4.4. Abitare le immagini. Claustrofilia e auto-ritrattistica digitale

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Mai come ora le immagini dei nostri corpi trovano nella casa la scena della propria autorappresentazione. Complice la pandemia, che ha reso l’ambiente domestico da una parte rifugio dal pericolo esterno, dall’altra unico possibile affaccio, grazie alle immagini dispositivo, a quel mondo fisicamente vietato. Due sole le questioni che sembrano pervadere le forme di auto-ritrattistica digitale se interrogate nel quadro dei modi di auto-mostrazione femminile tra le mura domestiche tramite i social media. Da una parte il segreto dall’altra parte la posa, due aspetti dell’essere che gravitano antiteticamente su lati opposti: il segreto nella sfera del privato, del recesso, del nascondimento, mentre la posa in quella del pubblico, dell’esibizione, del performativo.

The images of our bodies find the scene of their self-representation in the house. Thanks to the pandemic, which made the home environment, on the one hand a refuge from external danger, on the other the only possible view, thanks to the device images, to that physically forbidden world. Two issues seem to pervade the forms of digital self-portraiture when questioned in the context of the ways of female self-display at home via social media. On the one hand the secret, on the other the pose, two aspects of being that gravitate antithetically on opposite sides: the secret in the private sphere while the pose in that of the public, of the exhibition, of the performative.

 

 

Take a look at you and me

Are we too blind to see?

Do we simply turn our heads

And look the other way.

Elvis Presley, In the Ghetto


 

Nei miei ricordi d’infanzia, mia sorella trascorreva letteralmente delle ore chiusa a chiave in bagno. La mia impressione era che si stesse sempre facendo bella per uscire, che si stesse sempre preparando [...]. Mia sorella mi odia per questa scelta del film. Invece è assolutamente un omaggio affettuoso. È un escamotage narrativo per nobilitarla. Al cinema i personaggi che non si vedono sono quelli più importanti. Quindi, mia sorella non lo sa, ma io le ho fatto un grande omaggio.

Paolo Sorrentino commenta così la scelta di celare fino alla fine la figura della sorella, che dietro alla porta del bagno diventa una presenza assente, invisibile eppure significativa. La sottrazione allo sguardo dei famigliari, che vengono tenuti all’oscuro dei rituali di preparazione della giovane donna che si fa bella per uscire, si riflette sulla sottrazione alla visione, come se quel corpo in trasformazione diventasse un segreto. Questa suggestione che arriva dall’ultimo film di Sorrentino, È stata la mano di Dio, ci porta a mettere a fuoco due questioni che sembrano pervadere alcune forme di auto-ritrattistica digitale se interrogate nel quadro dei modi di auto-mostrazione femminile tra le mura domestiche tramite i social media. Mai come ora le immagini dei nostri corpi trovano infatti nella casa la scena per la propria autorappresentazione. Complice la pandemia, che ha reso l’ambiente domestico da una parte rifugio dal pericolo esterno ma, dall’altra, anche unico possibile affaccio, grazie alle immagini dai nostri spazi privati, a quel mondo fisicamente vietato.

Le due questioni in gioco sembrano essere da una parte il segreto e dall’altra la posa, due aspetti dell’essere che gravitano antiteticamente su lati opposti: il segreto nella sfera del privato, del recesso, del nascondimento, mentre la posa in quella del pubblico, dell’esibizione, del performativo. La sorella di Fabietto nasconde il proprio rituale di trasformazione, cela il processo di costruzione dell’immagine di Sé come donna, quell’immagine che una volta costruita diventa essenziale per mettersi in posa nel passeggio pubblico. Anche se Sorrentino, sul finire del film, finalmente decide di aprire la porta del bagno per farla sfilare, incedere a passi lenti verso la macchina da presa lungo il corridoio di una casa ormai vuota, per arrivare a mettersi in posa in un camera look, con il volto smarrito bagnato di lacrime [fig. 1].

Ma cosa accade se segreto e posa, nascondimento ed esibizione vengono a coincidere? Passerò rapidamente al lavoro di Patty Carrol per aggiungere un’altra suggestione. Nel 2003 la fotografa inglese lascia la Gran Bretagna per trasferirsi negli Stati Uniti. Tra i mercatini delle pulci e dell’antiquariato, cercando e scegliendo pezzi d’arredamento per la sua nuova casa, si trova a riflettere sul ruolo della donna nella vita domestica. Da qui prende le mosse Anonymous Women, un complesso lavoro sull’ossessione femminile nella cura della casa, luogo di rifugio e di potere ma a volte anche di annullamento e attesa. Il lavoro si espande, nell’arco di vent’anni, in diverse serie fotografiche, istallazioni e video che declinano il tema secondo differenti scelte stilistiche e compositive. In particolare, il corpus titolato Demise è costituito da fotografie narrative di nature morte ambientate in stanze domestiche, che inghiottono figure solitarie di donne con il volto totalmente nascosto da arredi o da oggetti quotidiani. Dice Carrol: «La casa è una metafora della vita interiore delle donne; le loro preoccupazioni, i loro desideri e il dialogo interiore». Le scenografie sono a grandezza naturale e utilizzano mobili e oggetti per la casa che combinano la realtà con possibilità immaginarie. E ancora: «Il soggetto è la fusione tra donna e casa. La donna è mimetizzata tra i suoi oggetti domestici, attività e ossessioni. Le fotografie narrative e i brevi video commentano la mania di decorare una casa fino all’assurdo. Nella serie, sono i tendaggi e gli oggetti a prendere il sopravvento e la donna è intrappolata dai suoi stessi beni che portano alla sua morte».

I lavori di Patty Carrol accentuano l’idea che molte donne si trovano nella posizione di gestire silenziosamente e con forza una casa e una famiglia, creando bellezza e ordine dal caos, ma inosservate dal mondo esterno, dalle persone che le circondano o persino da sé stesse. Tuttavia, l’ossessione e il perfezionamento della casa e dei suoi accessori spesso modellano l’identità di molti (non solo donne). Perfezionare uno spazio con oggetti o decorazioni diventa così centrale che la propria identità si fonde con esso fino al punto di diventare invisibile.

Ebbene l’analisi del lavoro di questa artista ci può portare dritto al cuore della claustrofilia che invade le immagini auto-ritrattistiche dell’abitare, dove il venire alla luce del segreto corrisponde alla messa in posa di corpi in uno spazio domestico. Attualizzando la primitività del rifugio (Leroi-Gourhan 2018), così come l’animalità della tana (Cimatti 2016), le immagini social – e in particolare si analizzeranno quelle delle stories dei profili Instagram – restituiscono la casa come archetipo del rifugio, perimetro chiuso e protettivo, controllato o meglio addomesticato, che difatti non si limita solo a isolare, ma risponde anche «al bisogno primario di mettere ordine» tra oggetti, ricordi, affetti, pensieri, agendo così «in contrapposizione al caos dell’esterno» (Tarpino 2008). Ma come dice Bachelard: «l’essere che ha trovato rifugio sensibilizza i limiti del suo stesso rifugio; [...] vive la casa nella sua realtà e nella sua virtualità, attraverso il pensiero e i sogni» (Bachelard 2006). In questo senso la claustrofilia che emerge dall’auto-ritrattistica social diventa porosa nel momento in cui lascia libera uscita ai pensieri, offrendosi come unica soluzione spaziale adibita alla messa in scena del segreto. Chiuse, circondate da oggetti, arredi ed estasi decorative, figure di donne danno respiro al lato segreto, all’immaginazione, all’alterità, uscendo così allo scoperto ma restando chiuse in casa e soprattutto serrate dentro un’immagine. Immagini che durano poco, come le stories di Instagram di massimo 60 secondi per 24 ore e che poi scompaiono trascinando via confessioni e desideri. La casa da abitare diventa così l’immagine del Sé in casa. Quell’immagine, naturalmente segnata da soglie proprio come un’abitazione – cornici al posto di porte e finestre –, diventa a sua volta uno spazio da arredare, da decorare, da rendere proprio: lì dentro, il corpo si predispone alla messa in posa per uscire allo scoperto, si rinchiude per evadere. Ecco allora che, come il segreto diventa palese nell’immagine della casa, che è diventata a sua volta il nuovo spazio domestico, la posa dell’esibirsi diventa configurazione propria dell’abitare quel nuovo spazio. Donne che si posizionano davanti a superfici riflettenti, proponendosi nel gesto di riprendersi con il proprio smartphone, e così facendo abitano la casa-immagine [fig. 2]. Rimaste sole, si re-inventano l’abitare domestico, facendo della claustrofilia, sia fisica che virtuale, una condizione di esistenza, dove possono giocare la doppia partita della confessione pubblica e della posa intima.

 

 

 

Bibliografia

G. Bachelard, La poetica dello spazio, Bari, Edizioni Dedalo, 2006.

F. Cimatti, ‘Case e tane. Luoghi animali’, in AA.VV., Le case dell’uomo. Abitare il mondo, Milano, UTET, 2016.

A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, Milano, Mimesis, 2018.

A. Tarpino, Geografie della memoria. Case, rovine, oggetti quotidiani, Torino, Einaudi, 2008.

B. Thorn, P. Carroll, Domestic Demise, Savannah, Aint–Bad, 2020.

M. Vitta, Dell’abitare. Corpi spazi oggetti immagini, Torino, Einaudi, 2014.