Abicì delle guerre: fototesti e riscritture tra Brecht e Broomberg-Chanarin

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È una frequentazione ormai pressoché costante, negli ultimi anni, quella della coppia di artisti e fotografi Adam Broomberg e Oliver Chanarin con l’opera fototestuale di Bertolt Brecht. Al 2011 risale la pubblicazione del fototesto War Primer 2, un autentico Abicí della guerra al quadrato che i due autori hanno composto sovrapponendo alle originarie immagini brechtiane una selezione di fotografie che raccontano momenti della "guerra al terrore" inaugurata dall’amministrazione Bush. Il risultato è un’opera sincretica dove le foto scelte da Broomberg e Chanarin, incastrate fra le parole e dentro le foto di Brecht, producono un insieme a tre voci non svincolabili l’una dalle altre, se non a rischio di una inevitabile perdita di senso. Si tratta di un’opera che mette evidentemente in crisi il concetto di autorialità, e in cui la relazione fra le parole e le immagini non è mai diretta o puramente illustrativa, ma sempre obliqua, “tensionale”. Il contributo approfondisce prevalentemente la forma, ancora non indagata, di questo fototesto e, con essa, la sua relazione strutturale e poetica con quello di Brecht. Ci si interroga inoltre sugli eventuali effetti di verità che le fotografie scelte dai due artisti innescano sulla memoria individuale e collettiva dei lettori/osservatori.

In recent years, artist/photographers Adam Broomberg and Oliver Chanarin have collaborated on an ongoing interaction with Berthold Brecht’s photo-textual work War Primer, which was released after long gestation in 1955. In 2011 Broomberg and Chanarin published War Primer 2, a veritable squaring of Brecht’s montage of photography and poetic epigrams, in which they replaced Brecht’s images of World War II with photographs of the Bush administration’s “war on terror”. The result is a syncretic work in which the photos selected by Broomberg and Chanarin, placed between and within Brecht’s, produce a chorus of voices distinguishable one from another only at the risk of sacrificing a sense of the whole. War Primer 2 thus pushes the concept of authorship to the breaking point: the relation between word and image is never direct or purely illustrative, but always oblique and “in tension”. This contribution concentrates on the still largely unexamined question of form in the Broomberg-Chanarin photo-text in its structural and poetic relation to Brecht’s, with particular attention to the truth effect that the photographs used by the two artists trigger in the individual and collective memory of reader/observers.

 

 

 

Photographs are the most capricious objects – way less faithful than words. They can’t be trusted.

Adam Broomberg, Oliver Chanarin

 

The real question to ask when confronted with these kinds of image-text relations is not «what is the difference (or similarity) between the words ant the images?» but «what difference do the differences (and similarity) make?» That is, why does it matter how words and images are juxtaposed, blended, or separated?

William J.T. Mitchell

 

 

Racconta Milan Kundera, all’inizio del suo Libro del riso e dell’oblio, che su un balcone di un palazzo nella piazza della Città Vecchia di Praga ha inizio la storia della Cecoslovacchia comunista. Da lì nel febbraio del 1948 Klement Gottwald, affiancato fra gli altri dal compagno Vladimir Clementis, tiene il suo discorso ufficiale di presa del potere in una piazza gremita di gente. Fa freddo quel giorno, e il premuroso amico cede a Gottwald il suo berretto di pelliccia. Ed è così, con accanto Clementis e il suo colbacco in testa, che Gottwald è immortalato nelle fotografie ufficiali di quello storico discorso. Qualche anno dopo Clementis, accusato di tradimento, è giustiziato. Cancellato dalla storia, è cancellato definitivamente anche da quella storica fotografia, dove Gottwald da lì in avanti comparirà sì da solo, ma con il colbacco di Clementis ancora sul capo, a svelare platealmente l’inganno.

L’idea che le fotografie, come quella storica scattata a Gottwald e Clementis, possano mentire non è certo nuova e solo rinvigorita dalle nuove e potenti tecnologie digitali che hanno definitivamente messo in crisi l’eventuale, residuo «carisma di verità»[1] delle immagini fotografiche. Uno scetticismo di fondo nei confronti del valore documentale delle fotografie ha alimentato, tra gli altri, il pensiero di Bertolt Brecht, come anche i più recenti lavori dei due artisti e fotografi britannici Adam Broomberg e Oliver Chanarin[2] che, complici della stessa diffidenza di Brecht, proprio nel suo pensiero e nella sua opera fototestuale hanno trovato un modello di ispirazione e di confronto dialettico. Del 2011 è la pubblicazione del fototesto War Primer 2 che qui approfondiamo, remake del brechtiano Abicì della guerra (Kriegsfibel, 1955) che Broomberg e Chanarin hanno composto sovrapponendo alle originarie immagini della seconda guerra mondiale, scelte e ritagliate da Brecht dai giornali e riviste illustrate dell’epoca, una selezione di fotografie che raccontano momenti della guerra al terrore inaugurata dall’amministrazione Bush dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. L’opera, come vedremo, non si presenta come semplice copia aggiornata all’oggi dell’originale brechtiano, ma come sua ricreazione e imitazione creativa, intendendo la differenza fra copia e imitazione nel modo in cui, tra gli altri, l’ha intesa Samuel Taylor Coleridge quando scriveva all’amico e attore Charles Mathews che «una imitazione differisce da una copia in questo, che essa di necessità implica e domanda differenza – mentre una copia punta all’identità come una pesca di marmo su una mensola del caminetto, che tu sollevi ingannato e metti giù con un leggero [pettish] disgusto […]».[3]

Ma anche il singolarissimo progetto Holy Bible, a cui, per ragioni di spazio, qui si può solo accennare, pubblicato da Broomberg e Chanarin come fototesto nel 2013 (London, Mack) e poi diventato una mostra con il titolo di “Divine Violence”,[4] prende di fatto le mosse da Brecht, e trova ispirazione non in una sua opera, ma nella sua copia personale della Bibbia nella versione ufficiale di re Giacomo conservata al Bertolt Brecht Archive di Berlino, che risulta densa di sottolineature, appunti, note a margine e ritagli fotografici – come quello di una macchina da corsa incollato sulla copertina – e che i due artisti hanno consultato nell’archivio berlinese già durante la realizzazione di War Primer 2.[5] L’incontro, accidentale e fortunato, con la Bibbia personale di Brecht diventa di fatto il presupposto metodologico che ispira la loro Holy Bible, testo due volte doppio, per la sua stessa struttura di fototesto e per la sua diversa realizzazione e destinazione, in forma di libro e di mostra fotografica. E l’esito, anche qui, è non una mera copia ma un’imitazione inquieta della Bibbia di re Giacomo, su cui Broomberg e Chanarin intervengono sottolineando in rosso frasi o parole-chiave, che assumono funzione di didascalie, e sovrapponendo al testo sacro, alla maniera di Brecht, più di 500 fotografie, non scattate da loro ma setacciate accuratamente da quell’indisciplinata, non-ufficiale e immensa collezione di foto d’autore, amatoriali o anonime sul tema del conflitto che è l’Archive of Modern Conflict di Londra. Chiude questa singolare foto-Bibbia un epilogo testuale dal titolo Divine Violence, breve estratto dal libro Two Essays on God and Disaster del filosofo israeliano Adi Ophir, che costituisce la mappa concettuale, filosofica e politica dell’intero progetto.

«Ciò che rende la situazione così complicata è il fatto che una semplice ‘riproduzione della realtà concreta’ attualmente è men che mai suscettibile di dire qualcosa di concreto sulla realtà. Da una fotografia delle officine Krupp o dell’AEG non si ricava quasi nulla sul conto di queste istituzioni […]».[6] Così scriveva Brecht nelle ben note pagine del Processo dell’Opera da tre soldi, esprimendo senza mezzi termini uno scetticismo nei confronti della fotografia che si trova confermato in altri suoi scritti, anche d’occasione, come quello breve e caustico letto in occasione delle celebrazioni per il decimo anniversario della rivista «A-I-Z»:

L’immenso sviluppo dei reportage fotografici non ha rappresentato un gran guadagno per far luce sulla Verità relativa ai rapporti di forza nel mondo contemporaneo: la fotografia, nelle mani della borghesia, è diventata un’arma potente contro la verità. L’enorme cumulo di immagini che viene giornalmente vomitato dalla carta stampata e che parrebbe avere l’aspetto della verità, è in realtà soltanto al servizio di una volontà di oscurare i dati di fatto. La macchina fotografica è perfettamente in grado di ingannare, né più né meno di quanto sia in grado di fare la macchina da scrivere.[7]

Di tale sfiducia di fondo è indizio chiaro, e anzi documento programmatico, proprio la breve prefazione alla Kriegsfibel, che nella prima edizione del 1955, a guerra già finita, Brecht affida a Ruth Berlau, curatrice editoriale del progetto, oltre che sua amica e fidata collaboratrice.

[…] Questo libro vuole insegnare l’arte di leggere le immagini. Poiché, per chi non vi è abituato, leggere un’immagine è difficile quanto leggere dei geroglifici. La grande ignoranza sui nessi sociali, che il capitalismo accuratamente e brutalmente conserva, trasforma le migliaia di fotografie dei giornali illustrati in vere e proprie iscrizioni geroglifiche, indecifrabili per il lettore sprovveduto.[8]

Le fotografie non solo non riproducono mimeticamente la realtà, ma anzi possono essere impiegate come arma contro la verità, offrendone una visione distorta, manipolata. Proprio come avviene per i geroglifici, «indecifrabili per il lettore sprovveduto», è dunque necessaria un’educazione alla lettura delle immagini, per imparare a decodificarle con occhio non ingenuo.[9] E questo vuole essere l’intento pedagogico, oltre che politico, dell’Abicì della guerra, racconto critico, per immagini e testi, non tanto della guerra quanto delle sue rappresentazioni. Un intento che motiva intimamente anche il sorvegliatissimo impianto formale dell’opera, costruita com’è attraverso il montaggio di fotografie di guerra selezionate da Brecht da periodici illustrati (la rivista «Life» soprattutto), di didascalie, anch’esse ritagli di giornali, e di epigrammi in rima posti sotto ciascuna fotografia, un vero e proprio commento lirico all’immagine «quasi venuto da un altro mondo o da un altro tempo».[10]

È durante il lungo esilio («l’epoca-del-frattempo»)[11] che terrà Brecht lontano da Berlino per quindici anni  ̶  da quel febbraio 1933 in cui lascia la città dopo l’incendio del Reichstag fino al 1948  ̶  che arrivano a maturazione i suoi capolavori fototestuali: il primo è il Diario di lavoro che tiene dal 1938 fino al 1955, non soltanto un documento autobiografico,[12] ma un enorme serbatoio di fotografie di varia natura, da quelle di scena a quelle personali e familiari a quelle provenienti dai giornali, assemblate in abile montaggio con testi altrettanto vari, sulla guerra, sul teatro, sulla letteratura o impressioni ricavate da incontri; il secondo è appunto l’Abicì della guerra, «escrescenza iconografica»[13] e coronamento poetico, formale e tematico del Diario.[14]

Nell’Abicì il montaggio dei materiali fotografici eterogenei e delle relative didascalie, sottratti al loro contesto di origine, smontati e rimontati in un diverso contesto attraverso l’associazione di ogni fotografia con una quartina in versi, conferisce a quelle immagini un nuovo ordine di senso, ed è il modo di Brecht per sottrarle alla percezione stereotipata, per insegnare ad aguzzare lo sguardo, a ‘prendere posizione’.[15] Gli epigrammi lirici non spiegano o chiariscono le fotografie, piuttosto le complicano, mettendone in crisi il principio di verità, consentendo al lettore/osservatore l’esercizio del dubbio; la stessa disposizione sulla pagina delle parole e delle immagini in un ordine sorvegliatissimo – sullo sfondo nero delle pagine di destra le fotografie e le quartine brechtiane, sullo fondo bianco delle pagine di sinistra il numero del fotoepigramma, i titoli e/o le didascalie – e dunque la forma stessa dell’Abicì è indicatrice dell’intenzione politica di Brecht di innescare un livello diverso di leggibilità[16] delle immagini, di metterne in discussione la valenza referenziale. La ridisposizione delle cose, quale è l’atto di montaggio operato da Brecht, «complica la nostra apprensione della storia»[17] e può produrre effetti di verità più profondi di quelli generati da una visione assuefatta. Montaggio, scrive Didi-Huberman, «non significa “assimilazione” indistinta, “fusione” o “distruzione” degli elementi che lo costituiscono. […] Significa semmai dare a intendere qualcosa di diverso, mostrando la differenza e il legame di questa immagine con ciò che la circonda per l’occasione. […] Dove sta il legame costruito dal montaggio? Sta innanzitutto nella sua forma».[18] Ed è per questo che, oltre ai diversi studi incentrati più sulle questioni tematiche e sullo spessore politico dei fotoepigrammi brechtiani, altrettanto preziosi risultano quelli sulla forma dell’Abicì, sulla sua tipologia in quanto fototesto, sui modi di dialogo, o di collaborazione, o di ‘scontro’, o di ‘resistenza’, che si attivano fra i due media,[19] tutti efficaci vettori di senso e terreno fertile per provare qui ad approfondire anche la forma, ancora poco indagata, di War Primer 2 di Broomberg e Chanarin, oltre che la sua relazione strutturale e poetica con l’opera di Brecht.

Della diffidenza brechtiana nei confronti dell’attendibilità delle fotografie si è già detto, anticipandone l’influenza esercitata sulla poetica dei due artisti londinesi. Una tappa decisiva in questa loro poetica del sospetto è rappresentata dal progetto The Day Nobody Died (2008), esito dell’esperienza di Broomberg e Chanarin in qualità di fotogiornalisti, o meglio di pseudo fotogiornalisti, dell’esercito britannico durante la campagna militare condotta nel 2008 nella provincia di Helmand, in Afghanistan.[20] Nel giugno del 2008, spacciandosi per fotogiornalisti, i due artisti chiedono e ottengono di essere arruolati come fotoreporter ufficiali dell’esercito britannico in Afghanistan, con l’incarico di raccontare il conflitto e il preventivo obbligo contrattuale di rispettare esplicite restrizioni imposte dal Ministero della Difesa britannico, fra cui il divieto di fotografare i corpi delle vittime o gli effetti immediati degli attacchi sulle costruzioni civili:

Being embedded is itself a contradictory experience. The army is responsible for your safety yet with each day they are transporting you closer and closer to the field of danger. They offer unprecedented access to the war, but in return they have unprecedented access to you. […] Throughout the embed there is an agreement about what can and what cannot be represented. Injured soldiers, dead soldiers, the morgue, the results of enemy fire… the list goes on. The word collusion rather than journalism may better describe this kind of reporting.[21]

In un tale sistema restrittivo di preventiva e intransigente messa in crisi della funzione di documentazione delle immagini fotografiche a favore di un racconto igienizzato della guerra, la decisione eversiva di Broomberg e Chanarin è stata quella di non scattare alcuna fotografia, ma di portare con sé, al posto della macchina fotografica, un rotolo di pellicola lungo 50 metri contenuto in una scatola di cartone. Il rotolo sarebbe stato regolarmente srotolato ed esposto ai raggi del sole ad ogni singola occasione degna di nota sotto il profilo mediatico, per poi essere riavvolto e riposto in quella stessa scatola che i militari, durante l’intera permanenza dei due artisti in Afghanistan, hanno diligentemente trasportato da una base militare all’altra, complici inconsapevoli di un atto anche performativamente eversivo.[22]

Il risultato restituito dalla pellicola esposta al sole è provocatoriamente non figurativo, perché non racconta nulla e nulla mostra se non uno scorrere sfocato di colori. è deliberatamente compromesso qualsiasi metro di giudizio usato di norma per determinare il valore e la qualità delle immagini fotogiornalistiche di guerra – dalla vicinanza del fotoreporter al pericolo, al valore della fotografia come prova e così via – e ciò che resta è l’interrogativo, politico ed etico, su cosa ci si aspetta realmente di vedere, e su quanto siamo abituati a vedere. «Our role as author – commentano i due artisti tornando sull’esperienza in Afghanistan – is almost entirely removed from the process. The composition of these images is accidental: created by the temperature of light on that day, at that moment, in that place. As abstract, non-figurative images, they are useless as evidence».[23]

Proprio a partire The Day Nobody Died, punto di svolta nella riflessione poetica di Broomberg e Chanarin, almeno un paio di concetti-chiave iniziano a consolidarsi e diventare oggetto costante di elaborazione: il primo ha appunto a che fare con una attenzione crescente all’«ecosistema»[24] in cui si genera l’immagine fotografica più che alla fotografia in sé, ai modi e agli effetti della sua produzione, diffusione, ricezione, all’etica e al potere del medium fotografico nei suoi rapporti con il potere. «We are not War Poets, or even War Photographers – chiariscono quasi a liberarsi definitivamente dall’etichetta che pure è stata loro assegnata –[25] Our role, is to instead think about how images produced in the theatre of human suffering are consumed; the individual response to such images. We only went to conflict zones to explore these ideas, never to document any specific war».[26] Il secondo pensiero portante, intimamente connesso al primo, ci riporta direttamente a Brecht e al suo modello fototestuale, e ruota intorno a un progressivo disinteresse verso il concetto di autorialità, evidente nell’esperimento di The Day Nobody Died e radicalmente messo in crisi in War Primer 2.

Già i fotoepigrammi confluiti nella Kriegsfibel di Brecht sono di fatto l’esito di un lavoro collettivo che vede coinvolti più attori oltre a Brecht: dalla già citata Ruth Berlau a cui, oltre alla breve prefazione, si deve uno scritto più lungo sulla genesi dell’opera, ora sul risvolto di copertina, a Günter Kunert e Heinz Seydel, redattori dell’editore Eulenspiegel, a cui Brecht affida le Note alle fotografie riportate in appendice, a Peter Palitzsch, collaboratore di Brecht e responsabile del menabò, oltre evidentemente agli autori delle fotografie e delle didascalie talvolta ad esse associate, dei cui nomi non vi è intenzionalmente traccia nel testo.[27] A questa pluralità di attori deve poi aggiungersi la pluralità di edizioni e metamorfosi del testo, a cui Brecht inizia a lavorare già negli anni Quaranta ma che vedrà la luce – dopo tormentate vicende editoriali fatte di versioni non pubblicate, di aggiunte, sostituzioni, censure e autocensure – solo nel 1955 a cura di Ruth Berlau per l’editore Eulenspiegel di Berlino est, in una versione di 69 epigrammi, fino ad arrivare all’edizione Eulenspiegel del 1994, arricchita di venti fotoepigrammi supplementari (Anhang zur Kriegsfibel) e di una postfazione di Jan Knopf.[28] La Kriegsfibel è dunque di per sé una macchina testuale dall’identità plurale, un assemblaggio instabile[29] di versioni e di attori:

Brecht’s work – compendia Didi-Huberman – masterly as it is, still has this unfinished quality, which is inherent in the montage process that made it. Because a montage can always be assembled differently […] and is therefore constantly waiting for something like an infinite reworking.[30]

La stessa «profusione paratestuale» che caratterizza l’opera, approfondita lucidamente da Jonathan J. Long – una «pletora di supplementi linguistici» fra prefazioni, postfazioni, didascalie, pagine di note etc., non di prima mano brechtiana se si escludono le quartine liriche – ne conferma non solo la natura di processo creativo collettivo, ma anche la complessa costruzione formale:

The War Primer – scrive Long proprio nel ribadire l’importanza della forma del testo – explicitly presents itself as an instrument for training us to read photographs, and Brecht meets this challenging task by producing a book that is so idiosyncratic in its formal layout that I know of no other quite like it.[31]

In realtà qualcosa di più complesso del già complesso layout formale di War Primer esiste, ed è proprio il fototesto War Primer 2 di Broomberg e Chanarin, ulteriore e vertiginoso raddoppiamento di quello di Brecht, già di per sé doppio nella sua combinazione di parte testuale e fotografica, com’è nella natura stessa del genere.

War Primer 2, pubblicato nel 2011,[32] è un autentico Abicì della guerra al quadrato che i due autori hanno letteralmente messo in pagina partendo dalla versione inglese del testo di John Willett del 1998 dal titolo War Primer,[33] e sovrapponendo alle originarie immagini brechtiane una selezione di fotografie che raccontano momenti della Guerra al terrore inaugurata dal governo statunitense nel 2001. Il principio di indagine e l’intento del progetto sono intimamente brechtiani: osservare la vita sociale delle immagini fotografiche, comprendere e far comprendere la loro instabilità e inaffidabilità, approfondire i rapporti di connivenza fra fotografia e potere, i modi in cui le fotografie si intersecano e partecipano alle dinamiche del conflitto, imparare, con i lettori/osservatori, a ‘prendere posizione’. E brechtiano è anche il metodo di raccolta dei materiali: come Brecht ha ritagliato dai giornali dell’epoca fotografie sulla seconda guerra mondiale e le ha letteralmente attaccate sulle pagine nere della sua Kriegsfibel, privandole del loro contesto di origine e di indicazioni sugli autori degli scatti, ossia smontandole e rimontandole in un nuovo orizzonte ermeneutico, così Broomberg e Chanarin, abdicando programmaticamente a qualsiasi principio di autorialità, hanno cercato nello sterminato archivio mediatico di internet le loro immagini di guerra. «We have never been very concerned with authorship»,[34] ribadisce il duo, «we need to be on guard just looking at [photographs], never mind making them. We still take photographs, however. It’s just that we don’t radically discriminate between images we take and those that we find».[35] E ciò che, per lo specifico progetto War Primer 2, hanno selezionato dalla rete sono soprattutto fotografie, ma anche fotogrammi o schermate catturate prima che il collegamento ai relativi link fosse chiuso. Il risultato è un testo sincretico dove le foto a colori della Guerra al terrore sono intarsiate fra le parole e dentro le foto in bianco e nero di Brecht, producendo un insieme a più voci non svincolabili l’una dalle altre, se non a rischio di una inevitabile perdita di senso.

Forse non è inutile tuttavia, proprio in considerazione dell’importanza del rigoroso layout del fototesto brechtiano, soffermarsi preliminarmente sulla sua versione inglese in 85 fotoepigrammi del 1998 a cura di Willett, la prima in lingua inglese, assunta da Broomberg e Chanarin come ipotesto. Dell’edizione tedesca di riferimento del 1994 la versione di Willett sembra conservare, almeno a larghe maglie, l’organizzazione grafica generale, fatte salve alcune rilevanti eccezioni: una difforme progressione numerica dei fotoepigrammi a partire dal quindicesimo, come scrupolosamente riepilogato dal curatore nell’indice analitico posto in chiusura; la diversa posizione del numero di ciascun fotoepigramma, spostato al centro della pagina bianca di sinistra; il colore grigio scuro della pagina di destra, usato come sfondo-cornice delle fotografie al posto del nero dell’originale, oltre a una gradazione più chiara di grigio che inquadra gli epigrammi, qui peraltro stampati in inchiostro nero, con un evidente effetto di raddoppiamento della cornice; la traduzione in inglese delle originarie didascalie in tedesco o altra lingua, e il loro spostamento sulla parte inferiore della pagina bianca di sinistra; l’eliminazione di alcuni titoli e di alcune didascalie nella pagina bianca di sinistra nei casi in cui queste ultime risultino già in inglese nel testo di partenza, oppure la loro trascrizione, sempre nella pagina bianca di sinistra, quando risultano un po’ sfocate, producendo in questo caso un raddoppiamento di testo. Il testo inglese si presenta inoltre anch’esso con un composito apparato paratestuale, che sostituisce le prefazioni, note e postfazioni originarie con un dettagliato elenco di note, un elenco cronologico degli eventi bellici e delle fotografie ad essi associate, e una lunga postfazione di Willett.[36]

Oltre che possibile continuazione della poetica brechtiana del sospetto nei confronti della presunta valenza referenziale delle immagini, il progetto War Primer 2 di Broomberg e Chanarin si pone, sotto il profilo formale, come ulteriore tassello di quell’instabile dispositivo di assemblaggio e infinite reworking costituito dal fototesto di Brecht. Indizio di un concorde criterio anche conoscitivo e retorico, oltre che metodologico, sembra essere del resto l’esplicito omaggio che i due artisti riservano al drammaturgo tedesco, il cui scritto programmatico Cinque difficoltà per chi scrive la verità del 1935,[37] in versione inglese, apre la seconda parte del volume che ospita una selezione di saggi critici già editi.

Già il titolo dell’opera War Primer 2 ne costituisce, direbbe Genette, indizio contrattuale nel suo rimandare esplicitamente al War Primer brechtiano tradotto da Willett. L’esclusiva marca autoriale dei due artisti sembra illusoriamente definita sulla copertina del volume, che riporta unicamente i loro nomi e il numero 2 e che si completa solo sul dorso con l’indicazione completa del titolo, costringendo il lettore a uno spostamento dello sguardo già al primo impatto con l’opera. Ma è a partire dal frontespizio che la dimensione autoriale inizia a ingarbugliarsi, con i nomi di Broomberg e Chanarin sovrapposti a quello di Brecht a cui si aggiunge quello di Willett, in un processo di vorticoso elevamento al quadrato di War Primer che coinvolge tanto le componenti testuali, sovrascritte in rosso sul testo di Willett, quanto quelle fotografiche. Di fatto gli interventi decisivi dei due artisti sono apportati sulla pagina destra, con la sovrapposizione o interpolazione delle nuove foto fra quelle di Brecht, e sul paratesto, con l’aggiunta di un apparato di 85 note, una per ogni nuova immagine, poste alla fine dei fotoepigrammi e sovrascritte in rosso alle Note e alla Postfazione di Willett. Si tratta di note-didascalie, a cui si aggiunge il rimando ipertestuale ai link da cui è ricavato il materiale fotografico: note talvolta tanto lunghe da assumere forma ecfrastica di narrativizzazione dell’immagine,[38] in altri casi di natura meramente informativa e in altri del tutto assenti, lasciando come unico appiglio alla decifrazione della fotografia il solo rinvio al link da cui essa è stata tratta. Resta comunque indubbio che nel passaggio da War Primer a War Primer 2, e con l’aggiunta di molte pagine di nuove note alla fine dei fotoepigrammi sovrapposte a quelle di Willett, l’effetto immediato è di un ulteriore incremento di quella «profusione paratestuale» su cui a buon diritto insiste Long, che di fatto moltiplica e complica le interazioni fra tutte le componenti, verbali e visuali, dei due testi. Altrettanto evidente è l’autorialità diffusa dell’opera, di cui prova più eclatante, ma evidentemente non unica, sono i numerosissimi autori (e attori) delle fotografie scaricate dalle pagine web.[39]

Proviamo ora a entrare nell’officina di Broomberg e Chanarin osservando alcuni esempi dei diversi tipi di relazione che si instaura fra il loro fototesto e quello di Brecht. Sono relativamente pochi i fotoepigrammi in cui alla fotografia originaria è integralmente, o quasi integralmente, sovrapposta una nuova foto che subentra alla prima nella relazione sia con la quartina brechtiana, sempre ben visibile, sia con le nuove note-didascalie poste in fondo al volume, sia con le eventuali didascalie già presenti nel testo di partenza. Ne è un esempio il fotoepigramma n. 51, qui presentato come tutti gli altri nella doppia versione di War Primer e War Primer 2, di estremo interesse sia per le relazioni a più voci che si determinano fra le diverse componenti visuali e testuali, sia per le articolate dinamiche dello sguardo che le due fotografie mettono in atto.

 

Hoping to keep concealed throughout the fighting
While would-be rulers wrestled in the air
The frightened people looked for holes to hide in
And watched their masters battling from down there.[40]
 
[Per non essere scoperta e uccisa –
i padroni si azzuffavano nei cieli – tanta
gente si nascose sotterra impaurita,
seguì le battaglie altrui così a distanza].[41]

 

Nella tavola originaria la fotografia di una donna tailandese, letteralmente sepolta viva in un rifugio sotterraneo durante i bombardamenti americani, rovescia con tragica ironia la scritta Life della famosa rivista da cui Brecht ha ritagliato molto del suo repertorio fotografico.[42]

B. Brecht, War Primer, 1998, n. 51 A. Broomberg, O. Chanarin, War Primer 2, 2011, n. 51

Nella tavola a destra cambia il tipo di relazione, sia fra le immagini, sia fra queste e la parte testuale. Fatti salvi la didascalia originaria, un minimo margine del beffardo titolo ‘LIFE’ e lo sfondo, ridotto però anch’esso al minimo, quasi nulla rimane della foto brechtiana; la nuova immagine – una foto-trofeo in cui Samir, traduttore assegnato alle forze speciali statunitensi in Iraq e coinvolto nella cattura di Saddam Hussein, ne esibisce il corpo malridotto e scovato da un rifugio sotterraneo – non solo aggiorna alla contemporaneità la fotografia e la quartina brechtiane, ma sembra esplicitarne in senso crudamente letterale l’idea sottesa di morte metaforica o ‘quasi-morte’ che in Brecht permane in forma di suggestione. Altrettanto significativa, nel passaggio dalla prima alla seconda fotografia, è la messa in atto di una molteplicità di sguardi: da quello della donna che scruta il cielo a quello di Samir, interprete-eroe che mostra ai nostri occhi il suo trofeo, al nostro stesso sguardo, che incrocia quello di Samir ma che è a sua volta catturato dal volto tumefatto e dagli occhi chiusi e innocui, ossia depotenziati dello sguardo, del dittatore iracheno.

Molto più numerosi sono invece i casi di montaggio delle nuove immagini all’interno della cornice o parzialmente fuori dalla cornice delle foto originarie: queste rimangono in parte visibili e sono completate o aggiornate dalla nuova sovrapposizione, costringendo il lettore – come accade per il montaggio – a stare in due parti e in due tempi contemporaneamente, stimolando un nuovo, straniante livello di leggibilità e comprensione.

Si veda, ad esempio, l’immagine n. 3, anch’essa riproposta nella sua doppia versione, emblematica di come l’organizzazione formale dei due fototesti sia di per sé vettore di senso e permetta ai lettori di interrogarsi costantemente anche sugli effetti di verità che le fotografie innescano sulla memoria individuale e collettiva:

B. Brecht, War Primer, 1998, n. 3A. Broomberg, O. Chanarin, War Primer 2, 2011, n. 3

Nel fotoepigramma brechtiano non è dato nessun appiglio referenziale che possa agevolare la lettura della fotografia, ed è sparito anche il titolo originario Spanien 1936 che ci riporta all’inizio della Guerra Civile spagnola. Ciò che resta è unicamente l’epigramma, straniante e disorientante per il lettore, perché allude alla morchia nera sulle braccia e sul petto delle donne uscite dall’acqua del mare inquinato, mentre l’immagine mostra inequivocabilmente i palmi delle loro mani e le piante dei loro piedi:

 

Women are bathing on the Spanish coast.
They climb up from the seashore to the cliffs
And often find black oil on arm and breast:
The only traces left of sunken ships.[43]
 
[Sulle coste spagnole le donne, quando escono
dal bagno fra le rocce a picco sul mare,
trovano spesso morchia nera sulle braccia e sul petto:
ultime tracce delle navi affondate].[44]

 

L’iniziale dissonanza fra la fotografia e l’epigramma sembra non solo risolversi, ma rovesciarsi in una relazione di dialogo lirico e tragico e persino di intensificazione nel montaggio operato da Broomberg e Chanarin: il nero sulla pelle della foto di Brecht si sovrappone al nero della pelle della nuova fotografia, quella di uno dei 46 migranti sbarcati su una spiaggia dell’isola di Tenerife il 3 agosto 2006 e soccorsi dai turisti. Le due immagini non solo si completano letteralmente, ma la nuova enfatizza e aggiorna terribilmente quella sottostante; e tanto è efficace il loro intarsio quanto lo è la quartina straziante di Brecht, racconto visionario anche della nostra tragica, quotidiana contemporaneità.

Un simile effetto di completamento sortisce anche il montaggio dell’immagine n. 49, composta dalla combinazione di due foto-trofeo. Quella a destra, scattata nella prigione di Abu Ghraib, completa il cadavere mostrato nella prima, ma con una distorsione raccapricciante della parte superiore del corpo che, a differenza di quella inferiore, risulta supina. Il completamento del cadavere ha richiesto qui una necessaria dislocazione della nuova fotografia al di fuori della cornice della prima, e perturbante è il dialogo non solo fra le due immagini, ma anche fra queste e la parte testuale.

B. Brecht, War Primer, 1998, n. 49A. Broomberg, O. Chanarin, War Primer 2, 2011, n. 49

La didascalia originaria, dal titolo An American and the Jap he killed, nella quale un militare americano spiega le dinamiche che l’hanno portato a sparare per legittima difesa a un soldato giapponese, è ancora presente nel margine inferiore della nuova fotografia. Interessante è però il significato che la frase posta in chiusura, «I killed him. It was just like in the movies», assume nel nuovo contesto, potendo riferirsi proprio alla posa macabra della soldatessa americana accanto al cadavere, alla inesauribile spettacolarizzazione della violenza, all’avida fascinazione nei confronti dello spettacolo della morte, che si esibisce spavaldamente just like in the movies fino a depotenziarne l’intrinseca terribilità.

 

We saw each other – it happened very fast –
I smiled, and both of them smiled back at me.
And so at first we stood and smiled, all three.
One pulled his gun. And then I shot him head.[45]
 
[Quando ci notammo – tutto finì presto –
Io sorrido e tutti e due rispondono con un sorriso.
Così sorridemmo tutti e tre in un primo tempo.
Poi uno prese la mira, e io lo uccisi].[46]

 

La fotografia n. 50 di War Primer 2 rappresenta probabilmente la più famigerata foto-trofeo di tortura di prigionieri iracheni da parte di soldati americani durante la guerra al terrore; si tratta dell’immagine, divenuta un’icona sedimentata nella memoria, dello Hooded Man, l’uomo incappucciato fotografato in piedi su una scatola di razioni alimentari e con dei fili elettrici collegati alla testa e ai genitali. In War Primer 2 lo Hooded Man viene sovrapposto grottescamente, in un montaggio in senso verticale, alla fotografia brechtiana della sexy carrot, o pin-up vegetable, così definita nella didascalia originaria che sovrasta l’immagine; carota dalle sinuose curve femminili pubblicata dalla redazione di «Life» allo scopo di tirar su di morale le truppe americane nel Pacifico.

B. Brecht, War Primer, 1998, n. 50A. Broomberg, O. Chanarin, War Primer 2, 2011, n. 50

Il montaggio di Broomberg e Chanarin sortisce l’effetto sia di una sottrazione di testo, essendo la didascalia del tutto coperta dalla nuova immagine, sia di irriverente, straniante completamento di un’immagine con l’altra e di loro reciproca risemantizzazione, in quello stridulo accostamento tra il corpo seducente della sexy carrot e quello inerme di Hooded Man, novella raffigurazione dell’Ecce Homo.[47] E altrettanto lacerante è il dialogo fra la nuova immagine scaturita dalla combinazione delle due, quasi una perturbante figura alata in procinto di prendere il volo,[48] e la quartina di Brecht, che nell’ultimo verso recita: «Una figura simile desta perfino un morto!».[49]

 

So you may have what you’ve been pining for
This sexy carrot might bring satisfaction.
A pin-up for your tent on distant shores!
They say such pictures rouse the dead to action![50]
 
[Perché anche voi abbiate ciò che vi piace,
questa figura di carota vi sia offerta in dono.
Vi aiuti a non morire nella tenda tropicale.
Una figura simile desta perfino un morto!][51]

 

Anche il fotoepigramma n. 81 rappresenta un altro interessante caso di montaggio verticale: l’enfasi oratoria di Hitler della foto originaria, sulla quale è impressa con funzione didascalica la data di nascita del dittatore, è affidata in gran parte al gesto quasi clownesco della sua mano che, tuttavia, sembra anche mimare il gesto di chi punta una pistola. Metodi di sterminio ben più massicci avrebbero tragicamente contraddistinto la politica del Führer, ma quel gesto involontario innesca l’immaginazione di Broomberg e Chanarin, che giustappongono alla fotografia di Hitler scelta da Brecht quella di un giovane israeliano neonazista che fa il gesto intimidatorio della pistola contro un religioso ebreo in un centro commerciale, risemantizzando la mimica di Hitler (fig. 10).

B. Brecht, War Primer, 1998, n. 81 A. Broomberg, O. Chanarin, War Primer 2, 2011, n. 81

Al cortocircuito innescato dall’accostamento delle due immagini si aggiunge la tensione dialettica che scaturisce dal rapporto fra la nuova fotografia e l’epigramma premonitore di Brecht, che recita:

 

That’s how the world was going to be run!
The other nations mastered him, except
(In case you think the battle has been won) –
The womb is fertile still from which that crept.[52]
 
[Per poco costui non dominava il mondo.
I popoli lo hanno fatto fuori. Ma intanto
non vorrei che voi celebraste il trionfo:
è ancora fecondo il grembo da cui è strisciato].[53]

 

Molti sono infine gli esempi di metapictures, ossia di fotografie che mostrano l’atto del fotografare o, più in generale, i casi di «annidamento»[54] di un medium dentro un altro come suo contenuto e in cui la fotografia è impiegata come dispositivo autoreferenziale per una riflessione su se stessa. Ci limitiamo qui a mostrare il fotoepigramma n. 12, uno degli esempi più interessanti di metapicture in War Primer 2:

B. Brecht, War Primer, 1998, n. 12 A. Broomberg, O. Chanarin, War Primer 2, 2011, n. 12

Nel testo di partenza è mostrata l’immagine di un soldato francese che, come commenta sarcasticamente la didascalia associata alla foto, viene ‘per gentilezza’ bendato dai tedeschi prima della sua fucilazione davanti a un muro. Sono i versi di Brecht a richiamare la funzione di monito della fotografia, e il suo potere di rendere visibile al mondo intero, tranne che al soldato privato della vista, la morte:

 

And so we put him up against a wall:
A mother’s son, a man like we had been
And shot him dead. And then to show you all
What came of him, we photographed the scene.[55]
 
[Lo abbiamo messo al muro: un uomo
come noi, figlio di una madre, per ammazzarlo.
E allo scopo di informare il mondo
ecco la foto che gli abbiamo fatto.][56]

 

In War Primer 2 ci troviamo chiaramente di fronte ad una metapicture che copre quasi del tutto la fotografia brechtiana, lasciando però ben visibile, oltre all’epigramma, anche l’originaria didascalia che Brecht aveva incorporato alla sua immagine. Della foto sottostante si intravedono soltanto i sottili bordi che diventano la cornice entro cui è incastonata la nuova foto. E questa mostra il corpo di un soldato iracheno ucciso, su cui i militari statunitensi, come previsto dalla procedura, puntano uno scanner biometrico portatile per rilevarne l’iride; la routinaria procedura bellica statunitense è del resto dettagliatamente spiegata nella nota in fondo al volume, alla quale è associato il link del sito Internet da cui l’immagine è stata ricavata. La fotografia riproduce dunque al suo interno un ulteriore dispositivo visuale, programmaticamente impiegato come strumento della guerra e delle sue macabre manovre; e l’ironia tragica della lirica di Brecht, associata ora alla nuova immagine, sta nel ribadire, anzi nel rafforzare la convinzione di un uso strumentale che la logica bellica fa del medium visuale, impiegato, tanto ora quanto ai tempi di Brecht, come dispositivo di controllo.

Gli esempi qui mostrati lasciano dunque supporre che può essere fuorviante, oltre che sterile, liquidare sbrigativamente questo fototesto come prodotto di un’appropriazione parassitaria di quello di Brecht; lo ribadisce Bernadette Buckley scrivendo che il termine «appropriation» è del tutto inadatto a dare conto del «clashing, dialectical, two-way process at work in the cross-fire between the two War Primers. […] After War Primer 2, Brecht’s Kriegsfibel is never quite the same, and vice versa».[57] La dialettica fra War Primer e War Primer 2 si gioca evidentemente sul piano del rapporto non solo fra verbale e visuale, ossia fra quartine liriche, didascalie (vecchie e nuove) e nuove immagini, ma anche fra le fotografie di Brecht e quelle di Broomberg e Chanarin, attraverso pratiche di aggiornamento, dialogo, rispecchiamento, intensificazione o integrazione reciproca, oppure di sfida, resistenza, scontro o, persino, di negazione e rovesciamento ermeneutico:[58] un continuo, plurivoco «echoing-confronting-contradictory movement» che, in alcune tavole, diventa un «crossfire»[59] fra le due opere, da cui scaturiscono molteplici effetti anche sui modi della loro ricezione.

War Primer 2 non è, anche sotto il profilo formale, una mera replica del modello brechtiano, quanto piuttosto una sua feconda rifrazione, una ricreazione inquieta che, rimodellandone il layout, ne dispiega al contempo nuove potenzialità ermeneutiche. La forma stessa di questo fototesto ne sostanzia e veicola il significato etico e politico: è il modo brechtiano di Broomberg e Chanarin per prendere posizione di fronte alle immagini, invitando il lettore a fare lo stesso, sollecitandone uno sguardo critico, indagatore. Perché «prendere posizione – compendia Didi-Huberman proprio a proposito del montaggio operato da Brecht nei suoi fototesti – equivale a prendere conoscenza. E tutto ciò avviene solo prendendo forma».[60]

 


1 F. Scianna, Lo specchio vuoto. Fotografia, identità e memoria, Bari, Laterza, 2017, p. 25.

2 In sodalizio artistico ormai più che ventennale, Adam Broomberg e Oliver Chanarin vivono e lavorano tra Londra e Berlino. Docenti di fotografia alla Hochschule für bildende Künste di Amburgo e alla Royal Academy of Arts a Londra, i loro lavori sono conservati presso le principali collezioni d’arte, pubbliche e private, tra le quali la Tate Modern, The Museum of Modern Art, lo Stedelijk Museum, il Victoria and Albert Museum, il Musée de l’Elysée. Nel 2013 sono stati insigniti del premio Deutsche Börse Photography Prize per il loro lavoro War Primer 2 e nel 2014 dell’ICP Infinity Award per il progetto Holy Bible. Per un elenco dettagliato e approfondimenti sul loro percorso artistico si rimanda al sito <http://www.broombergchanarin.com/>.

3 S.T. Coleridge, L’illusione drammatica. Lezione su Shakespeare e altri testi, a cura di G. De Luca, Pisa, ETS, 2010, p. 95.

4 Il debutto della mostra Divine Violence, curata da Walter Guadagnini e co-prodotta da Fotografia Europea, ArtesMundi e MOSTYN, è avvenuto all’interno del Festival Fotografia Europea 2014 di Reggio Emilia (cfr. W. Guadagnini, Adam Broomberg & Oliver Chanarin, Divine Violence, in E. Grazioli, R. Panattoni (a cura di), Fotografia Europea. Vedere. Uno sguardo infinito, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2014, pp. 113-119).

5 Forse non è inutile ricordare che Brecht è stato anche autore di un breve atto unico dal titolo La Bibbia, opera giovanile e primo testo teatrale da lui scritto, uscito sul numero 6, gennaio 1914 del giornale studentesco «Die Ernte» (Il raccolto), di cui Brecht era redattore insieme con Julius Bingen. Il breve testo è ora disponibile nella traduzione di G. Alati Fusco, con note e postfazione di V. R. Perrino (Pistoia, Edizioni Via del Vento, 2015).

6 B. Brecht, ‘Il processo dell’Opera da tre soldi’, in Id., Scritti sulla letteratura e sull’arte, trad. it. di B. Zagari, Torino, Einaudi, 1973, p. 71.

7 La traduzione italiana del passo si legge in F. Tucci, ‘L’arte di leggere le immagini. L’abicì della guerra di Bertolt Brecht’, in M. Cometa, R. Coglitore (a cura di), Fototesti, Macerata, Quodlibet, 2016, p. 230.

8 R. Berlau, ‘Prefazione’ a B. Brecht, L’abicì della guerra, trad. it. di R. Fertonani, Torino, Einaudi, 1972, senza numero di pagina.

9 Ragioni di spazio non consentono qui di approfondire adeguatamente la funzione centrale della didascalia sia nel pensiero di Brecht, sia in quello dell’amico Walter Benjamin, per i quali l’elemento testuale è strumento indispensabile per contrastare o frenare il potere mistificatorio e ingannevole delle immagini, il loro presunto realismo, la loro illusoria verità mimetica. Un ottimo riepilogo e stimolanti approfondimenti a riguardo si leggono in F. Fiorentino, ‘Brecht e la letterarizzazione della fotografia’, in F. Fiorentino, V. Valentini (a cura di), Brecht e la fotografia, Roma, Bulzoni, 2015, pp. 61-76; ma cfr. anche, nello stesso volume, D. Rusciano, ‘Uso politico e funzione sociale della fotografia’ (pp. 181-193), che non manca di riferire della riscrittura brechtiana di Broomberg e Chanarin, e gli altri interessanti saggi che indagano, da punti di vista e ambiti disciplinari diversi, il costante dialogo di Brecht con la fotografia.

10 G. Didi-Huberman, Quando le immagini prendono posizione. L’occhio della storia, a cura di F. Agnellini, Milano, Mimesis, 2018, p. 63.

11 B. Brecht, Diario di lavoro, trad. it. di B. Zagari, Torino, Einaudi, 1976, p. 149.

12 P. V. Brady, ‘From Cave-Painting to “Fotogramm”: Brecht, Photography and the Arbeitsjournal’, Forum for Modern Language Studies, 14, 3, 1978, p. 271.

13 G. Didi-Huberman, ‘Modest Masterpiece’, Art Press, 2, 5, 2007, p. 17.

14 Cfr. M. Cometa, ‘Kriegsfibel. Per una definizione del fototesto novecentesco’, in F. Fiorentino (a cura di), Brecht e i media, Roma, Istituto Italiano di Studi Germanici, 2013, p. 145.

15 Cfr. G. Didi-Huberman, Quando le immagini prendono posizione. L’occhio della storia.

16 Ivi, p. 56.

17 G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, trad. it. di D. Tarizzo, Milano, Cortina, 2005, p. 154.

18 Ivi, pp. 179-181.

19 Ci riferiamo soprattutto alle analisi di M. Cometa, ‘Fototesti. Per una tipologia dell’iconotesto in letteratura’, in V. Del Marco, I. Pezzini (a cura di), La fotografia: oggetto teorico e pratica sociale, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2011, pp. 63-101; Id., ‘Kriegsfibel. Per una definizione del fototesto novecentesco’, in F. Fiorentino (a cura di), Brecht e i media, pp. 135-163; Id., ‘Forme e retoriche del fototesto letterario’, in M. Cometa, R. Coglitore (a cura di), Fototesti, pp. 69-115.

20 Il titolo della mostra The Day Nobody Died seguita al rientro di Broomberg e Chanarin dall’Afghanistan è stato suggerito dagli stessi eventi bellici, che hanno registrato un numero regolare di morti su entrambi i fronti già dal primo giorno dell’arrivo dei due artisti in Afghanistan, fatta eccezione per il quinto giorno in cui non è morto nessuno.

21 THE DAY NOBODY DIED by Adam Broomberg & Oliver Chanarin Presented at the Barbican Art Gallery, 4th December 2008, <https://static1.squarespace.com/static/56e1e3e24d088e6834d4fbf4/t/591c35aa1b10e3b87a41d3e3/1495020971814/THE+DAY+NOBODY+DIED.pdf> [ultimo accesso 13 maggio 2019].

22 Ne rimane traccia nel docufilm The Day Nobody Died disponibile on line: <https://www.youtube.com/watch?v=HHLtElcCkZ8&t=585s> [ 13 May 2019].

23 THE DAY NOBODY DIED by Adam Broomberg & Oliver Chanarin Presented at the Barbican Art Gallery, 4th December 2008 <https://static1.squarespace.com/static/56e1e3e24d088e6834d4fbf4/t/591c35aa1b10e3b87a41d3e3/1495020971814/THE+DAY+NOBODY+DIED.pdf> [ultimo accesso 21 agosto 2019].

24 R. Coignet, ‘Une conversation avec Adam Broomberg & Oliver Chanarin’, Le Monde, October 2013.

25 Così li ha definiti Lucy Davies già nel titolo del suo articolo uscito il 29 marzo 2013 su The Telegraph <https://www.telegraph.co.uk/culture/photography/9955106/The-new-war-poets-the-photographs-of-Adam-Broomberg-and-Oliver-Chanarin.html> [ultimo accesso 17 maggio 2019].

26 B. Feuerhelm, ‘Interview to Broomberg & Chanarin’, ASX, April 2013 <http://www.americansuburbx.com/2013/05/asx-interview-broomberg-chanarin-divine-violence-2013.html> [ultimo accesso 31 marzo 2019].

27 Cfr. M. Cometa, ‘Kriegsfibel. Per una definizione del fototesto novecentesco’, pp. 135-163; J.J. Long, ‘Paratextual Profusion: Photography and Text in Bertolt Brecht’s War Primer’, Poetics Today, 29, 1, 2008, pp. 197-224; G. D. Fragapane, ‘La Kriegsfibel di Bertolt Brecht, una teoria negativa’, Rivista di studi di fotografia, 1, 2015, pp. 48-61; B. Buckley, ‘The Politics of Photobooks: From Brecht’s War Primer (1955) to Broomberg & Chanarin’s War Primer 2 (2011)’, Humanities, 7, 34, 2018, pp. 1-30.

28 Per le complicate vicende editoriali della Kriegsfibel cfr. G. Didi-Huberman, Quando le immagini prendono posizione. L’occhio della storia I, pp. 52-55; M. Cometa, ‘Kriegsfibel. Per una definizione del fototesto novecentesco’; T. Kuhn, ‘Beyond Death: Brecht’s Kriegsfibel and the Uses of Tradition’, in J. Hillesheim, M. Mayer, S. Brockmann (a cura di), Brecht and Death, Madison, University of Wisconsin Press, 2007, pp. 69-89.

29 B. Buckley, ‘The Politics of Photobooks: From Brecht’s War Primer (1955) to Broomberg & Chanarin’s War Primer 2 (2011)’, pp. 3-4.

30 G. Didi-Huberman, ‘Modest Masterpiece’, p. 17.

31 J.J. Long, ‘Paratextual Profusion: Photography and Text in Bertolt Brecht’s War Primer’, p. 206.

32 Alla prima edizione del 2011, pubblicata dall’editore MACK a tiratura limitata di 100 copie, ha fatto seguito un’edizione digitale scaricabile gratuitamente dal sito dei due artisti, arricchita da un corposo apparato di interventi critici e, nel 2018, una nuova edizione a cura dello stesso editore.

33 B. Brecht, War Primer, translated and edited, with an Afterword and notes by John Willett, London, Libris, 1998.

34 R. Somerstein, ‘Image, Author, Failure, Chance: A Conversation with Adam Broomberg and Oliver Chanarin’, Afterimage, 2014; 41, 6, p. 14 <http://www.broombergchanarin.com/text-image-author-failure> [ultimo accesso 27 aprile 2019].

35 J. Ladd, The Holy Bible, Appropriated: An Illustrated Scripture by Broomberg and Chanarin, 6 giugno 2013 <http://time.com/3800126/the-holy-bible-appropriated-an-illustrated-scripture-by-broomberg-and-chanarin> [ultimo accesso 27 aprile 2019].

36 Questa traduzione è stata peraltro ripubblicata nel 2017 dall’editore Verso, stravolgendo tuttavia le rigorose regole di impaginazione: basti dire, limitandosi ad una delle differenze macroscopiche, che è stata eliminata sistematicamente la pagina bianca a sinistra contenente solo il numero dell’immagine, i titoli o le didascalie, ed entrambe le pagine sono state riempite di una successione senza sosta di fotoepigrammi a sfondo bianco.

37 Si legge in B. Brecht, Scritti sulla letteratura e sull’arte, pp. 118-131.

38 Per una teoria dettagliata delle forme e delle funzioni dell’ekphrasis cfr. M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Milano, Cortina, 2012.

39 Cfr. S. Skinner, ‘Split/Subject - Notes on War Primer 2’, in A. Broomberg, O. Chanarin, War Primer 2, London, Mack, 2011, pp. 281 e sgg.

40 B. Brecht, War Primer, p. 51.

41 B. Brecht, L’Abicì della guerra, p. 42.

42 M. Cometa, ‘Forme e retoriche del fototesto letterario’, p. 90.

43 B. Brecht, War Primer, p. 3.

44 B. Brecht, L’Abicì della guerra, p. 3.

45 B. Brecht, War Primer, p. 49.

46 B. Brecht, L’Abicì della guerra, p. 40.

47 Si rimanda, per la lettura in chiave cristologica della figura dello Hooded Man e per altre sollecitanti questioni relative a quell’immagine a W.J.T. Mitchell, Cloning terror. La guerra delle immagini dall’11settembre a oggi, a cura di F. Gori, Lucca, La casa Usher, 2012.

48 Cfr. S. Skinner, ‘Split/Subject - Notes on War Primer 2’, pp. 276-277.

49 B. Brecht, L’Abicì della guerra, p. 41.

50 B. Brecht, War Primer, p. 50.

51 B. Brecht, L’Abicì della guerra, p. 41.

52 B. Brecht, War Primer, p. 81.

53 B. Brecht, L’Abicì della guerra, p. 69.

54 W.J.T. Mitchell, Pictorial Turn. Saggi di cultura visuale, a cura di M. Cometa e V. Cammarata, Milano, Cortina, 2017, pp. 73-75, 133, già in Id., Picture Theory: Essays on Verbal and Visual Representation, Chicago, University of Chicago Press, 1994, pp. 35-81.

55 B. Brecht, War Primer, p. 12.

56 B. Brecht, L’abicì della guerra, p. 12.

57 Ivi, p. 22.

58 Cfr. M. Cometa, ‘Forme e retoriche del fototesto letterario’, p. 78 e ssg.

59 B. Buckley, ‘The Politics of Photobooks: From Brecht’s War Primer (1955) to Broomberg & Chanarin’s War Primer 2 (2011)’, pp. 2-3.

60 G. Didi-Huberman, Quando le immagini prendono posizione. L’occhio della storia, p. 84.