Riprese audio-video: Francesco Pellegrino, Ana Duque; fotografia: Francesco Pellegrino; foto di scena: Salvo Grasso; montaggio: Ana Duque.

Qui di seguito la trascrizione integrale dell’intervista.

 

D: Il numero di Arabeschi che ospita questo ‘videoincontro’ è incentrato principalmente sull’idea di trasformazioni fisiche, di metamorfosi del corpo. A questo proposito, schematizzando, si potrebbe forse distinguere tra un tipo di trasformazioni corporee che potremmo definire ‘di oppressione’, di tipo verticale, subìte dal corpo (un esempio su tutti è il Salò di Pasolini), e un altro tipo di trasformazioni corporee che potremmo invece definire ‘di liberazione’, dunque non subìte ma agite dal corpo stesso (pensiamo magari all’idea della peste in Artaud). Tale polarità potrebbe essere una delle chiavi del tuo teatro, cioè mi sembra che queste due forze di trasformazione fisica e di azione sui corpi e dei corpi sia costantemente presente sulle tue scene. In che modo pensi che questo avvenga nel tuo teatro, sia nel risultato dei tuoi spettacoli che, si potrebbe aggiungere, nel processo creativo, ossia nel rapporto tra azione coercitiva della regia che permette l’azione liberatoria del corpo dell’attore?

R: Ci sono sicuramente due processi che sono legati anche al tempo in cui si protrae l’intenzione di far vivere gli spettacoli. Due tempi: il tempo della creazione e il tempo della vita dello spettacolo. Io faccio un teatro di repertorio, quindi quando nascono i miei spettacoli mi auguro che vivano per almeno dieci anni e così in alcuni casi è stato. Questo cosa significa? Che nel corso di dieci anni i corpi degli attori che li fanno cambiano, quindi non è soltanto un cambiamento legato alla creazione di quello spettacolo ma anche alla vita, al processo di invecchiamento di quello spettacolo, perché il corpo in quel tempo invecchia, quindi la qualità del movimento cambia. Non dico che peggiora, anzi a volte si affina, si mette a punto, diventa ancora più incisiva. Sicuramente quando io lavoro con i miei attori chiedo sempre loro un grande sforzo, legato proprio alla ricerca di un gesto non naturale, che però deve diventare naturale. Questo è molto difficile, forse li mette in una condizione di ‘prigione’ del corpo: sicuramente per arrivare a questa naturalezza è necessario stare dentro dei paletti, dentro un recinto. Però poi, dopo, risulta ‘liberatorio’, quindi alla fine del processo di creazione loro sono liberi. Eppure non lo sono stati durante la creazione, durante la genesi.

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  • Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino →

 Nel 2002, nell’ambito del progetto Children in Need finanziato dall’associazione non governamentale Amref, Marco Baliani parte per Nairobi, dove comincia a dirigere un laboratorio teatrale con un gruppo di ragazzi provenienti dalle bidonville del quartiere Dagoretti, uno dei più svantaggiati della città.

Si spiega così la scelta di Pinocchio come filo conduttore degli esercizi teatrali proposti da Baliani, durante i quali i ragazzi non soltanto apprendono i rudimenti del mestiere di attore, ma provano anche a mettere in comune le proprie dolorose storie di vita, usando la marionetta collodiana come doppio fittizio e maschera protettiva. Le dis/avventure di Pinocchio, infatti, somigliano straordinariamente alle loro. Pinocchio è un legno di scarto da cui mastro Ciliega vorrebbe ricavare una gamba di tavolino e che Geppetto trasforma, invece, in un burattino, pensando di trarne qualche guadagno. Pinocchio è un marginale, povero, affamato, analfabeta, senza origine. Irriverente e svogliato, ma anche privo di qualsiasi arma di difesa contro gli adulti che vorrebbero approfittare di lui, dopo essere stato ripetutamente ferito, umiliato, ingannato, derubato, sbattuto in prigione senza motivo, trasformato in asino, in cane da guardia, venduto a diversi padroni, dato in pasto ai pesci, quasi fritto in padella e persino impiccato a un albero dai suoi truffatori, si decide, infine, a lavorare duramente di giorno e a studiare autonomamente di notte per modificare la propria condizione sociale e quella del suo vecchio padre. Mentre la libertà iniziale del burattino in costante ribellione contro qualsiasi forma di autorità si rivela apparente, sfociando in diverse forme di schiavitù, la sottomissione finale alle norme sociali diventa paradossalmente la condizione per diventare un ‘vero ragazzo’, un soggetto libero e autonomo. È questa dialettica tra controllo e autonomia, tra norme e trasgressione, tra emancipazione e asservimento, già presente nel romanzo di Collodi, che lo spettacolo Pinocchio nero – messo in scena nel 2004 al termine di un percorso formativo di due anni – rende ulteriormente esplicita, usando la storia di Pinocchio come allegoria dei processi di assoggettamento/soggettivazione dei subalterni e trasformando il palcoscenico in una vera e propria soglia tra la vita e la finzione. Dopo essere stato presentato in diversi teatri di Nairobi e, in particolare, nel quartiere Dagoretti, il capolavoro di Collodi, rivisitato da Baliani e dai suoi ragazzi, torna al paese di origine in una forma che ricorda il talking back postcoloniale, affinché il pubblico italiano possa reinterpretare questo classico e vedervi inscritto non soltanto un percorso di normalizzazione dei ribelli e marginali come Pinocchio, ma anche un messaggio di emancipazione sociale e culturale per i subalterni.

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