfilare, incedere a passi lenti verso la macchina da presa lungo il corridoio di una casa ormai vuota, per arrivare a mettersi in posa in un camera look, con il volto smarrito bagnato di lacrime [fig. 1].