I fotogrammi del Decameron nei quali Pasolini veste i panni del «migliore discepolo di Giotto» compongono uno straordinario atlante della figura del pittore, in cui il regista ci mostra in dettaglio i vari aspetti del ruolo dell’artista che si autoritrae dentro la cornice del suo quadro. Come ha notato giustamente Galluzzi, «la lettura delle pagine di Foucault su Las Meninas non era stata dimenticata […] anche se il poeta ne dà una declinazione assolutamente personale». Il cinema, del resto, per quanto stilisticamente connotato dalla scelta di piani fissi, consente a Pasolini di costruire un autoritratto a tutto tondo. Potendo contare sulla ‘mobilità’ della macchina da presa l’autore-personaggio si sofferma ora sui modelli della creazione (la realtà fuori, nello spazio affollato del mercato, e lo schizzo cartaceo poggiato su una delle pareti della chiesa che si accinge ad affrescare, ma anche la visione del sogno del Giudizio universale), ora sugli strumenti (i pennelli, i colori, le impalcature); mette in primo piano la squadra di aiutanti; o inquadra con l’obiettivo i gesti (la prima pennellata, la smania della creazione che pervade ogni istante della vita quotidiana e non lascia spazio a nessun altro impulso, mettendo a tacere la fame e il sonno) e lo sguardo (dalla inquadratura dell’umanità che si aggira nel mercato racchiusa nella cornice costruita dall’intreccio delle dita all’osservazione del modello cartaceo, fino alla contemplazione dell’opera compiuta).
Recitare la parte dell’allievo di Giotto rappresenta innanzitutto un omaggio a uno dei pittori da lui più amati, ma costituisce anche una delle possibili realizzazioni della vocazione pasoliniana a ‘gettare il corpo sulla scena’, che segna trasversalmente la scrittura cinematografica e letteraria dell’ultima stagione; è insomma un gesto che per il regista si ricollega, con un evidente filo di continuità, a tutta la sua opera precedente, riaffermando la reciprocità fra poesia e pittura. Se infatti questi fotogrammi confermano l’originaria matrice pittorica del suo cinema – emersa già con le prime inquadrature di Accattone e ribadita poi dalla dedica a Roberto Longhi di Mamma Roma (senza dire delle tante citazioni disseminate lungo tutto l’arco della produzione filmica) – in certa misura riassumono anche l’atteggiamento dello sguardo di Pasolini dentro l’orizzonte del suo multiforme macrotesto, spazio di ardite sovrapposizioni e continui slittamenti (di generi e di stili).
La raffinata sperimentazione e la varietà delle retoriche ecfrastiche adottate nei versi delle Ceneri di Gramsci e della Religione del mio tempo nella descrizione delle tecniche pittoriche di Picasso nell’omonimo poemetto, o nella rappresentazione del movimento degli occhi che si posano sugli affreschi del ciclo aretino di Piero della Francesca nella prima parte della Ricchezza, hanno una «funzione metapoetica» (nel senso teorizzato da Michele Cometa) analoga rispetto alla costruzione dell’episodio giottesco del Decameron, ma è soprattutto all’altezza del periodo friulano che poesia e pittura si presentano come attività complementari. La figura autobiografica di Desiderio in Amado mio, per esempio, è la prima delle maschere da pittore indossata da Pasolini per rappresentare la pulsione carnale di uno sguardo pronto a catturare corpi e luoghi amati, a toccare con gli occhi quegli oscuri oggetti del desiderio, verso cui è rivolta la sua ansia d’espressione e di possesso del reale. La stessa giustificazione della scelta del friulano nelle pagine di Dal laboratorio (1966), raccolte poi in Empirismo eretico, può leggersi in tale prospettiva. Il momento fondativo di una giornata dell’estate del 1941, ricostruita nel ricordo lacunoso per ipotesi («o stavo disegnando (con dell’inchiostro verde, o col tubetto dell’ocra dei colori a olio su del cellophane), oppure scrivendo versi»), indica il profilo del ‘doppiotalento’ pasoliniano, ancora incerto sulla scelta del mezzo espressivo più appropriato. L’ascolto della «parola “rosada”» (parola vergine, puro suono, che «non era mai stata scritta»), e l’istinto a «rendere grafica» quella parola, non impongono un’opzione fra poesia e pittura, anzi per certi versi ne rafforzano il rapporto di continuità. La lingua, infatti, come aveva sostenuto poche pagine prima, ha una natura inquieta e mobile, mostra «il bisogno di metamorfosi di una struttura che vuol essere altra struttura».
L’atlante del pittore che scrive, o dello scrittore che dipinge (e gira), non si riduce a queste poche occorrenze letterarie e filmiche, ma va completato con almeno altre due serie di ‘figurine’. Le foto scattate da Maria Callas a Pasolini, che sulla spiaggia di Skorpios (Grecia, 1969) disegna il volto della cantante, e quelle di Dino Pedriali dentro la torre di Chia (ottobre 1975), che ritraggono il poeta intento a tracciare il profilo di Roberto Longhi. Questi scatti, seppur appartenenti a contesti diversi, si offrono come varianti di uno stesso modello, perché mostrano ancora una volta Pasolini che ‘gioca’ a dipingere. Quelli realizzati da Pedriali probabilmente sarebbero confluiti tra gli eterogenei allegati di Petrolio, avrebbero cioè dovuto costituire l’autoritratto en artiste nascosto tra gli scartafacci dell’opera da farsi. Rimane oggi la curiosità di sapere quali delle foto commissionate al reporter lo scrittore avrebbe scelto per illustrare il romanzo, e con essa il desiderio inappagato di uno sguardo in macchina a incarnare l’ultimo fotogramma del Decameron pre-visto nello script e mai realizzato (il film si chiude infatti con l’inquadratura di spalle di Pasolini che contempla il suo personalissimo Giudizio universale). «Nel suo viso è stampato – come una leggera ombra, non priva di malinconia – il sorriso dolce, misterioso e ingenuo con cui l’autore guarda la sua opera finita»: grazie a un’ennesima staffetta fra parola e immagine, è il segno grafico della sceneggiatura a disegnare l’invisibile controcampo e a restituirci il primo piano del Pasolini pittore che si è (auto)ritratto nella cornice del suo quadro.
Bibliografia
M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Milano, Raffaello Cortina, 2012.
F. Galluzzi, Pasolini e la pittura, Roma, Bulzoni, 1994.
E. Grazioli, M.A. Bazzocchi, Pasolini ritratto da Dino Pedriali, «Doppiozero», 14 giugno 2011, http://www.doppiozero.com/materiali/recensioni/pasolini-ritratto-da-dino-pedriali [accessed 1 settembre 2015].
P.P. Pasolini, ‘Amado mio’, in Romanzi e racconti. 1946-1961, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1998, pp. 195-265.
P.P. Pasolini, ‘Picasso’, in Le ceneri di Gramsci (1957), ora in Tutte le poesie, a cura e con uno scritto di W. Siti Milano, Mondadori, 2003, tomo I, pp. 787-794.
P.P. Pasolini, ‘La ricchezza’, in La religione del mio tempo, ivi, pp. 893-947.
P.P. Pasolini, ‘Il Decameron’ (1971), in Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, tomo I, pp. 1289-1411.
P.P. Pasolini, ‘Dal laboratorio’, in Empirismo eretico (1972), ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, tomo I, pp. 1307-1342.
D. Pedriali, Pier Paolo Pasolini, Monza, Johan & Levi, 2011.