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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Questo breve saggio tiene come punto di partenza implicito la considerazione dello spazio domestico, delle relazioni che storicamente lì si sono strutturate – e ancora si strutturano – e del lavoro che lì si consumava e si consuma, come uno dei centri della critica alla produzione capitalistica da parte di posizionamenti femministi considerati, a ragione, anche molto distanti tra loro. La casa, dunque, come spazio generatore di conflitto politico, la casa come luogo dal quale, paradossalmente, partire per una critica alla privatezza e per tornare, rilanciandola, sulla differenza tra personale e privato (Fraire 2002; Pasquinelli 1977). Nell’agosto del 1974 Carla Lonzi scrive, nel suo Taci, anzi parla. Diario di una femminista (1978), di star progettando la realizzazione di alcuni «filmini sui gesti delle donne che provvedono al sostentamento dell’umanità: rigovernare, accudire i bambini, i malati, ecc.». Questo piano, mai realizzato, ma al quale Lonzi si cura di dare anche un titolo (‘Cultura femminile del sostentamento dell’umanità’) sarà l’oggetto al centro del saggio, analizzato in relazione alla serie di fotografie che Lonzi inserisce nello stesso Diario (Bertelli 2021a, Bertelli 2021b; Cardone 2014). Il saggio studia questi progetti lonziani, al di là della loro modalità di realizzazione, come compiuti atti espressivi, leggendoli come uscita possibile alla critica dell’atto artistico e del mito dell’artista sulla quale Lonzi insiste già a partire dalla metà degli anni Sessanta, e che diventerà, come già ampiamente studiato, un tema ricorrente ed esemplare del suo femminismo (Conte, Fiorino, Martini 2011; Iamurri 2016).

This short essay holds as an implicit point of departure the consideration of domestic space, of the relationships that historically have been structured there – and even still are structured there – and of the labor that was and still is consumed there, as one of the centers of critique of capitalist production by feminist positionings considered, with good reason, also very distant from each other. The home, then, as a space that generates political conflict, the home as a place from which, paradoxically, to start for a critique of privateness and to return, relaunching it, to the difference between the personal and the private (Fraire 2002; Pasquinelli 1977). In August 1974 Carla Lonzi wrote, in her Taci, anzi parla. Diario di una femminista (1978), that she was planning to make some «short films on the gestures of women who provide for the sustenance of humanity: cleaning up, caring for children, for the sick, etc.». This plan, which was never realized, but to which Lonzi also takes care to give a title (‘Female culture of humanity sustenance’) will be the object at the center of the essay, analyzed in relation to the series of photographs that Lonzi includes in the same diary (Bertelli 2021a, Bertelli 2021b; Cardone 2014). The essay studies these projects, beyond their mode of realization, as accomplished acts of expression, reading them as a possible exit to the critique of the artistic act and the myth of the artist on which Lonzi already insists since the mid-1960s, and which will become, as already extensively studied, a recurring and exemplary theme of her feminism (Conte, Fiorino, Martini 2011; Iamurri 2016).

1. Spazio domestico e ‘gesti fatti di aria’

Al di là dell’apparente, presunta immediatezza del genere diaristico, Taci, anzi parla. Diario di una femminista (1978) di Carla Lonzi è un libro ostico: ci lascia continuamente nell’apertura, quando non nelle contraddizioni – a dire il vero ovvie, se pensiamo al fatto che copre, a cadenza più o meno quotidiana, le trasformazioni di un periodo lungo quattro anni e mezzo (agosto 1972-gennaio 1977) – e, nello stesso tempo, nel continuo ribattere errante sulla stessa questione irrisolvibile, non chiudibile: l’autocoscienza.

In una pagina dell’agosto 1974, formulando l’ipotesi relativa a un progetto documentario sul gesto femminile, Lonzi scrive alcune righe, già al centro del mio ragionamento in altri scritti (Bertelli 2021a; Bertelli 2021b), che risultano un importante punto di attacco per una riflessione sullo spazio domestico:

 

Questo passo pone la questione del senso dell’operazione documentaria come mediazione estetica rimasta incompiuta, e della sua rimediazione nel diario. Tale rimediazione permette di cogliere l’intera operazione come operazione critica di ‘visibilizzazione’ di prassi, relazioni e oggetti altrimenti relegati ai margini, nell’insignificanza dal punto di vista del loro apporto culturale. Partire dalla visibilità di quei gesti è un modo per «mettersi intorno quella casa che lei è» (Irigaray 1984, p. 55) e riguarda allora il processo opposto, quanto al suo significato, rispetto a un’estetizzazione della tradizione che situa la donna nella casa, facendo di quest’ultima l’elemento protettivo e, insieme, imprigionante (un «esilio interno», ancora con le parole di Irigaray). In primo luogo, dunque, è evidente che a questi gesti è assegnata una nuova iscrizione simbolica che ne fa emergere tutta la loro rilevanza politica nella misura in cui essi, attraverso la radicale revisione critica del femminismo, sono decisamente sottratti alla dimensione privata, intesa come sfera separata da quella pubblica, che sarebbe figlia di un altro ordine. Non si tratta soltanto di smascherare la natura economica del privato e di porre l’attenzione sui rapporti sociali che nascono all’interno dello spazio domestico, ma si tratta di ripercorrere e risignificare tale spazio. Ciò riguarda, ovviamente, tanto una parte del modo in cui le donne sono state nella storia quanto una parte delle ragioni dalle quali, storicamente, ha preso avvio la presa di parola femminile: «L’autocoscienza diventa il metodo di politicizzazione del privato» (Pasquinelli 1977; Cfr. Fraire 2002, pp. 71-83), politicizzazione che è stata, com’è ampiamente noto, tradotta nella formulazione ‘il personale è politico’, laddove nell’adozione del termine ‘personale’ si consuma la demistificazione della separazione delle due sfere, della donna come soggetto naturale e impolitico, e della politica come amministrazione del potere. Nelle parole di Lonzi appare, allora, anche un senso ulteriore, punto che costituisce il centro della mia riflessione in queste pagine.

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Avec les photographies de Denis Cointe et la traduction allemande de Claudia Kalscheuer, Y penser sans cesse de Marie NDiaye est une forme autobiographique intermédiale et plurilingue qui interroge profondément l’espace dans l’écriture de soi. Dans leurs interactions, texte et photographies proposent une errance spatiale à travers Berlin dans laquelle s’articulent mémoire intime et histoire collective. Le texte fait entendre la voix d’une mère et de son jeune fils qui viennent de s’installer à Berlin dans un appartement où vivaient des enfants juifs déportés en 1943. Qui suis-je ? Où sommes-nous ? Quelle est notre « Haus » (maison) ? Telles sont les questions que pose l’enfant à sa mère, qui est peu à peu hanté par la voix des enfants tragiquement disparus. Ces phénomènes de hantise sont redoublés par le dispositif texte-photographie qui fait revenir des visages sans noms et sans paroles traversant l’espace berlinois photographié et écrit. La langue française est elle aussi peu à peu hantée et entée par la langue allemande. Le texte a été publié de manière bilingue et Marie NDiaye intègre de l’allemand au français au fur et à mesure que le récit progresse, soulignant ainsi la mobilité foncière de l’écriture de soi qui se définit comme un déplacement entre les langues et entre les médias. Il s’agit de montrer qu’Y penser sans cesse repose sur des phénomènes de hantises historiques, figurales et linguistiques qui mettent en évidence qu’au lieu de soi, se trouvent des autres.

Marie Ndiaye’s text Y penser sans cesse, published with photographs by the artist Denis Cointe and accompanied by Claudia Kalscheuer’s German translation, is an intermedial and multilingual autobiographical form that questions the space within the writing of the self. In their interrelation, writing and photographs draw a sort of wandering in the city of Berlin and an unprecedented articulation between personal memory and collective history. The text, in fact, gives voice to the dialogue between a mother and her son who have recently been living in a flat once inhabited by a deported Jewish family. «Who are we? Where are we? What is our “Haus”?» the son repeatedly asks his mother, obsessed whit the voices of the Jewish child who had inhabited that space. Through the redundant images of anonymous and mute faces crossing the German capital by train, the photographs included in the text help intensify the repetitive nature of the writing and the obsessive presence that inhabits the young Frenchman. At the same time, the German language is progressively grafted into the French language, in a linguistic hybridisation that underlines the mobility of self-writing, a real shift between languages and media. The aim of this contribution is to highlight the phenomena of historical, metaphorical and linguistic hantise on which this work is built and through which the presence of the others replaces that of the self.

 

 

L’œuvre contemporaine qui nous intéresse ici est au départ un exemple de « littérature exposée » telle qu’Olivia Rosenthal et Lionel Ruffel l’ont théorisée : une littérature en scène, qui prend la forme de la performance et qui s’insère dans un dispositif de publication multimodal.[1] En 2010, le photographe et vidéaste Denis Cointe demande à Marie NDiaye d’écrire un texte destiné à être lu à voix haute et accompagné de musique et de photographies projetées sur le fond d’une scène. Il pensait enregistrer la voix de l’auteure ; finalement, elle sera présente sur scène. La performance s’intitule Die Dichte, expression allemande qu’on a pu traduire par ‘ la densité ’, ‘ l’épaisseur ’, ‘ la profondeur ’ et ‘ l’intensité ’, et qui nomme peut-être les différentes couches qui constituent ce projet intermédial et les interactions entre le visuel, le musical et le textuel. La performance est présentée ainsi : « un texte et une voix qui se déploient dans un espace visuel et sonore. Le lieu de cette rencontre : Berlin et les souvenirs ».[2] L’œuvre est composée à plusieurs : Marie NDiaye pour l’écriture et la lecture du texte, Denis Cointe pour les photographies et les musiciens Sébastien Capazza (pour la guitare et la basse) et Frédérick Cazau (pour les claviers et les ordinateurs). La performance est présentée à Bordeaux en 2011 puis en France et en Allemagne (avec des sous-titres allemands) en 2012. Mais ce n’est pas la seule forme de publication – d’exposition – que prend Die Dichte. A côté du spectacle, Denis Cointe réalise en 2012 un court-métrage avec le texte de Marie NDiaye[3] et la musique de Sébastien Capazza et Frédérik Cazau qui déploie plus d’images fixes et mobiles que la performance n’en déployait sur scène. En 2012 encore, le texte conçu pour être lu à voix haute se traduit aussi en une pièce radiophonique bilingue diffusée en Allemagne.[4] Puis l’œuvre continue encore sa vie sous une autre forme, numérique, sur le site de la compagnie Translation fondée par Denis Cointe qui demande à Sébastien Gazeau de concevoir une « feuille numérique » en rapport avec Die Dichte sur laquelle on trouve les photographies de Cointe, un enregistrement de la voix de NDiaye et des citations d’historiens de l’art et de philosophes ; pour Denis Cointe, cette feuille « sans destination précise, […] converse et chemine avec les autres » formes de l’œuvre.[5]

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In una nota preparatoria alla Chambre claire del 17 gennaio 1980, Barthes affermava: «Je ne suis pas spécialiste de la photo: je ne suis spécialiste que de moi-même».[1] La frase, con una sagacia retorica che riecheggia Montaigne, mette in luce il legame tra racconto di sé e fotografia e allo stesso tempo suggerisce che quest’ultima non possa essere analizzata senza la parte autobiografica che le è propria. La fotobiografia, per usare il controverso neologismo di Gilles Mora, rivela l’ineludibile impronta personale presente in ogni scatto, oltre a definire le opere in cui si combinano immagini e narrazione personale.[2]

È questo il tema del Focus Punctum in motion,[3] che raccoglie otto saggi interdisciplinari aventi come denominatore comune fotografia e racconto di sé tra letteratura e cinema. Alcune linee di forza attraversano e accomunano i progetti degli scrittori e dei registi studiati in questo primo Focus, al quale seguirà un secondo, previsto per il prossimo numero di Arabeschi, dedicato agli incroci intermediali più sperimentali e alle implicazioni culturali e formali dell’immagine digitale, del video e del racconto multimediale.[4]

 

1. Fotografia, ritratti, identità

Fin dalla sua invenzione, la fotografia ha compiuto una rivoluzione che ha toccato la parola letteraria e altri media che la hanno integrata al loro messaggio.[5] Una spiegazione di questa pervasività sta nel fatto che il soggetto fotografato, per quanto ignoto o già dimenticato, non smette di interpellare l’osservatore.[6] A ispirare scrittori e cineasti è dunque la duplice natura del dispositivo fotografico che, da un lato, rappresenta il suo oggetto in modo fedele ed è dotato dunque di una particolare forza testimoniale, e che dall’altro «resta tuttavia costituzionalmente incompleto e frammentario»,[7] perché l’inquadratura e l’istante dello scatto l’hanno ‘bloccato’, sospeso in attesa di essere completato, ricostruito.

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