Riprese audio-video: Francesco Pellegrino, Ana Duque; fotografia: Francesco Pellegrino; foto di scena: Salvo Grasso; montaggio: Ana Duque.

Qui di seguito la trascrizione integrale dell’intervista.

 

D: Il numero di Arabeschi che ospita questo ‘videoincontro’ è incentrato principalmente sull’idea di trasformazioni fisiche, di metamorfosi del corpo. A questo proposito, schematizzando, si potrebbe forse distinguere tra un tipo di trasformazioni corporee che potremmo definire ‘di oppressione’, di tipo verticale, subìte dal corpo (un esempio su tutti è il Salò di Pasolini), e un altro tipo di trasformazioni corporee che potremmo invece definire ‘di liberazione’, dunque non subìte ma agite dal corpo stesso (pensiamo magari all’idea della peste in Artaud). Tale polarità potrebbe essere una delle chiavi del tuo teatro, cioè mi sembra che queste due forze di trasformazione fisica e di azione sui corpi e dei corpi sia costantemente presente sulle tue scene. In che modo pensi che questo avvenga nel tuo teatro, sia nel risultato dei tuoi spettacoli che, si potrebbe aggiungere, nel processo creativo, ossia nel rapporto tra azione coercitiva della regia che permette l’azione liberatoria del corpo dell’attore?

R: Ci sono sicuramente due processi che sono legati anche al tempo in cui si protrae l’intenzione di far vivere gli spettacoli. Due tempi: il tempo della creazione e il tempo della vita dello spettacolo. Io faccio un teatro di repertorio, quindi quando nascono i miei spettacoli mi auguro che vivano per almeno dieci anni e così in alcuni casi è stato. Questo cosa significa? Che nel corso di dieci anni i corpi degli attori che li fanno cambiano, quindi non è soltanto un cambiamento legato alla creazione di quello spettacolo ma anche alla vita, al processo di invecchiamento di quello spettacolo, perché il corpo in quel tempo invecchia, quindi la qualità del movimento cambia. Non dico che peggiora, anzi a volte si affina, si mette a punto, diventa ancora più incisiva. Sicuramente quando io lavoro con i miei attori chiedo sempre loro un grande sforzo, legato proprio alla ricerca di un gesto non naturale, che però deve diventare naturale. Questo è molto difficile, forse li mette in una condizione di ‘prigione’ del corpo: sicuramente per arrivare a questa naturalezza è necessario stare dentro dei paletti, dentro un recinto. Però poi, dopo, risulta ‘liberatorio’, quindi alla fine del processo di creazione loro sono liberi. Eppure non lo sono stati durante la creazione, durante la genesi.

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This article explores the relationship between painting and writing in the works of Virginia Woolf. In particular, it further investigates the experimental ekphrasis in Woolf’s essays on art (Pictures and Portrait, Pictures, The Fleeting Portrait) and the abstract style of some short stories inspired by post-impressionist painting (The Mark on the Wall, Blue and Green, The Lady in the Looking Glass: a Reflection). Thus, the paper aims to show how art criticism and short stories are to be considered as experiments on the verbal translatability of images that inspire the structure of the novels (Mrs Dalloway, 1925; To The Lighthouse, 1927; The Waves, 1931), where abstract style description alternates with plot development. Such a style conforms to a cognitive model of knowledge consisting of the sequence of ‘perception’, ‘recognition’ and ‘plotting’.

Percezione e riconoscimento di figure nei saggi sull’arte

L’influenza del Post-impressionismo, sia francese che inglese, nell’opera di Virginia Woolf ha una radice storica che risale alle due mostre post-impressioniste tenutesi a Londra nei primi anni del Novecento.[1] La prima viene inaugurata l’otto novembre 1910 alle Grafton Galleries, con il titolo Manet and the Post-Impressionists, appellativo che definisce i pittori esposti, scelto da Roger Fry, curatore e allestitore della mostra. Si espongono otto oli e un pastello di Manet, ventuno opere di Cézanne, venti di Van Gogh e non meno di trentasette dipinti di Gauguin. In più, ci sono nove Vlaminck, due Maurice Denis, tre Derain, tre Friesz, sei Rouault e due Picasso, e ancora altri lavori di artisti meno noti come Pierre Girieud e Jules Flandrin. Una seconda mostra dei post-impressionisti, poi, viene inaugurata sempre alle Grafton Galleries il 5 ottobre del 1912.

Nella mostra sono esposti cinque oli e sei acquerelli di Cézanne, diciannove oli di Matisse, tredici oli e tre disegni di Picasso e dodici lavori di Lhôte. Inoltre compaiono quattro Fauves e lavori cubisti di Braque. Accanto a essi sono esposte le opere di un gruppo di pittori inglesi, sensibili alla nuova arte, tra cui Duncan Grant, Vanessa Bell, Frederick Etchells, Spencer Frederick Gore, Eric Gill e Wyndham Lewis. Viene creato uno spazio anche per alcuni lavori, giunti più tardi, di artisti russi.

L’impatto della nuova pittura nella scrittura di Woolf è testimoniato dai numerosissimi luoghi degli scritti autobiografici e dei saggi in cui la scrittrice discute il problema della ‘forma’ in letteratura e indica lo stile post-impressionista come un esempio da seguire per innovare la narrativa. Si tratta di un’influenza mediata tanto dai teorici e critici d’arte inglesi – in particolare Clive Bell e Roger Fry – che dalla conoscenza diretta degli artisti e dei loro lavori.[2] Il Post-impressionismo si presenta alla scrittrice come la realizzazione, in pittura, di quella forma nuova sulla quale da tempo rifletteva in un confronto serrato con le arti visive, come testimonia un appunto del 1908 ispirato dagli affreschi nel Collegio del Cambio, in cui leggiamo:

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