Videointervista a Emma Dante

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Il 2 settembre 2017 la redazione di Arabeschi ha incontrato Emma Dante in un luogo immerso nella Sud costa occidentale della Sicilia, perfetta incarnazione del carattere aspro, sanguigno e vitale delle sue scritture sceniche. La conversazione con l’artista si è snodata intorno al motivo delle metamorfosi del corpo, fra teatro, opera e cinema, tema-cardine di questo numero monografico e radice centrale della ricerca di Dante. L’intervista restituisce così un ritratto a tutto tondo del metodo registico dell’autrice e offre una viva testimonianza della tensione metamorfica delle sue bestie di scena.

 

Riprese audio-video: Francesco Pellegrino, Ana Duque; fotografia: Francesco Pellegrino; foto di scena: Salvo Grasso; montaggio: Ana Duque.

Qui di seguito la trascrizione integrale dell’intervista.

 

D: Il numero di Arabeschi che ospita questo ‘videoincontro’ è incentrato principalmente sull’idea di trasformazioni fisiche, di metamorfosi del corpo. A questo proposito, schematizzando, si potrebbe forse distinguere tra un tipo di trasformazioni corporee che potremmo definire ‘di oppressione’, di tipo verticale, subìte dal corpo (un esempio su tutti è il Salò di Pasolini), e un altro tipo di trasformazioni corporee che potremmo invece definire ‘di liberazione’, dunque non subìte ma agite dal corpo stesso (pensiamo magari all’idea della peste in Artaud). Tale polarità potrebbe essere una delle chiavi del tuo teatro, cioè mi sembra che queste due forze di trasformazione fisica e di azione sui corpi e dei corpi sia costantemente presente sulle tue scene. In che modo pensi che questo avvenga nel tuo teatro, sia nel risultato dei tuoi spettacoli che, si potrebbe aggiungere, nel processo creativo, ossia nel rapporto tra azione coercitiva della regia che permette l’azione liberatoria del corpo dell’attore?

R: Ci sono sicuramente due processi che sono legati anche al tempo in cui si protrae l’intenzione di far vivere gli spettacoli. Due tempi: il tempo della creazione e il tempo della vita dello spettacolo. Io faccio un teatro di repertorio, quindi quando nascono i miei spettacoli mi auguro che vivano per almeno dieci anni e così in alcuni casi è stato. Questo cosa significa? Che nel corso di dieci anni i corpi degli attori che li fanno cambiano, quindi non è soltanto un cambiamento legato alla creazione di quello spettacolo ma anche alla vita, al processo di invecchiamento di quello spettacolo, perché il corpo in quel tempo invecchia, quindi la qualità del movimento cambia. Non dico che peggiora, anzi a volte si affina, si mette a punto, diventa ancora più incisiva. Sicuramente quando io lavoro con i miei attori chiedo sempre loro un grande sforzo, legato proprio alla ricerca di un gesto non naturale, che però deve diventare naturale. Questo è molto difficile, forse li mette in una condizione di ‘prigione’ del corpo: sicuramente per arrivare a questa naturalezza è necessario stare dentro dei paletti, dentro un recinto. Però poi, dopo, risulta ‘liberatorio’, quindi alla fine del processo di creazione loro sono liberi. Eppure non lo sono stati durante la creazione, durante la genesi.

 Bestie di Scena, regia Emma Dante, produzione Piccolo Teatro di Milano. Foto ©Masiar Pasquali

D: Bestie di scena – uno spettacolo per certi aspetti ‘inusuale’ e anche ‘isolato’ nella tua carriera, dato che sospende momentaneamente (o apparentemente) ogni idea di narrazione – mette in campo un evidente processo di mutazione dei corpi: da esseri viventi ad automi, da esseri umani appunto a bestie, da persone a marionette, da corpi vestiti nella vita a corpi nudi sulla scena. Elementi che hanno anche portato a critiche negative, forse derivanti da letture superficiali dello spettacolo. Ti andrebbe di raccontarci invece che tipo di processo hai messo in atto in questo caso e in che modo la scena trasforma quelle nudità, quegli automatismi e quella perdita di vita in qualcos’altro che ci racconta al contempo della condizione del teatro e della condizione dell’essere umano?

R: In Bestie di scena è successo proprio quello che lo spettatore non vede: è lo spettacolo che racconta il momento prima dello spettacolo. Diciamo che è anomalo come processo, perché è uno spettacolo che non arriva veramente mai a una compiutezza, a una definizione di qualcosa, sfugge continuamente sia alla comprensione dello spettatore che a quella degli attori che lo fanno. Quindi è una specie di momento primordiale della creazione, dove ognuno di loro cerca di arrivare a uno stato brado, a uno stato animalesco appunto, grazie agli stimoli che arrivano dalle quinte, dall’alto, dai lati, e anche allo sguardo insistente dello spettatore. Devono fare i conti con una serie di stimoli, che sono anche degli ostacoli, delle sollecitazioni che subiscono continuamente e che non fanno altro che metterli in una condizione di creatività. Tutto quello che arriva da fuori è doloroso ma è creativo: sono elementi che spingono questi corpi a misurarsi con la nascita di un verso, di un gesto… Quindi Bestie di scena è prima di tutto per me: è prima del teatro, è prima della definizione di uno spettacolo, è prima di un testo, è prima di una storia, è prima di un personaggio, di un costume… è prima! È l’attimo in cui l’attore si sveste: è nudo e deve mettersi il costume ma non se lo mette, almeno non davanti ai nostri occhi (se lo metterà forse in un altro momento ma noi non lo vediamo).

 La scortecata © Festival di Spoleto / ph.MLAntonelli-AGF

D: La scortecata nasce da un testo (Lo Cunto De Li Cunti di Giovan Battista Basile) nel quale le trasformazioni in generale, e quella corporea in particolare, sono uno dei temi fondamentali. Inoltre La vecchia Scorticata, il racconto dal quale hai tratto la tua opera teatrale, è forse quello in cui il tema della trasformazione corporea è più centrale (tanto da dare il titolo al racconto stesso): sia una trasformazione dovuta all’intervento dell’uomo (tutti i mezzi che le due sorelle escogitano per ringiovanire il corpo di quella che dovrà presentarsi al principe o l’azione finale del barbiere sull’altra sorella), che una trasformazione per mezzo di interventi magici (la trasfigurazione da donna anziana a giovane fanciulla per opera delle fate). Tutto questo tu lo utilizzi attraversando un’ulteriore trasformazione corporea, di tipo teatrale, ricorrendo cioè esclusivamente a due corpi maschili. Come mai e in che modo, dunque, hai scelto di lavorare su un racconto nel quale l’intera trama è dominata da quest’idea della mutazione fisica e di farlo attraverso la mutazione di tutti i personaggi nei corpi maschili dei due interpreti?

R: Intanto La scortecata nasce dopo Bestie di scena e già mi rincuora sapere che dopo Bestie di scena ci sia qualcos’altro! Perché quando ho fatto Bestie di scena mi sono detta: “Che cosa faccio dopo?” Poi è arrivata La scortecata e ho capito che Bestie di scena forse era lo step precedente: dopo Bestie di scena c’è il vestire i corpi e, oltre che vestirli, deformarli, mandare in profondità quel discorso che facevamo a proposito di Bestie di scena per vedere quale può essere il risultato. E il risultato è questo groviglio di personaggi che stanno tutti incarnati in due corpi maschi che in realtà interpretano la parte di due vecchie: è stato un procedimento comunque molto interessante. La scortecata parte da un testo, questa favola molto bella che è scritta da Basile, che ha un sacco di richiami favolistici e io adoro le favole, credo che siano il fondamento della nostra cultura e della nostra formazione intellettuale, anche perché le favole sono dei miti e noi con il mito abbiamo sempre a che fare. È una storia che ha un sacco di aperture ‘sublimi’: non è solo una fiaba orribile anche perché racconta la storia di uno stato della vita molto difficile che è quello della vecchiaia, della non accettazione del fatto che la vita sta finendo, che il corpo se ne sta andando in una direzione assolutamente improbabile, innaturale. Perché la vecchiaia è uno stato della vita innaturale, come lo è la nascita: si nasce, ma si nasce in un modo ‘bestiale’, orribile; non ha niente di poetico in sé l’atto della nascita. Il neonato, che si piscia, si caga, non fa altro che fare delle cose assolutamente animalesche, bestiali, che non hanno niente a che fare con quello che sarà poi la sua vita da adulto, da ‘persona’ insomma. Non sono persone i neonati e non sono persone i vecchi: hanno qualcosa di impersonale, qualcosa che li fa assomigliare molto in queste fasi ‘innaturali’ della vita. Quindi ho pensato che queste due vecchie dovessero raccontare tutta questa innaturalezza. E i corpi di due maschi giovani – perché sono comunque giovani Carmine e Salvatore – si curvano, dirigono lo sguardo verso il basso e non di fronte, e questo fa anche un po’ pensare alle maschere della Commedia dell’Arte, a questo antico modo di accentuare i difetti, di deformare il corpo per raccontare un sentimento… Ecco questa cosa qui si è sposata benissimo con la fiaba di Basile. Perché Basile, in realtà, è il poeta più scurrile che esista, il poeta della volgarità, e allora mi sono trovata questo modo di rappresentarlo che sembrava consono. Le due vecchie, in realtà, si raccontano questa storia: non esisteva nessun principe e tutto quello che loro fanno è un modo per passare il tempo e per accettare, o comunque per non pensare, a questo stato innaturale della fine della loro vita, a questo essere decrepite e brutte, quasi con il fetore della decomposizione nella loro casa, perché comunque sono due vecchie di novant’anni. Questi personaggi, questo ‘Cerbero mitologico’, mi hanno molto ispirata.

 La scortecata © Festival di Spoleto / ph.MLAntonelli-AGF

D: Continuando a parlare di trasformazioni, di corpi e di processi teatrali, ti andrebbe di dirci in che rapporto stanno nel tuo teatro due elementi chiave come la parola e il corpo? Ossia quanto questa lingua così forte, condizionante, fisica trasforma i corpi degli attori attraversati dalle parole nel passaggio dalla pagina alla scena e quanto quei corpi trasformino le parole e la lingua nata sulla carta?

R: Nel caso di Basile la storia c’era già: io l’ho riscritta e poi, lavorando con gli attori, è cambiata sicuramente, ma c’era già. Di solito, invece, quando lavoro ai miei spettacoli non parto mai dal testo, partiamo sempre dalle improvvisazioni, dal lavoro sul training, dal lavoro fisico per cercare i personaggi. Prima arrivano i personaggi, prima arriva il loro modo di guardare, di guardarsi, di relazionarsi e poi arriva il testo. La storia è l’ultimo tassello di tutto il processo, per cui a volte mi ritrovo dei personaggi di cui non so che fare. Mi è capitato qualche volta: i famosi personaggi in cerca di una storia me li sono ritrovati anche io. E poi, alla fine, me li sono tenuti, perché non abbandoni mai un personaggio, un po’ come i figli adottivi (tra l’altro io ho un figlio adottivo quindi so di che cosa sto parlando). Arrivano perché sono arrivati da un processo fisico, di improvvisazioni, e arrivano molto precisi. Alcuni si impongono e io me li tengo e cerco di interrogarli, come una specie di intervista: a volte mi metto proprio a tu per tu col personaggio che ho trovato e, chiaramente, l’attore deve essere bravo a giocare con me in questa cosa. Li interrogo e, man mano che li interrogo, vengono fuori le storie. Le prove dei miei spettacoli durano anni. Io non provo mai uno spettacolo per due mesi e poi vado in scena. Non succede mai. C’è tutta una fase preparatoria, che di solito dura un anno e mezzo o due anni, in cui, appunto, si fanno i conti con queste vite che arrivano, con questi personaggi, con questa casa che bisogna trovare loro, con l’interrogazione sul luogo in cui stanno, sulla storia che raccontano… Ovviamente io so prima di cosa voglio parlare, non dico che la cosa di cui voglio parlare nasce casualmente: la so prima, però ci metto due anni per focalizzarla e per strutturarla.

 Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, Tavola di Maria Cristina Costa La cenerentola, regia di E. Dante, produzione Teatro dell’opera di Roma ®Yasuko-Kageyama

D: La tua carriera di drammaturga e regista, nel corso degli anni, si è sviluppata quasi esclusivamente attraverso testi sorti da storie e trame originali, senza alcuna origine letteraria preesistente (eccezion fatta per Tommaso Landolfi e, adesso, per Basile e per l’Odissea). Eppure, in particolare in due ambiti diversi, ti sei misurata con dei classici e, potremmo dire ancora una volta, con la loro metamorfosi: in scena con le regie liriche e sulla pagina con le riscritture delle favole. Due rielaborazioni radicalmente differenti: le prime esclusivamente sceniche e visive, le seconde, invece, linguistiche e anche stilistiche, dal momento che ne fai delle vere e proprie drammaturgie. In che modo hai lavorato, dunque, nei due differenti ambiti e nelle due differenti ‘metamorfosi di classici’? Ossia cosa hai portato nel mondo della lirica del tuo teatro e delle sue azioni e cosa nella favola del tuo linguaggio e, inoltre, in che modo hai lavorato in questo caso con l’illustratrice Maria Cristina Costa?

R: Il processo di pubblicazione dei libri è arrivato dopo gli spettacoli: prima sono nati gli spettacoli e poi sono arrivati i libri. E le illustrazioni di Maria Cristina sono totalmente infedeli agli spettacoli, nel senso che lei non li ha assolutamente imitati ma si è fatta trasportare e sollecitare dai testi, dalle riscritture che io avevo fatto delle favole, e poi ha messo il suo mondo dentro. Questo lavoro di riscrittura delle favole per bambini è una cosa che faccio sempre di meno, perché non ho più tempo, perché mi dedico ad altre cose: sono arrivata a un punto della vita in cui preferisco fare di meno. Finché uno è giovane ha tante idee, io comincio invece ad avere un’esigenza di silenzio intorno a me e da parte mia: cerco di essere un po’ più adulta in questo, meno naïf. Cerco di fare meno, anche se poi faccio sempre un sacco di cose! Comunque, le favole che ho riscritto, le opere liriche, l’Odissea (con gli allievi della mia scuola), le tragedie greche le ho sempre un po’ riscritte stravolgendo delle cose. Le opere liriche purtroppo non le posso riscrivere perché ci sono questi libretti improbabili, in cui metterei volentieri le mani ma non posso farlo perché sono vincolati dalla musica e io mi danno perché non so mai come sia possibile che ci siano queste storie che fanno acqua da tutte le parti, alle quali non credi neanche un minuto. Quindi mi invento tutta una serie di simbologie, cerco appunto di riscrivere i libretti e le opere liriche alla mia maniera, usando il teatro, cioè usando le relazioni di personaggi che magari non sono nel libretto e che io ci metto, oppure attraverso cose che non sono dette ma che sono visive. In questo mi aiuta molto il mio teatro, perché faccio un teatro di composizione, fisico, carnale, per cui, non facendo un teatro di parola ma un teatro che parte dalla pancia, dalle viscere, quando metto in scena le opere liriche per me è più facile recuperare questo tipo di scrittura, che è una scrittura scenica. Quindi riscrivo anche le opere liriche, in questo senso. Per esempio nella Carmen – che è la mia prima opera lirica e che, come saprete, ha destato grande scalpore e ha sconvolto perfino Zeffirelli e i cardinali – c’erano cose che nel libretto non esistevano: il prete, che è la guida di Micaela, non esiste; Micaela vestita da sposa che si porta dietro il prete e i chierichetti perché ogni volta che incontra Don Josè ne approfitta e magari lui ci cade, le dice di sì, e lei è pronta per sposarlo; Carmen che arriva sempre circondata da queste tre zingarelle bambine a cui insegna il mestiere. Perché le zingare fanno questo: sono sempre circondate dai bambini, perché i bambini ancora molto piccoli devono già mantenere le famiglie e fare il lavoro che dei grandi, che sono grandi fino a venticinque anni. A venticinque anni gli zingari si fermano, perché sono i figli, poi, a fare per loro. Allora tutto questo io ce l’ho messo, in una storia in cui non era assolutamente previsto. Per cui riscrivo anche le opere liriche, senza toccare i libretti e senza toccare le note, perché quelle non le posso toccare.

 Via Castellana Bandiera, regia di E. Dante, 2013

D: Proseguendo con la parentesi non strettamente legata all’ambito teatrale, è interessante un breve sguardo sul tuo cinema e sulle versioni televisive dei tuoi spettacoli. Nel cinema hai lavorato alla trasposizione del tuo romanzo Via Castellana Bandiera e adesso alla trasposizione di un tuo spettacolo, Le sorelle Macaluso. In che modo si ha una trasformazione del romanzo e dello spettacolo attraverso il filtro della macchina da presa e del montaggio e in che modo il contatto mediato coi corpi li modifica rispetto alla scena? E, ancora, in che modo un tuo spettacolo viene modificato dal passaggio alla ripresa televisiva, in che modo viene smontato o rimontato e quanto perde o guadagna rispetto alla possibilità di vederlo dal vivo?

R: Alle regie televisive degli spettacoli io non ci credo, non ci ho mai creduto, tranne se le fa il regista, come nel caso di Eduardo. I film di Eduardo non sono gli stessi che lui faceva a teatro, perché lui li modificava. Per cui faceva un lavoro d’autore con un altro mezzo. Quando io faccio gli spettacoli e altri registi curano l’adattamento per la televisione non è la stessa cosa: è un’operazione che non restituisce nulla, è soltanto una cosa da archiviare e che può servire magari un domani come studio. Non è una cosa che può emozionarti o nella quale puoi ritrovare qualcosa dello spettacolo. Non ritrovi niente: è completamente un’altra storia.

Invece il cinema è diverso: il cinema io lo scrivo per il cinema. In questo senso il romanzo è stato un testo di servizio, perché io non scrivo romanzi – infatti non ne ho mai più scritti e mai più ne scriverò –; l’avevo scritto pensando al film, serviva per arrivare al film. Io non avevo mai fatto cinema e, quindi, quando me lo chiesero dissi che c’era questa storia che volevo fare diventare un film, poi arrivò Giorgio Vasta e, insieme a lui, lasciandoci il romanzo alle spalle, abbiamo scritto la sceneggiatura di Via Castellana Bandiera che all’inizio era un kolossal, aveva circa 350 scene, peggio di Via col vento. Quando poi arrivò il terzo personaggio, il revisore, disse: “Ragazzi, chiudiamoci una settimana in una stanza e cerchiamo di capire che cos’è!” – e ridimensionò il tutto. Né io né Giorgio avevamo mai scritto una sceneggiatura, per cui ci siamo ritrovati a essere anche troppo precisi nelle descrizioni. Giorgio, poi, è uno dei più grandi scrittori italiani contemporanei, una persona che ha delle capacità straordinarie nel descrivere un luogo, uno stato d’animo, nel far parlare i personaggi. Adesso che stiamo scrivendo il secondo film, col senno di poi sappiamo che alcune cose dobbiamo farcele un po’ scivolare, perché il cinema è un’altra cosa. Però è molto affascinante, perché è totalmente diverso dal teatro. Anche se per Via Castellana Bandiera io feci delle prove con gli attori nel mio spazio prima di girare. Girammo con la macchina da presa a spalla, per cui l’operatrice, Clarissa Cappellani, fece un mese di prove insieme a me e agli attori, diventando lei stessa un’attrice che si intrufolava nella casa e che sapeva già dove andare durante le scene, lei faceva parte di questa famiglia. Quindi diciamo che, da questo punto di vista, il modo di cercare e di stare insieme ai personaggi c’è stato anche per il film, ma in un’altra maniera.

 Le sorelle Macaluso © Carmine Maringola

D: Mi sembra possa essere interessante un accenno agli spazi che nel tuo teatro sono quasi costantemente generatori di queste trasformazioni. Come ne La cognizione del dolore di Gadda, nel tuo teatro – dalle due trilogie a La scimia, da Mishelle di Sant’Oliva a Le Sorelle Macaluso, fino ad arrivare a Odissea A/R – sembra che il contesto domestico e familiare sia contemporaneamente eremo-rifugio e prigione-tomba, un po’ come i due differenti tipi di trasformazione corporea di cui dicevamo prima. Ti va di dirci un po’ di questa dualità, del rapporto tra luci e ombre che sta alla base della tua visione di questi contesti, come dell’idea di radice e di origine?

R: La famiglia è stata sempre, fin dall’inizio, il luogo e il tempo dove tutto accade. La casa è la famiglia. Non esiste una casa ma esiste la famiglia, per cui tutti i miei spettacoli sono quasi sempre vuoti, perché sono riempiti dalle relazioni di questi personaggi, da questi legami anche morbosi, a volte perfino violenti. Nella famiglia c’è l’inizio di tutto e quindi è il luogo migliore da esplorare; anche Le sorelle Macaluso è il posto dove tutto nasce e tutto muore e non c’è un confine tra le due cose. Soprattutto chi muore non se ne va ma rimane e chi è vivo è già morto. E ci sono tante famiglie così, che poi sono le famiglie che interessano me: io non racconto mai famiglie borghesi. Le famiglie che mi interessano sono le famiglie in cui è necessario fare riemergere a galla tutta la merda.

Questo luogo è anche il luogo del divertimento e non solo della sofferenza: c’è sempre un lato grottesco, quasi caricaturale, che è molto forte, quasi come contrasto con la tragedia che sta sempre sotto, che sempre aleggia ed è sempre presente. Questo è il chiaro-scuro che io cerco continuamente. E non è mai un grigio, perché il grigio è la borghesia, è quel non colore che appiattisce. Almeno nell’apparenza, perché è chiaro che poi ognuno nella propria stanzetta, nella sua no man’s land è quello che è. Le famiglie grigie a me non interessano. Mi interessano invece queste famiglie che hanno il bianco e il nero, lo scuro e il chiaro e, appunto, nelle quali c’è questo piano da cui vengono fuori i morti e i vivi insieme, questo incesto promiscuo e pericoloso.

 Emma Dante © Salvo Grasso

D: Il presente del teatro, naturalmente, è – forse in minima parte – il risultato di un secolo di innovazioni, rivoluzioni e avanguardie. Tornando dunque allo specifico teatrale e alle esperienze più rilevanti che hanno attraversato il Novecento, quali di queste pensi possano ancora essere un punto di riferimento, uno stimolo a un lavoro di un certo tipo, una fonte alla quale attingere e, dunque, quali pensi rappresentino anche per te in qualche modo un riferimento?

R: Quello che sicuramente potrebbe aiutare tantissimo oggi nel teatro è quel lavoro antico che faceva anche Eduardo, che è il lavoro della compagnia, del gruppo, dell’ensemble. Quello che faceva Grotowski quando si chiudeva nelle sue ‘segrete’ con gli attori per poi, a un certo punto, decidere addirittura di non esibirsi più, cosa naturalmente estrema. Stessa cosa Kantor: tutte esperienze d’ensemble. È chiaro che il leader c’è sempre, perché senza Kantor non c’è più il teatro di Kantor! Senza Grotowski si fa fatica: certo poi ci sono i figli, gli eredi, però non è la stessa cosa. Senza Eduardo non c’è il teatro di Eduardo. Però il teatro di Eduardo vive di quella necessità che lui aveva di scrivere per la propria famiglia. Non parlo della sorella o del fratello, col quale a un certo punto litigò pure, ma della famiglia degli attori, dei teatranti, che lo spronavano, come fu per Shakespeare, che scriveva per i suoi attori. Eduardo scriveva non solo per la gloria, ma anche per mangiare, per il pane. La cosa che sento oggi come mancanza e alla quale servirebbe tornare è quell’idea del concentrarsi sul percorso più che del cercare una soluzione. È una cosa che ha che fare appunto con chi, dentro il laboratorio, sta facendo un esperimento e gli esplode una provetta in faccia. Questo è importante: l’esplosione. Non cercare l’antidoto, la medicina, ma stare dentro il pericolo. Poi ci sono dei personaggi del ’900 come Carmelo Bene o Artaud di cui non possiamo fare assolutamente a meno. Sono dei personaggi che hanno cambiato la storia del teatro ma anche della letteratura. Però penso che in questo momento servirebbe più un lavoro d’ensemble, di unione, di comunità.

D: In un’epoca nella quale la scena contemporanea è stata investita e riempita da linguaggi non specificamente teatrali (dalla videoarte al prevalere del visivo sulla parola e sulla corporeità attoriale, ad esempio), il tuo teatro ritrova quasi una dimensione artigianale. Sembra allora che questi linguaggi, che in altre esperienze irrompono in modo diretto, in te agiscano in modo sotterraneo modificando però lo specifico teatrale che tu porti sul palco. Quali sono stati – e quali sono – i riferimenti letterari, visivi, musicali che hanno agito sul tuo immaginario e che magari non appaiono in modo del tutto manifesto?

R: Ci sono ma non in assoluto. A seconda dei periodi, del tema che sto trattando, del progetto. Ci sono dei momenti in cui mi innamoro di un artista e dei momenti in cui mi innamoro di un altro. Per esempio in Bestie di Scena c’è un dipinto di Masaccio, che è la Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso, che a un certo punto è stato folgorante: dopo aver lavorato sul gesto di coprirsi i seni, i genitali e gli occhi, ho ritrovato questo dipinto che avevo nel DNA, come un sacco di cose che abbiamo nel DNA e che dobbiamo semplicemente ripescare. A volte, ad esempio, succede il contrario: vedo una cosa, leggo un libro, vedo un film, guardo un quadro e da lì nasce il desiderio di lavorare sul tema che sto trattando in una maniera diversa. C’è sempre una contaminazione continua che non è cominciare da qualcosa che è fuori e poi andare dentro ma è lavorare da dentro e ricevere da fuori degli input. Per esempio, adesso che stiamo scrivendo il film de Le Sorelle Macaluso ho in testa continuamente il lavoro di Sophie Calle, le fotografie che lei fa alla gente di spalle davanti al mare o le sue installazioni che mi hanno proprio colpita. Di solito, comunque, sono sempre influenze molto lontane: per esempio Masaccio è lontanissimo da Bestie di Scena però c’è una forte familiarità. Oppure recentemente ho rivisto quel film meraviglioso che è “Au hasard Balthazar”, con quell’asino che secondo me ha gli occhi degli attori di Bestie di Scena. Ci sono, insomma, tante cose che entrano in maniera a volte anche molto inaspettata. E che aiutano, ovviamente, perché poi tutto quello che io faccio deve avere una coincidenza con quello che succede intorno a me. Non deve partire da lì, perché io non imito, non imito mai, ma interpreto, per cui tutto quello che succede e che esiste fuori dal mio mondo è soltanto un nutrimento per mettere meglio a punto il mio mondo.

 

D: La Galleria del numero 10 di Arabeschi è dedicata alle riscritture di Pinocchio e mi pare di poter dire che in molti tuoi spettacoli l’idea della marionetta lavori e scavi molto la gestualità e la fisicità degli attori. Ci dici come un teatro ‘di carne e di sangue’ come il tuo possa in qualche modo rispecchiarsi nella figura della marionetta?

R: In realtà la marionetta è una cosa che mi fa abbastanza paura, forse perché racconta questo lavoro quasi maniacale sul movimento degli arti, per il fatto di essere senz’anima, di dover essere manovrato da altri per esistere. Questa cosa mi ha sempre messo in imbarazzo, nel senso che la marionetta è sempre stato un elemento che ho fatto di tutto per tenere lontano da me. Io per esempio non farei mai Pinocchio a teatro, anche se ne sono molto attratta, perché è la base della nostra cultura, la base di tutto: parlavamo delle favole, ma Pinocchio non è solo una favola ma è la nostra vita, racconta il passato, il presente e il futuro. Forse proprio per questo non la farei mai, è una di quelle pietre miliari che rimangono lì e sono sempre presenti. Per esempio, adesso abbiamo scritto questa scena, che è una delle prime scene del nostro film, che si apre con l’interno di una colombaia che sta sopra una casa, per cui ci sono dentro anche dei mobili, e all’inizio avevamo messo come elemento d’arredo una statua della Madonna buttata lì tutta, piena di guano. Poi, andando avanti, ho pensato che non poteva andare bene la statua della Madonna, perché è quasi anacronistica, non è più del nostro tempo. Allora ci abbiamo messo un burattino di Pinocchio, alto quanto un bambino, sempre ricoperto di guano. Perché mi sembrava più ‘contemporaneo’ rispetto alla Madonna, non so come dire. Alla fine Pinocchio è quasi un’icona religiosa per noi, può prendere il posto del Cristo. Però, allo stesso tempo, quando faccio teatro quest’idea delle marionette mi inquieta. Anche perché in realtà io cerco l’anima, per cui anche se mi piace molto quel movimento marionettistico che fanno i miei attori, non lo cerco, non parto mai dalla marionetta. Loro arrivano a disarticolare i loro movimenti ma da altre cose, non partono mai dal movimento meccanico.

 

D: Infine, visto che il corpo dell’attore è al centro di molti dei saggi di Arabeschi, il ‘corpo di attrice’ di Emma Dante come lo descriveresti?

R: Ho smesso di fare l’attrice perché si poteva benissimo fare a meno di me. Ho avuto questa capacità di analisi e di critica e ho capito che era meglio se stavo fuori. E infatti è stato meglio così. In Via Castellana Bandiera è diverso, perché nel film era più facile che quella fossi io, perché quel personaggio lì era una specie di regista; Rosa è colei che decide cosa guardare, quando fermarsi, è lei che decide tutto. Per cui, siccome tra l’altro avevo molto chiaro quello che doveva fare e che doveva dire Rosa e non trovavo l’attrice che facesse questo personaggio, a un certo punto la produzione mi disse: “Fallo tu, perché fai prima e perché Rosa sei tu, sei la regista di questo film”. È stato faticosissimo, non lo farò mai più, però alla fine il motivo era questo: essere lì, perché da dentro diventava più interessante cercare un altro sguardo che non avevo avuto finora nel teatro. Perché nel teatro io non stavo dentro, stavo fuori, e, siccome il cinema doveva essere uno sguardo diverso, allora mi sono infilata dentro questa cosa e ho detto: “È uno sguardo dall’interno quello che io devo avere in questo film”. E così è stato.