Percezione e riconoscimento di figure nei saggi sull’arte
L’influenza del Post-impressionismo, sia francese che inglese, nell’opera di Virginia Woolf ha una radice storica che risale alle due mostre post-impressioniste tenutesi a Londra nei primi anni del Novecento.[1] La prima viene inaugurata l’otto novembre 1910 alle Grafton Galleries, con il titolo Manet and the Post-Impressionists, appellativo che definisce i pittori esposti, scelto da Roger Fry, curatore e allestitore della mostra. Si espongono otto oli e un pastello di Manet, ventuno opere di Cézanne, venti di Van Gogh e non meno di trentasette dipinti di Gauguin. In più, ci sono nove Vlaminck, due Maurice Denis, tre Derain, tre Friesz, sei Rouault e due Picasso, e ancora altri lavori di artisti meno noti come Pierre Girieud e Jules Flandrin. Una seconda mostra dei post-impressionisti, poi, viene inaugurata sempre alle Grafton Galleries il 5 ottobre del 1912.
Nella mostra sono esposti cinque oli e sei acquerelli di Cézanne, diciannove oli di Matisse, tredici oli e tre disegni di Picasso e dodici lavori di Lhôte. Inoltre compaiono quattro Fauves e lavori cubisti di Braque. Accanto a essi sono esposte le opere di un gruppo di pittori inglesi, sensibili alla nuova arte, tra cui Duncan Grant, Vanessa Bell, Frederick Etchells, Spencer Frederick Gore, Eric Gill e Wyndham Lewis. Viene creato uno spazio anche per alcuni lavori, giunti più tardi, di artisti russi.
L’impatto della nuova pittura nella scrittura di Woolf è testimoniato dai numerosissimi luoghi degli scritti autobiografici e dei saggi in cui la scrittrice discute il problema della ‘forma’ in letteratura e indica lo stile post-impressionista come un esempio da seguire per innovare la narrativa. Si tratta di un’influenza mediata tanto dai teorici e critici d’arte inglesi – in particolare Clive Bell e Roger Fry – che dalla conoscenza diretta degli artisti e dei loro lavori.[2] Il Post-impressionismo si presenta alla scrittrice come la realizzazione, in pittura, di quella forma nuova sulla quale da tempo rifletteva in un confronto serrato con le arti visive, come testimonia un appunto del 1908 ispirato dagli affreschi nel Collegio del Cambio, in cui leggiamo:
I look at a fresco by Perugino. […] Each part has a dependence upon the others; they compose one idea in his mind. That idea has nothing to do with anything that can be put into words. A group stands without relation to the figure of God. They have come together then because their lines & colours are related, & express some view of beauty in his brain. As for writing – I want to express beauty too – but beauty (symmetry?) of life & the world, in action.[3]
Virginia Woolf già prima delle mostre post-impressioniste è alla ricerca di una forma che riesca a contenere l’elemento dinamico della realtà, mirando a risolvere la coppia dicotomica stasi/movimento in cui è in gioco la vecchia divisione di Lessing tra arti dello spazio e del tempo. La soluzione stilistica, secondo quanto appreso dalle tecniche pittoriche post-impressioniste, consiste nel sostituire il legame logico-cronologico tra le frasi con una sorta di sintassi spaziale equivalente alla simmetria nelle arti visive, creando un nesso tra l’azione percettiva del guardare e la visione d’insieme che ne deriva, ovvero tra la cinesi motoria e oculare del soggetto che guarda e l’elaborazione di un’immagine mentale – uno stile che in area inglese sarà poi definito «spatial form».[4] Attraverso la pittura Virginia Woolf scopre la possibilità di un nuovo ordine per la realtà in cui sono valorizzati quegli aspetti percettivi che nella scrittura subiscono invece un assoggettamento culturale, e che li porta ad essere dettagli, a volte di poco conto, dei legami narrativi. Come annota nei suoi diari: «There are 6 apples in the Cézanne picture. What can 6 apples not be? I began to wonder. There is their relationship to each other, & their solidity».[5]
Sono i saggi sulle arti figurative[6] che si offrono come esempio di questo nuovo stile compositivo maggiormente piegato alle esigenze dell’immagine, una vera e propria ekphrasis che sperimenta le potenzialità visive della scrittura e nel contempo il ruolo della descrizione nelle strutture narrative. I saggi sono soprattutto l’occasione per riflettere sul rapporto tra letteratura e arti visive, inteso da Woolf come confronto tra media in cui lottano l’ispirazione visiva, che cerca di imporsi ‘visivamente’, e il desiderio di sopraffazione del medium della scrittura, che cerca di incorporare al suo interno lo stimolo percettivo.
È quella ‘plasticità’ cifra del Post-impressionismo, che usa il colore e il disegno per la costruzione di volumi, a stimolare Woolf nella creazione di un’ekphrasis che non traduca immediatamente il quadro in una storia, ma che sostituisca le relazioni narrative di tipo diacronico (prima → dopo) con rapporti spaziali (sopra, sotto, avanti, accanto, ecc.). L’ekphrasis di Woolf decostruisce la forma narrativa e il suo carattere illustrativo, portando la parola alla tensione massima verso l’immagine e facendo della descrizione un processo opposto all’interpretazione logico-culturale fornita dalla narrazione, una sorta di fermo-immagine estrapolato da un racconto dinamico;[7] come affermerà nel saggio del 1933 dedicato ai quadri di Sickert «the figures are motionless, of course, but each has been seized in a moment of crisis; it is difficult to look at them and not to invent a plot, to hear what they are saying».[8]
Woolf sembra sostenere attraverso l’ekphrasis una tesi di cratilismo linguistico, da intendersi come processo di regressione della scrittura a un «linguaggio naturato»,[9] nel quale è possibile fare esperienza delle parole al modo dell’immagine. Più precisamente, nell’ekphrasis di Woolf ad ogni quadro possono corrispondere almeno due livelli di scrittura: quello illustrativo, che la scrittrice si propone di superare; quello di una descrizione straniante squilibrata verso i dati percettivi dell’immagine, che avvia la costruzione di una trama rifondata in base a categorie spaziali.
Nel primo caso l’ekphrasis si esercita su quei modelli di pittura giudicata narrativa, ovvero poco attenta alle differenze di statuto tra pittura e scrittura, e il cui commento inevitabilmente produce una ‘letteraturizzazione’[10] delle immagini. Questo tipo di ekphrasis viene mostrata col solo fine di decostruirla, opponendole come soluzione stilistica la paratassi in funzione descrittiva. Valga come esempio un confronto stilistico tra il commento dei quadri presenti alla Royal Academy, roccaforte della pittura vittoriana, e quello dell’avanguardia post-impressionista:
There is, for example, No. 248, Cocaine. A young man in evening dress lies, drugged, with his head upon the pink satin of woman’s knee. The ornamental clock assures us that it is exactly eleven minutes to five. The burning lamp proves that it is dawn. He, then, has come home to find her waiting? She has interrupted his debauch? For my part, I prefer to imagine what painters’ language would be called “a dreary vigil”. There she has sat since eight-thirty, alone, in pink satin.[11]
Character is colour, and colour is china, and china is music. Green, blues, reds, and purples are seen making love and war and joining in unexpected combinations of exquisite married bliss. A plant bends its leaves in the jar and we feel that we too have visited the depths of the sea.[12]
Nel primo caso le immagini hanno una traducibilità narrativa immediata, mentre nel secondo l’ekphrasis vaga alla ricerca di legami sintattici che possano restituire le relazioni formali tra gli elementi del quadro. Inoltre, sempre nel secondo commento, l’uso dell’asindeto e della congiunzione in funzione paratattica, unitamente a un lessico marcatamente visivo, sostituisce la relazione logico-cronologica di causa-effetto, creando una simultaneità descrittiva che sospende la costruzione della trama, o meglio la tiene in attesa, lasciando che a emergere siano prima di ogni cosa gli elementi percettivi («green», «blues», «reds»), e con essi lo stimolo a tradurli in una trama spaziale attraverso verbi che denotano movimento, o per mezzo di metafore narrative («making love», «exquisite married bliss», «bends»).
Con l’uso della paratassi, quindi, avviene il passaggio a un secondo livello di lettura del quadro: da un’ekphrasis illustrativa, che traduce le immagini in una trama governata dal principio di causa-effetto, a un’ekphrasis spaziale, fondata sui principi di coordinazione e simultaneità, tradotti linguisticamente attraverso i deittici spaziali e la metafora, o attraverso la figura dell’accumulazione coordinante.[13] E questo stile descrittivo si traduce dai quadri alla realtà, come nell’incipit del saggio Pictures and Portraits (1920):
There are two buildings on the same promontory of pavement, washed by the same incessant tide – the National Gallery and the National Portrait Gallery. In order to enter either it is only necessary to pass through a turnstile… But always, on the paving stone, at the doorway, it seems as if the pressure of humanity glued you to its side. […] The current of the crowd, so swift and deep, the omnibuses swimming bravely on the surface, here a little string… there a hearse, next a pantechnicon van… all this makes it vain to think of pictures. They are too still, too silent.[14]
Nel brano la percezione sensibile degli edifici, enfatizzata dal lessico, è antecedente alla loro significazione espressa in termini di rimando referenziale diretto; la struttura è marcata dall’uso dell’asindeto e dei deittici spaziali in funzione coordinante; l’espressione «incessant tide», chiaramente metaforica, traduce l’emozione suscitata dalla percezione per mezzo di un correlato visivo. In questo modo la trama della visita alla mostra, con la corrispondente struttura diacronica (prima-dopo), è ricollocata all’interno di una struttura spaziale (esterno/interno): il percorso temporale dell’ipotetico visitatore della mostra si traduce in una prospettiva visiva che anima lo spazio e che trova il suo grado zero nel soggetto del discorso, evidenziato dall’espressione «here a little string», sulla quale si reggono le altre. Se nell’ekphrasis illustrativa avremmo avuto un rimando diretto dalla percezione ai significati, stabilito dalla proporzione tra le relazioni formali delle figure e i campi semantici corrispondenti (a : b = A : B), in quella spaziale i deittici creano una sorta di sequenza sincronica (a→b, b→c): (a) «here a little string» →(b) «there a hearse», (b) «there a hearse» →(c) «next a pantechnicon van». Il semantismo di ogni figura, cioè, seppur privo di un valore narrativo non rimane isolato come un dettaglio, ma si lega agli altri in una descrizione animata dal movimento di chi percorre lo spazio, secondo un ritmo che prepara alla narrazione grazie a una semantica smorzata, dove l’assenza di una trama – «They are too silent» – non fa altro che aumentarne il desiderio.
Se consideriamo la narrazione da un punto di vista cognitivo, come modello generale della conoscenza che aiuta a classificare e memorizzare situazioni stereotipiche, l’ekphrasis di Woolf può essere considerata come una soluzione stilistica che traduce la fase di accumulazione delle informazioni relative a un contesto circoscritto – la scena di un quadro –, alla quale si aggiungono le fasi dell’interpretazione semantica (schema) e della narrativizzazione (script). Trattandosi di una fase puramente percettiva, lo stile di Woolf risponde all’esigenza di tradurre nella scrittura uno stimolo sensoriale e un processo cognitivo che non coinvolgono direttamente l’attività verbale, motivo che spinge l’autrice a lavorare soprattutto sul piano sintagmatico più che su quello paradigmatico, mirando a una soluzione che più da vicino riproduca la cinesi oculare di un ipotetico osservatore.[15] La descrizione viene realizzata applicando alla scrittura il sistema di preferenze che funziona a livello percettivo, e che oggi sappiamo guidare anche l’attività verbale di tipo descrittivo prima che intervengano le regole intrinseche al linguaggio, che rispondono invece a esigenze comunicative e prevedono competenze di tipo narrativo (relazioni logico-cronologiche).[16] Nell’ekphrasis dell’autrice, infatti, viene favorito quel processo cognitivo involontario che è lo stimolo a riconoscere le figure, e viene limitata invece l’interpretazione narrativa dell’immagine, che è un’azione cognitiva volontaria.[17] Ne deriva una descrizione enigmatica equiparabile agli esperimenti sul comportamento amodale, in cui le regole della percezione vengono raggirate attraverso la rappresentazione;[18] figure irriconoscibili, ridotte a mere forme astratte, provocano uno straniamento nel lettore e lo inducono a stadi intermedi di riconoscimento in risposta a stimoli descrittivi ingannevoli,[19] utilizzati per rompere le abitudini di lettura legate a conoscenze culturali.[20] Già nel 1919, nel descrivere alcune caricature di Edmond X. Kapp in mostra alla National Portrait Gallery, l’ekphrasis non ricostruisce la storia dei personaggi ma fa emergere soltanto caratteristiche fisiche, e significativamente trascura gli occhi e il naso, cioè quegli elementi sui quali, in virtù di una competenza culturale, i movimenti oculari si dovrebbero soffermare maggiormente:[21]
When we know little or nothing about the subject, and thus have no human or literary susceptibilities to placate, the effect is far more satisfactory. That The Politician (Mr. Masterman) has the long body cut into segments and the round face marked with alarming black bars of the Oak Eggar caterpillar, we find it easy and illuminating to believe.[22]
È per decostruire la forza della soglia culturale e le abitudini di lettura in essa inscritte che la scrittura di Woolf ferma il lettore ai processi preattentivi (veloci e riferiti a forme astratte), per poi svelare quasi con un colpo ad effetto quelli attentivi (lenti e di tipo interpretativo).[23] Detto altrimenti, l’ekphrasis mette in evidenza prima le caratteristiche meramente percettive (linee, forma, colori), quindi quelle considerate meno informative percettivamente (posizione, orientamento), che invece risultano utili per accedere a un secondo livello di lettura del quadro, in cui viene rifondata la struttura narrativa. In questo ulteriore livello, la scrittura assume le forme di una trama in fieri, di una vera e propria sceneggiatura, soprattutto nei saggi sull’arte, dove molto spesso più che le tele vengono descritte le circostanze del commento – la visita a una mostra o a un museo. In alcuni casi il quadro stesso viene interpretato come una scena teatrale. Nel commento alle tele di Sickert, per esempio, l’ekphrasis si trasforma in un vero e proprio copione dotato di battute:
Do you remember the picture of the girl sitting on the edge of her bed half naked? […] The bed, a cheap iron bed, is tousled and tumbled; she has to face the day, to get her breakfast, to see about the rent. […] Then again there is the story of Mary and Rose… Mary on the chair has been sobbing out some piteous plaint of vows betrayed and hearts broken to the woman in the crimson petticoat. «Don’t be a damned fool, my dear», says Rose, standing before her with her arms akimbo.[24]
Nel modello della sceneggiatura, che contemporaneamente narra l’azione e descrive la scena, Woolf vede la possibilità per l’ekphrasis di non essere concepita unicamente in ragione della sua contropartita visiva, con il lettore che è chiamato in ogni tappa a relazionarsi fisicamente con una tela. Così come nel copione alla descrizione del contesto si associano le battute di scena, nell’ekphrasis di Woolf compaiono di tanto in tanto voci dirette, presentate con l’uso del virgolettato, che nel montaggio delle informazioni possono essere attribuite sia a qualcuna delle figure rappresentate nel quadro che agli spettatori che commentano la scena.
On first entering a picture gallery, whose stillness, warmth and seclusion from the perils of the street reproduce the conditions of the primeval forest, it often seems as if we reverted to the insect stage of our long life. «On first entering a picture gallery» – there was silence for a moment.[25]
La voce diretta – «On first entering a picture gallery» – si impone con la materialità del suono su una descrizione che il lettore tende ad immaginare afona, quasi fosse la voce esterna che accorre a rompere l’incanto della visione, riportando chi legge a uno stato di consapevolezza. Queste voci assolvono qui una funzione tipicamente narrativa, quella di creare un embrayage enunciazionale che rimanda il lettore a una realtà esterna al quadro, quella più generale della mostra, provocando continui slittamenti verso l’esterno: dalle forme percepite alla storia rappresentata nel quadro, alla realtà narrativa della mostra. Più che saggi sull’arte, infatti, quelli di Woolf appaiono come forme embrionali di racconto che prendono spunto dal quadro per raccontare l’occasione della mostra, cioè la narrazione che si crea intorno al quadro.
Dalla percezione alla narrativizzazione: i racconti sperimentali
Allo stesso modo dei saggi sull’arte, nei racconti Woolf sperimenta una struttura narrativa di tipo spaziale, costruita attraverso un movimento che potremmo definire a ellisse, che presenta cioè una costanza rispetto a due fuochi: la cosa guardata; il soggetto che guarda.[26] Soprattutto per i racconti sperimentali, che vanno dal ’17 al ’21, potremmo semplificare affermando che esiste una polarizzazione dello spazio narrativo in immagine e spettatore, e che la narrazione nell’assestarsi sull’uno o sull’altro mostra stadi intermedi di approssimazione: dall’astrazione dell’immagine verso l’interpretazione narrativa che lo spettatore propone. Woolf mira così a mantenere nella scrittura il carattere visivo dell’immagine, sostituendo però la percezione vera e propria delle immagini, prevista nell’ekphrasis o nei codici verbo-visivi, con un tipo di scrittura astratta che traduce quelli che vengono denominati «elementi emotivi del disegno»,[27] cioè il ritmo della linea, la massa, lo spazio, il rapporto luce/ombra, il colore, e l’inclinazione, che in pittura dotano l’immagine di una forte carica timica.[28] La trama dei racconti fornisce cioè due tipi di informazioni: una descrizione astratta che simula percezioni alterate (sfocate, eccessivamente focalizzate, non contestualizzate, ecc.); una narrazione che interpreta queste percezioni alterate e le colloca in una trama. In questo modo la scrittrice crea un doppio effetto semantico: di denominazione, quando si passa dalle descrizioni alla messa in narrazione, e di applicazione, quando dalla narrazione si ritorna alle descrizioni. Nel primo caso si procede verso un riconoscimento culturale e verso una trama, nel secondo nel senso opposto, verso un depauperamento della trama che lascia emergere il gioco di relazioni tra forme e colori. Questo secondo effetto è usato per ricondurre la descrizione degli elementi emotivi a uno schema di relazioni che mantiene attivo lo stimolo emotivo al riconoscimento, senza però risolverlo in una trama vera e propria, creando così un’aspettativa narrativa sulla scorta di una stimolazione timica.
Questa operazione si lega in maniera diretta alla pittura post-impressionista[29] che meno aveva forzato la sperimentazione visiva e aveva mantenuto l’uso del contorno e del disegno per la riconoscibilità delle figure, cioè a un modello visivo che in area inglese fa capo rispettivamente al passaggio dal Post-impressionismo romantico a quello classico,[30] dall’uso strutturale del colore, che in Cézanne aveva cessato di giocare un ruolo separato dal disegno, alle prime affermazioni del Cubismo, presenti nella seconda mostra post-impressionista, dove la drawn-line è intesa come ‘linea funzionale’ che anima il disegno.[31] Le sperimentazioni di Woolf sulla scrittura, infatti, solo in pochissimi casi si lasciano andare a uno stile visivo che rinuncia alla trama, ma sempre riconoscono la necessità di uno spunto narrativo minimo e dello scambio dialettico tra percezione e narrazione. In The Mark on the Wall (1917) di volta in volta vengono proposte stazioni di significato, riconoscimenti culturali che iscrivono la descrizione all’interno di una relazione logico-cronologica minima:
And yet the mark on the wall is not a hole at all. It may even be caused by some round black substance, such as a small rose leaf, left over from the summer.[32]
In questo modo Woolf traduce in scrittura un prototipo dell’atteggiamento cognitivo legato alla conoscenza per mezzo di figure, con le sue fasi di percezione, riconoscimento e narrativizzazione. La scrittura dei racconti, anzi, replica un vero e proprio modello cognitivo a network,[33] fissando un agente cognitivo (lo spettatore-lettore), una sorgente-informativa (input percettivi), e descrivendo un processo di rielaborazione degli input sulla scorta di conoscenze pregresse e abitudini di lettura (frame), così da creare una trama coerente. Nei racconti meno direttamente influenzati dalle sperimentazioni post-impressioniste, il funzionamento di questo modello è forse reso con maggiore efficacia narrativa e disinvoltura stilistica. In The Lady in the Looking-Glass: A Reflection,[34] pubblicato nel ’29, leggiamo:
Suddenly these reflections were ended violently and yet without a sound. A large black form loomed into the looking-glass; blotted out everything, strewed the table with a packet of marble tablets veined with pink and grey, and was gone. But the picture was entirely altered. For the moment it was unrecognisable and irrational and entirely out of focus. One could not relate these tablets to any human purpose. And then by degrees some logical process set to work on them and began ordering and arranging them and bringing them into the fold of common experience. One realised at last that they were merely letters. The man had brought the post.[35]
L’esperienza percettiva alterata spinge il soggetto vedente a generare input che rimandano a referenti esterni, sulla scorta di stimolazioni sensoriali che egli associa a frame familiari. Alla realtà simbolicamente neutralizzata dalla specchio e ridotta allo stato di materia sensibile, di cui si percepiscono unicamente elementi visivi e tattili, risponde quella che Concilio definisce l’«isotopia dello sguardo»,[36] ovvero un processo ispirato alla coerenza semantica che associa gli elementi emotivi (forme, linee, colori) ad un contesto d’azione (attori, tempi, luoghi), risolvendo la percezione astratta nel riconoscimento logico-culturale dell’uomo che porta la posta, da intendersi come un segmento narrativo minimo.
La scrittura visiva dei romanzi
Nei romanzi Woolf ha modo di applicare quanto sperimentato nei saggi e nei racconti all’interno di strutture narrative più estese, dove la dialettica tra descrizione e trama viene evidenziata soprattutto a livello macro-strutturale, e in alcuni casi anche segnalata al lettore percettivamente con l’uso del corsivo o delle parentesi.[37] Nei romanzi, inoltre, la relazione tra descrizione e struttura narrativa, a differenza dei saggi e dei racconti, non è sempre riconducibile alle riflessioni sulle arti visive. Se si escludono i primi lavori – The Voyage Out e Jacob’s Room – a partire da Mrs Dalloway i riferimenti diretti al pittorico si riducono sensibilmente[38] e tale relazione prende corpo su segmenti di scrittura molto più estesi, con la conseguente trasformazione della sintassi spaziale di periodo in un montaggio strutturale dei capitoli e delle sezioni. Oltretutto la struttura dei romanzi evolve verso una forma di rarefazione narrativa che conduce al modello di The Waves, in cui si fa palese la ricerca di una meta-narrazione che renda il lettore consapevole del proprio ruolo interpretativo-cognitivo e dei meccanismi che lo sorreggono. Per ottenerla Woolf non solo mantiene attiva la dialettica tra descrizione e narrazione, ma crea un chiasmo strutturale che attribuisce una forma narrativa alle descrizioni, e una forma descrittiva alle narrazioni. Ed è proprio il modello dell’ekphrasis saggistica, con la contrapposizione tra descrizione illustrativa (più vicina alla pittura vittoriana) e astraente (più adatta alle tele post-impressioniste), che ispira lo schema narrativo dei romanzi.
In Mrs Dalloway, uscito nel 1925, Woolf avvia una separazione formale tra descrizione astratta, derivata da tutte le sperimentazioni sulla traducibilità verbale dell’immagine, e descrizione illustrativa, che traduce narrativamente le immagini. Il punto nodale di questa nuova fase non è più la sperimentazione in risposta al clamore del Post-impressionismo, incentivo per una scrittura che mimeticamente riproduca lo stile della nuova arte, ma l’elaborazione di una scrittura in grado, nell’autonomia del proprio statuto, di accedere alle cose così come in esse aveva accesso la pittura. Questa maturità che Woolf, critica letteraria, aveva raggiunto già nel ’24 con la pubblicazione del saggio Mr. Bennet and Mrs. Brown, nel romanzo viene formalizzata attraverso la divisione della storia in due narrazioni distinte che hanno come protagonisti due personaggi che abitano il medesimo contesto spaziale. Essi rappresentano due veri e propri punti di vista, qui intesi come prospettive qualitative dello sguardo: le visioni stranianti[39] di Septimus, reduce di guerra malato di mente, e quelle della signora Dalloway, interprete della prospettiva razionale e culturalizzata. Detto altrimenti, le sezioni dedicate a Septimus pongono in essere una scrittura capace di restituire il rapporto empatico-patemico tra il soggetto che percepisce e la cosa percepita, mentre quelle dedicate alla protagonista Clarissa Dalloway mostrano una scrittura desiderosa di ricollocare l’esperienza percettiva all’interno di un movimento cognitivo: Septimus è portatore dell’istanza timica, Clarissa è portatrice dell’istanza cognitiva. La differenza è rimarcata dalla stessa scrittrice che annota nei diari: «I adumbrate here a study of insanity & suicide: the world seen by the sane & the insane side by the side».[40]
Il lettore, dunque, si ritrova nella medesima situazione di alcuni saggi sull’arte o di alcuni racconti: di fronte a una stessa figura, assiste sia alla visione astratta che fornisce Septimus che a quella culturale della signora Dalloway o di un personaggio rientrante nella sua sfera d’azione. Nel caso di Septimus, uomo in preda a una patologia mentale, la scrittura traduce una vera e propria ‘follia dello sguardo’, che deforma percettivamente la realtà provocando straniamenti e suggerendo insoliti legami tra le cose osservate, alla stregua di uno sguardo infantile che tende a cogliere relazioni giustificate non dal punto di vista logico ma esclusivamente estetico. Nell’osservare un aeroplano che disegna nel cielo di Londra il nome di una caramella da pubblicizzare, mentre altri personaggi sono intenti a distinguere le lettere, lo sguardo di Septimus è pervaso di iconicità:
So, thought Septimus, looking up, they are signalling to me. Not indeed in actual words; that is, he could not read the language yet; but it was plain enough, this beauty, this exquisite beauty, and tears filled his eyes as he looked at the smoke words languishing and melting in the sky […]. But he would not go mad. He would shut his eyes; he would see no more. But they beckoned; leaves were alive; trees were alive… The sparrows fluttering, rising, and falling in jagged fountains were part of the pattern; the white and blue, barred with black branches.[41]
Quello di Mrs Dalloway è addirittura distratto e quasi indifferente rispetto a quanto accade: «What are they looking at? said Clarissa Dalloway to the maid who opened her door…».[42] All’escamotage tutto giocato sull’intreccio e sulla duplicazione dei piani narrativi, si aggiunge dunque una duplicazione stilistica simile a quella sperimentata nei racconti degli anni ’20 che trasforma le visione stranianti di Septimus in una sorta di pausa narrativa rispetto alle vicende della protagonista Mrs Dalloway, pausa che però conserva nel ritmo un andamento narrativo. La divisione, dunque, oltre a ponderare le informazioni e rendere meno bruschi i cambiamenti di tempo e luogo, rappresenta un vero e proprio moltiplicatore della tensione narrativa, grazie a uno schema che alterna i segmenti narrativi e la comunicazione di stati passionali che conservano il ritmo stesso della narrazione, dove la pausa descrittiva, cioè, è soggetta a una sorta di temporalizzazione. Le visioni di Septimus sono così ricucite all’interno di una macro-struttura in cui il ‘figurale’ è di volta in volta sottoposto a un movimento cognitivo di ‘riconoscimento’. Il romanzo, infatti, si apre e si chiude all’interno di una casa, regno di Clarissa e spazio cognitivo, secondo un movimento circolare che inscena una dialettica spazio chiuso/spazio aperto, anche questa già sperimentata in alcuni saggi sull’arte.
La costruzione di questa descrizione ‘temporalizzata’ è enfatizzata nel romanzo successivo, To The Lighthouse (1927), dove occupa l’intera sezione centrale – significativamente intitolata Time Passes – che sospende il racconto delle vicende della famiglia Ramsay avviato nella prima sezione e concluso nell’ultima, con una lunga pausa descrittiva. All’interno di Time Passes, poi, Woolf propone un’ulteriore separazione della scrittura in cui mette a confronto, come nel caso del racconto The Lady in the Looking Glass, una scrittura altamente astratta e brevissimi segmenti narrativi,[43] riproponendo ancora una volta il gioco che relaziona la descrizione straniante e il riconoscimento culturale: informazioni telegrafiche sulla trama seguono, chiuse tra parentesi quadre, le descrizioni astratte, e di fatto traducono sul piano narrativo ciò che in queste viene detto con una sorta di metafora visiva.
Then again silence fell; and then, night after night, and sometimes in plain mid-day when the roses were bright and light turned on the wall its shape clearly there seemed to drop into this silence, this indifference, this integrity, the thud of something falling.
[A shell exploded. Twenty or thirty young men were blown up in France, among them Andrew Ramsay, whose death, mercifully, was instantaneous.][44]
In questo caso capiamo che l’opposizione segnalata dalle parentesi è solo di tipo espressivo ma non riguarda il contenuto: la guerra e la morte. Le frasi «the thud of something falling» e «a shell exploded» comunicano al lettore la medesima informazione attraverso modalità espressive differenti, ponendosi la prima come scrittura timica, metaforica, straniante, la seconda come scrittura cognitiva, contestualizzata, informativa e chiarificatrice; l’equivalente di ciò che nei racconti o nell’ekphrasis è la dinamica tra percezione astratta e riconoscimento. In To The Lighthouse compare anche per la prima volta un espediente stilistico legato ai tempi della narrazione e della descrizione: il simple present, utilizzato sia nell’ekphrasis che nei racconti come tempo verbale della descrizione, in Time Passes viene utilizzato solo nel terzo capitolo, ed è rimpiazzato in tutti gli altri dal past tense con funzione descrittiva, secondo un uso insolito nella scrittura fino ad allora prodotta: «The nights now are full of wind and destruction; the trees plunge and bend and their leaves fly helter skelter until the lawn is plastered with them and they lie packed in gutters and choke rain pipes and scatter damp paths. Also the sea tosses itself and breaks itself».[45] L’operazione, di cui sono traccia solo alcune righe, nell’economia del romanzo passa quasi inosservata, ma è interessante notare che proprio quella traccia esigua appare come il residuo minimo di una autoreferenzialità della scrittura sperimentata in Blue and Green,[46] il racconto che, vero dittico post-impressionista, molti anni prima aveva concluso la fase di forte sperimentazione pittorica della scrittrice: «At night the stars are set there unbroken. Evening comes, and the shadow sweeps the green over the mantelpiece; the ruffled surface of ocean. No ships come; the aimless waves sway beneath the empty sky. It’s night; the needles drip blots of blue. The green’s out».[47] Se confrontato con questo racconto, il presente del terzo capitolo di To The Lighthouse, da un lato, collega lo stile delle pause descrittive alle riflessioni sulla resa del visivo condotta sulla pittura post-impressionista, dall’altro, denuncia l’autonomia della narrativa rispetto alla staticità del visivo.
A chiarire meglio il senso di questa operazione strutturale è l’ulteriore revisione stilistica operata attraverso la macro-struttura narrativa di The Waves (1931), alla cui stesura inizia a lavorare subito dopo l’uscita di To The Lighthouse. Il romanzo, che viene considerato dalla scrittrice stessa punto di approdo a uno stile nuovo, a giudizio di molti critici nasce direttamente dalla scrittura di Time Passes. Infatti, la sua macro-struttura sembra enfatizzare il rapporto tra descrizione e narrazione presente in quella sezione, presentando una serie di prose liriche (interludi), dove si utilizza il past tense, e dei segmenti narrativi, costruiti con il simple present (soliloqui). Entrambi vengono collocati in una struttura seriale in cui i primi precedono sempre i secondi, fino all’ultimo interludio che chiude il romanzo e conferisce alla scrittura delle descrizioni il ruolo di contenente narrativo, invertendo così la macro-struttura di To The Lighthouse, dove la stessa scrittura figurava come contenuta tra le due sezioni dedicate alla trama. A segnalare il confine delle due tipologie di scrittura, poi, compaiono il corsivo, usato per gli interludi, e la formula iterata «said» che introduce la storia dei personaggi nei soliloqui, raccontata in prima persona con il discorso diretto libero.
Ci si trova, dunque, di fronte a una macro-struttura in cui il passato narrativo, ereditato dalla tradizione letteraria del romanzo, figura come tempo verbale delle pause-descrittive, e il presente, generalmente usato in funzione dialogica, figura come tempo verbale di una narrazione in prima persona, dove ogni personaggio diventa la voce narrante di una porzione di storia. Consideriamo come esempio dei brani tratti rispettivamente dal secondo e dal terzo interludio, e dal secondo e dal terzo soliloquio:
The sun laid broader blades upon the house. The light touched something green in the window corner and made it a lump of emerald, a cave of pure green like stoneless fruit. It sharpened the edges of chairs and tables and stitched white tablecloths with fine gold wires. […]
«Now», said Bernard, «the time has come. The day has come. The cab is at the door. My huge box bends George’s bandy-legs even wider. The horrible ceremony is over, the tips, and the goodbyes in the hall. Now there is this gulping ceremony with my mother, this hand-shaking ceremony with my father; now I must go on waving, I must go on waving, till we turn the corner. Now the ceremony is over. Heaven be praised, all ceremonies are over. I am alone; I am going to school for the first time». […]
Now, too, the rising sun came in at the window, touching the red-edged curtain, and began to bring out circles and lines. […]
«The complexity of things become more close», said Bernard, «here at college, where the stir and pressure of life are so extreme, where the excitement of mere living becomes daily more urgent».[48]
Nei due soliloqui la comune referenza semantica, l’appartenenza allo stesso ‘schema’ (andare al college) declinato a partire dalle azioni (script) che lo rendono riconoscibile (fare la valigia, lasciare casa, ecc.), mira propriamente a individuare una trama, alla quale però giungiamo attraverso una sorta di preparazione ritmica, suggerita dal passato narrativo degli interludi dove ritorna una ambientazione simbolica costante,[49] una sorta di metafora paesaggistica che traduce il processo di focalizzazione sullo spazio abitato e sui personaggi (sole → giardino → casa → finestra → interno). Il modello dell’ekphrasis, che alternava, senza prestabilirlo, descrizioni e narrazioni – effetti di applicazione e denominazione – si ripropone qui con un preciso ordine strutturale[50] utile a mantenere viva la trama e a non spezzare il filo narrativo, alternando le prime e le seconde in uno schema costante e iterato del tipo ABAB, che detta il ritmo della storia. E come per l’ekphrasis, anche in questo caso si tratta di una struttura che Woolf realizza tenendo in mente il riferimento alla sceneggiatura e alla procedura di messa in scena, alle quali aveva dedicato un saggio, scritto fra il ’22 e il ’24 per la prima serie del The Common Reader, intitolato On Not Knowing Greek, nel quale affermava:
In a play how dangerous this poetry, this lapse from the particular to the general must of necessity be, with the actors standing there in person, with their bodies and their faces passively waiting to be made use of! […] The intolerable restrictions of the drama could be loosened, however, if a means could be found by which what was general and poetic, comment, not action, could be freed without interrupting the movement of the whole. It is this that the choruses supply. [51]
Le osservazioni sulla tragedia, infatti, se unite a quelle sulla pittura ci riportano allo stile dell’ekphrasis e dei racconti, che come visto ricalca la struttura stilistica di un copione teatrale, di una sceneggiatura. In questo caso, però, la struttura generale del testo appare caratterizzata da una sorta di chiasmo, che attribuisce alle descrizioni di scena il tempo verbale tipico della trama, il passato, e al racconto delle azioni il tempo tipico della descrizione, il presente. Si stabilisce così un relais tra descrizione e narrazione modellato sulla divisione della tragedia in coro e atti, sfumando ciò che di prettamente azionistico è nei secondi con la visione esterna e universale del primo. La soluzione stilistica per realizzarlo è quella dell’inversione tra materia narrata e forme verbali della narrazione, utile a dotare di ritmo narrativo le pause descrittive, e a frenare con il presente del discorso diretto lo scorrimento delle singole storie.
La forma narrativa, non il suo contenuto, è vista come una categoria epistemica utile a filtrare anche quella materia, come gli elementi percettivi e la loro carica timica, apparentemente refrattaria all’ordine logico. Woolf sembra proporre, piuttosto che un’infrazione a un copione canonico che funga da stimolo narrativo,[52] un’infrazione all’azione stessa del raccontare attraverso un modello narrativo che non cede l’informazione al lettore in maniera diretta ma la filtra nella messa in scena del processo di narrativizzazione. In questo modo il raccontare viene mostrato come un impulso irriducibile a ricercare legami logico-cronologici tra eventi, come un vero e proprio strumento cognitivo.[53] Anzi, è proprio la consapevolezza di questo meccanismo cognitivo che rende possibile l’effetto poetico di un racconto dell’universale. La frustrazione del desiderio di storie, attuata per mezzo di pause descrittive di tipo paesaggistico, intensifica la potenza del suo impulso, e i nessi narrativi inevitabilmente ricercati e creati tra le parti del paesaggio diventano cifra di quella condizione umana, temporalizzata, alla quale si cerca di ricondurre lo spazio naturale. Nella costruzione dell’opera narrativa, dunque, Woolf recupera il modello di quella matrice cognitiva (percezione, riconoscimento, narrazione) sulla quale aveva cominciato a riflettere alcuni anni prima, confrontando le potenzialità visive della scrittura con la pittura post-impressionista. In modo particolare in The Waves, Woolf ricostruisce la relazione tra immagine e parola associandola a un vero e proprio percorso di crescita cognitiva, dalla fase infantile – carica di percezioni astratte – alla fase della maturità – dove la conoscenza della realtà avviene per mezzo di competenze narrative e connotazioni culturali: le relazioni tra le figure si trasformano in legami narrativi di tipo logico-cronologico. Ma il romanzo non si limita a procedere in modo sequenziale (dall’astrazione alla narrazione), piuttosto mira a un effetto cognitivo ulteriore, a una comparazione tra astrazione e narrazione. La ciclicità con cui il romanzo intervalla interludi e soliloqui, infatti, stimola nella mente del lettore uno spazio di fusione – blending – che accoglie contemporaneamente gli stimoli percettivi della descrizione e quelli delle figure in azione, le storie narrate. L’effetto che ne deriva è certamente estetico – mirante a un confronto fenomenologico tra tempo della vita e del mondo –, ma poggiante su un meccanismo cognitivo che Woolf apprende dalla pittura post-impressionista. Così come nella pittura post-impressionista la simultaneità cha caratterizza i codici visivi si arricchisce di una scelta stilistica che mantiene aperto il confronto tra astrazione e riconoscibilità delle forme, e che obbliga lo spettatore a un richiamo costante tra la dimensione plastica e quella figurativa, nei romanzi Woolf propone una duplicazione della scrittura che costringe il lettore a confrontare le storie con lo stimolo cognitivo dal quale derivano.
1 Cfr. M.A. Caws, S.B. Wright, Bloomsbury and France, Oxford, Oxford University Press, 2000.
2 Cfr. D.F. Gillespie, The Sisters’ Arts: The Writing and Painting of Virginia Woolf and Vanessa Bell, Syracuse, Syracuse University Press, 1988; Ead. (ed.), The Multiple Muses of Virginia Woolf, Columbia, University of Missouri Press, 1993; Ead., Virginia Woolf and the Arts: Selected Papers from the Sixth Annual Conference on Virginia Woolf, New York, Pace University Press, 1996.
3 Q. Bell, Virginia Woolf: A Biography, London, The Hogarth Press, 1972, p. 138. Nulla è detto sull’affresco al quale si riferisce. Potrebbe trattarsi di Angeli, Profeti e Sibille, datato tra il 1496 e il 1500.
4 J. Frank, Spatial Form in Modern Literature, «Sewanee Review», 53, 1945.
5 A.O. Bell, (ed.), The Diary of Virginia Woolf, London, The Hogarth Press, 1977-1984, I, pp. 140-141.
6 Per l’importanza che rivestono teniamo in considerazione soprattutto i saggi Pictures and Portraits, Pictures, The Fleeting Portrait e Walter Sickert, raccolti insieme ad altri e corredati di traduzione a fronte, in V. Woolf, Immagini/Pictures, a cura di F. de Giovanni, Napoli, Liguori, 2002.
7 Cfr. P. Caughie, Virginia Woolf in the Age of Mechanical Reproduction, New York & London, Garland Publishing, 2000.
8 V. Woolf, Walter Sickert, in Ead., Immagini/Pictures, cit., p. 190.
9 S. Cavicchioli, Il silenzio della pittura. Analisi di due quadri di parole in Virginia Woolf, in Id., I sensi, lo spazio, gli umori, Milano, Bompiani, 2002, p. 149.
10 G. Patrizi, Narrare l’immagine, Roma, Donzelli, 2000, p. 12.
11 V. Woolf, The Fleeting Portrait, in Ead., Immagini/Pictures, cit., p. 156.
12 V. Woolf, Foreword II, in Ead., Immagini/Pictures, cit., pp. 214 e 216.
13 Cfr. H. Lausberg, Elementi di retorica [1949], trad. it. di L Rittin Santini, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 159-165.
14 V. Woolf, Pictures and Portraits, in Ead., Immagini/Pictures, cit., p. 54.
15 Facciamo notare che una gerarchizzazione dei livelli di percezione e riconoscimento investe molti ambiti disciplinari, e probabilmente trova la sua origine nelle riflessioni sulla rappresentazione pittorica. In Panofsky ad esempio (E. Panofsky, La prospettiva come forma simbolica [1927], trad. it. di E. Filippini, Milano, Feltrinelli, 1961; Id., Studi di iconologia [1939], trad. it. di R. Pedio, Torino, Einaudi, 1975), è presente una tripartizione percettiva (preiconografico, iconografico, iconologico) che dall’elementare porta al culturale e all’arricchimento dei significati, mentre la Teoria della Gestalt (K. Koffka, Principi di psicologia della forma [1935], trad. it. di C. Sborgi, Torino, Bollati Boringhieri, 1970) distingue un livello percettivo primitivo legato a particolari forme e rapporti tra forme. Allo stesso modo per Greimas (A.J. Greimas, Sémiotique figurative et sémiotique plastique, «Actes Sémiotiques. Documents», 60, 1984) l’immagine può esser letta attraverso una griglia a due livelli (plastico e figurativo), legati da una relazione semi-simbolica.
16 C. Levorato, M. Massironi, Dall’immagine al linguaggio: uno studio dei processi percettivi implicati nella descrizione di figure, «Versus», 59-60, maggio-dicembre 1991, pp. 141-171.
17 Cfr. L. Maffei, A. Fiorentini, Arte e cervello, Bologna, Zanichelli, 2008.
18 Cfr. L. Taddio, Sull’immagine: una precondizione alla rappresentazione pittorica, «Rivista di Estetica», n. s., XLI, 17, febbraio 2001, pp. 155-161.
19 Woolf fa leva sulla competenza inferenziale del lettore, suggerendo campi semantici distanti dalla figura che vuole descrivere, in modo tale da alterarne la capacità di riconoscimento, ovvero la competenza referenziale. Sull’argomento cfr. D. Marconi, La competenza lessicale [1997], Roma-Bari, Laterza, 1999.
20 Cfr. R. Fedi, Le scritture dipinte. Modelli culturali e messaggi (anche) ideologici, in V. Garibaldi (a cura di), Beato Angelico e Benozzo Gozzoli. Artisti del Rinascimento a Perugia, Milano, Silvana Editoriale, 1998.
21 Cfr. P. Leonardi, Immagini e significato, «Versus», 103-105, gennaio-dicembre 2007, pp. 123-147.
22 V. Woolf, Pictures and Portraits, cit., p. 62.
23 R. Job, Relazioni tra fattori visivi e fattori semantici nell’identificazione di oggetti: alcuni dati neuropsicologici, «Versus», 59-60, maggio-dicembre 1991, pp. 197-206.
24 V. Woolf, Walter Sickert, cit., p. 192-194.
25 Ivi, p. 182.
26 Cfr. R. Morphet, Image and Theme in Bloomsbury Art, in R. Shone (ed.), The Art of Bloomsbury, London, Tate Gallery Publishing, 1999, p. 29: «Painting focus with unusual insistence on eyes and their arresting expressions. This, too, is a feature of the work of Piero». Allo stesso modo Goldman compara la costruzione circolare delle relazioni tra i personaggi di The Wavesalla chiusura circolare degli sguardi in The Conversation (1913-16) di Vanessa Bell (J. Goldman, The Feminist Aesthetics of Virginia Woolf, Cambridge, Cambridge University Press, 1998, pp. 148-149).
27 R. Fry, An Essay in Aesthetics, in Id., Vision and Design, London, Chatto & Windus, 1921, p. 23. Gli elementi emotivi del disegno traducono in pittura la relazione tra mondo della vita e rappresentazione estetica, e dotano le immagini di una tonalità passionale, generando sentimenti di attrazione, repulsione o distacco. Una correlazione tra questi e gli elementi passionali della letteratura nello stesso periodo è offerta da Mauron (C. Mauron, The Nature of Beauty in Art and Literature, London, The Hogarth Press, 1927) che paragona lo spessore psicologico del personaggio letterario – realizzato da Woolf con la tecnica del ‘tunneling process’ – al volume plastico in pittura.
28 Il termine fa riferimento alla dimensione passionale dell’analisi semiotica così come impostata da Greimas e Fontanille (A.J. Greimas, J. Fontanille, Sémiotique des passions: dès états de choses aux états d’âme, Paris, Seuil, 1991).
29 Di contro Banfield (A. Banfield, Mrs Dalloway, in F. Moretti (a cura di), Il Romanzo, Torino, Einaudi, 2001, V, pp. 815-824), considera le sperimentazioni dei racconti come «impressioniste» e colloca l’inizio della fase post-impressionista nella scrittura di Mrs Dalloway, argomentando tale tesi con il passaggio dalla prima persona dei racconti ‘sperimentali’ alla terza persona.
30 «The most obvious shift in emphasis from the first to second exhibition was from romantic to classic, reflected in the new predominance of Cubism» (J. Goldman, The Feminist Aesthetics of Virginia Woolf, cit., p. 130). La definizione ripete quanto affermato da Fry nella prefazione al Catalogo della seconda mostra postimpressionista (The French Post-Impressionist, in R. Fry, Vision and Design, cit., p. 169), che a sua volta riprende la distinzione di Hulme e del primo Imagismo tra arte classica, cioè geometrica, e arte romantica, cioè vitale.
31 B. Berenson, The Drawings of the Florentine Painters, Chicago, The University of Chicago Press, 1938.
32 V. Woolf, The Mark on the Wall, in S. Dick (ed.), The Complete Shorter Fiction of Virginia Woolf, London, The Hogarth Press, 1985, p. 84.
33 Cfr. G. Fauconnier, M. Turner, The Way We Think: Conceptual Blending and the Mind’s Hidden Complexities, New York, Basic Book, 2002, in cui si distingue uno spazio mentale (mental space), un’azione di ricognizione (cross-space mapping), e gli input generati dall’esperienza (input spaces), che nell’insieme producono uno spazio di fusione (blended space).
34 Fu pubblicato nel Dicembre 1929 su «Harper’s Magazine» e fu scritto con ogni probabilità negli anni immediatamente precedenti.
35 V. Woolf, The Lady in the Looking-Glass: A Reflection, in S. Dick (ed.), The Complete Shorter Fiction of Virginia Woolf, cit., p. 223.
36 C. Concilio, L’isotopia dello sguardo in alcuni racconti di Virginia Woolf, in O. Palusci (a cura di), La tipografia nel salotto, Torino, Tirrenia, 1999, p. 122.
37 La percezione del carattere tipografico o di segni diacritici della scrittura è da considerarsi uno stimolo narrativo per il lettore a tutti gli effetti. Sull’argomento cfr. G. Zaganelli, Apuntes sobre la lectura. El aporte de las ciencias cognitivas, «Alabe», 3, junio 2011, pp. 51-58.
38 Se ne contano appena 14 e tutti brevissimi: meno di un terzo di quelli presenti in The Voyage Out e la metà di quelli contati in Jacob’s Room, anche se tutti focalizzati sulla contrapposizione tra pittura narrativa e non narrativa.
39 Cfr. K. Stelmach, From Text to Tableau: Ekphrastic Enchantment in Mrs. Dalloway and To the Lighthouse, «Studies in the Novel», 38 (3), 2006, che parla a tal proposito di «redemptive defamiliarization».
40 A.O. Bell (ed.), The Diary of Virginia Woolf, II, cit., p. 270.
41 V. Woolf, Mrs Dalloway, London, The Hogarth Press, 1958, p. 31.
42 Ivi, p. 35.
43 Cfr. R. Crivelli, Forme e astrazione: Virginia Woolf e Wassily Kandinsky, in Id., Lo sguardo narrato, Roma, Carocci, 2003, pp. 127-139.
44 V. Woolf, To the Lighthouse, London, The Hogarth Press, 1950, p. 133.
45 Ivi, p. 128.
46 Racconto sperimentale di una sola pagina imperniato sul gioco di forme e colori. Pubblicato nel 1921 in Monday or Tuesday, viene poi escluso dalla raccolta A Haunted House.
47 V. Woolf, Blue & Green, in S. Dick (ed.), The Complete Shorter Fiction of Virginia Woolf, cit., p. 142.
48 V. Woolf, The Waves, London, The Hogarth Press, 1963, pp. 30-84.
49 Gombrich mostra come il movimento narrativo possa superare il limite del punctum temporis, inteso come visione simultanea di tutte le immagini, grazie ai fenomeni di persistenza e memoria di stimoli percettivi che in prima battuta risultano irriconoscibili o incomprensibili. Cfr. E. Gombrich, L’immagine e l’occhio. Altri studi di psicologia della rappresentazione pittorica [1982], trad. it. di A. Cane, Torino, Einaudi, 1985, pp. 37-63.
50 «Perfection of formal structure, with an internal logic as rigorous as that which characterizes mathematics or music» (A.B. Schlack, Creative Consciousness and the Natural World in Virginia Woolf’s The Waves, «Analecta Husserliana», XIV, 1983, p. 329).
51 V. Woolf, On Not Knowing Greek, in Ead., The Common Reader. Second Series, London, The Hogarth Press, 1945, p. 6.
52 Cfr. J. Bruner, The Narrative Construction of reality, «Critical Inquiry», 18, pp. 1-21.
53 Cfr. D. Herman, Stories as a Tool for Thinking, in Id. (ed.), Narrative Theory and the Cognitive Sciences, Stanford (CA), CSLI Publications, 2003, pp. 163-192.