3.3. Bitter Blaubart. Il barbaro Barbablù di Eulenberg tra scandalo teatrale e successo operistico

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Barbablù fa il suo ingresso nel teatro e nella letteratura tedeschi grazie alla favola teatrale di Ludwig Tieck (edita in quattro atti nel 1797, poi in cinque nel 1812). Rudolf Haym (1870, pp. 90 sgg.), giudicava l’impresa intrinsecamente impossibile: la dimensione fantastica e illogica della fiaba sarebbe costitutivamente incompatibile con i rapporti di causalità e il realismo richiesti dalla scena, sicché Blaubart potrebbe essere tollerato in teatro, grazie al potere de-realizzante della comicità e della musica, tutt’al più come musikalische Zauberposse (farsa magica in musica). Il dramma di Tieck conobbe effettivamente una fortuna scenica particolarmente scarsa a suo tempo, e nel Novecento (il secolo che pure ha reso possibile spesso in teatro ciò che in passato era ritenuto impossibile) esitò addirittura in un terribile Theaterskandal (Residenztheater di Monaco, regia di Jürgen Fehling, 1951).

Il caso di Herbert Eulenberg, dunque, sembra paradigmatico alla luce di tali premesse: rappresentato nel 1906 come dramma in prosa, il suo Barbablù si dimostrò un solenne fiasco e un eclatante Theaterskandal; riproposto nel 1920, questa volta riadattato a libretto per la musica di Rezniceck, riscosse invece un discreto successo [fig. 1]. Quando nel 1905 pubblica Ritter Blaubart (Cavaliere Barbablù) Eulenberg – autore oggi pressoché dimenticato o ricordato come degno di oblio, ma che, soprattutto tra il 1910 e l’inizio della prima guerra mondiale, godette di larghissimo favore sulle scene tedesche – era praticamente uno sconosciuto per i grandi teatri di Berlino. Improvvisamente i due maggiori uomini di teatro dell’epoca, Otto Brahm e Max Reinhardt, s’interessano al suo testo. Il primo portando nel 1889 gli Spettri di Henrik Ibsen e Prima dell’alba di Gerhard Hauptmann (epocale scandalo teatrale) alla Freie Bühne aveva ‘rivoluzionato’ le scene tedesche e inaugurato il naturalismo; il secondo, formatosi alla scuola di Brahm, era diventato il regista antinaturalista per eccellenza, deciso a bandire il grigiore della vita quotidiana e a recuperare la magia dello spettacolo.

Il testo di Eulenberg, d’indole marcatamente antirealistica, sembra fatto apposta per scatenare l’estro registico di Reinhardt, eppure, l’8 novembre 1906, Ritter Blaubart debutterà al Lessing Theater – il teatro di Otto Brahm – con la regia di Rudolf Lenoir. L’esito fu non solo un solenne e clamoroso insuccesso, ma un vero e proprio Theaterskandal, con burrascosa reazione indignata del pubblico. Proprio nello stesso giorno, Reinhardt inaugurava i Kammerspiele con la propria regia degli Spettri e, il 20 dello stesso mese, metteva in scena il Risveglio di primavera di Frank Wedekind che, dopo quindici anni di resistenze, veniva finalmente premiato con uno straordinario successo, diventando lo spettacolo più significativo della stagione [fig. 2]. L’opera di Eulenberg è preceduta da due paratesti che sgombrano ogni dubbio sui propri destinatari: non coloro per cui la vita scorre come un orologio senza essere turbata da domande, bensì coloro che sono aperti al mistero della vita. Rivolgendosi ai primi, l’autore afferma: «Morite la vita con ragionevolezza e decoro!» (Eulenberg 1925, p. 273);[1] mentre ai secondi precisa: «Vi voglio scuotere e risvegliare [wachrütteln], non piacere» (p. 277), esponendosi, peraltro, alla facile ironia di August Spanuth (1906): «Il pubblico gli ha usato la cortesia di non lasciarsi piacere l’opera ed era talmente sveglio che ha sollevato un enorme tumulto».

Nel primo atto Blaubart intrattiene i suoi ospiti imprevisti, il conte Nikolaus e suo figlio Werner, con l’agghiacciante racconto di quando, sorpresa la moglie in intimità con il suo migliore amico, lo uccise, scaraventandone poi il corpo nello stagno sottostante (salvo dover ripetutamente sparare al cadavere perché smettesse di tornare a galla), mentre lei morì di spavento. Che non si tratti di uno scherzo, come si affretta a dichiarare ridendo Blaubart, appare chiaro quando, subito dopo, lo ritroviamo in cantina ad affrontare i propri demoni davanti a «cinque teste di donna sanguinanti e in putrefazione dentro delle scodelle bianche» (p. 286). Nel secondo atto, Blaubart, che ha bell’e sposato la figlia maggiore di Nikolaus, Judith, interrompe bruscamente il banchetto di nozze («Io sono un mascalzone, ascoltate tutti, sono un mascalzone […] voi schiavi della ragione non potete dimostrare niente […] non sapete niente di me […] Non ho niente in comune con voi […]. Non avete niente di labirintico nei vostri cadaveri. Vivete finché gustate! Poi è finita e tutto il vostro enigma è risolto», p. 290). Lei, che lo ama e lo teme in egual misura, lo segue avviandosi a un destino che pure vorrebbe evitare («Cosa ci attira mai a chinarci verso l’abisso?», p. 297).

Il terzo atto è quello della ben nota prova: Blaubart consegna alla moglie la chiave di cui non dovrà servirsi («Non sai niente di te stessa. Aspetta e vedrai! Ecco la chiave che ti apre», Ivi, p. 302). Judith finisce, come pre-scritto, per aprire la porta proibita, scoprendo così il segreto di Blaubart e, nel contempo, il suo proprio mistero, ovvero il suo destino di morte. Nel quarto atto, al funerale della moglie, Blaubart, dopo aver esortato brutalmente il becchino a chiudere in fretta quella farsa, seduce e porta con sé la figlia più piccola di Nikolaus, Agnes. Il servo di Blaubart, Josua tenta inutilmente di salvare la prossima vittima, finendo per appiccare un incendio nel bosco e Agnes, nell’ultimo atto, si suicida prima che possa giungere il fratello in suo soccorso. A Werner quindi non resta che uccidere Blaubart, eppure, commosso, dichiara: «Era una persona degna di compianto, costui che dovette morire» (p. 324); mentre Nikolaus conclude: «Niente affatto! Vieni! Lascialo bruciare assieme al suo castello. Vada tutto al diavolo!» (ibid.).

Niente happy ending, dunque: Barbablù non lascia una ricca vedova. L’ipotesto La Barbe bleue di Perrault – ma filtrato attraverso l’ironica teutonizzazione di Tieck, che trasportava la vicenda in un medioevo germanico, parodiando i romanzi e i drammi cavallereschi all’epoca tanto in voga – viene caricato di significati simbolici, di slanci titanici, di atmosfere gotiche con accenti satanici, di inquietudini esistenziali e aneliti all’assoluto, alla disperata ricerca dell’enigma dell’esistenza, in traccia del quale è facile smarrirsi nella perdizione e nell’abiezione. Il tutto reso con repentini cambi di tono e di stile, quasi a voler continuamente suggerire e disattendere le aspettative del lettore-spettatore, passando da – talora ispirate – effusioni liriche, alla più triviale e grottesca comicità. Insomma, un testo difficilmente inquadrabile nelle coordinate del dramma naturalistico, di cui sembra piuttosto una confutazione, ma all’interno del quale – complice l’egida di Brahm – venne a suo tempo ricondotto e, così commisurato, ritenuto fallimentare dalla critica e indigeribile dal pubblico.

Nelle riserve espresse dai recensori, oltre agli appunti sulla scabrosità di alcune scene, riemergono le obiezioni di principio fatte valere a suo tempo da Haym contro Tieck, con l’aggravante che in Eulenberg sarebbe presente l’incongruo tentativo di voler dare profondità psicologica al protagonista, fornendo motivazioni per il suo comportamento: il tradimento da parte di amico e moglie e l’educazione inadeguata («Mia madre mi ha viziato, mio padre mi ha frustato ed entrambi mi hanno avvelenato l’esistenza», p. 284). Più che un giudizio critico, Blaubart sembrava sollecitare una diagnosi psicopatologica particolarmente infausta.

Eppure non è da credere che la rappresentazione fosse affidata a interpreti di scarso valore. I panni di Blaubart erano indossati nientemeno che dall’attore di punta di Brahm, quel Rudolf Rittner ritratto proprio in quel 1906 da Lovis Corinth nei panni di Florian Geyer, il protagonista dell’omonimo dramma storico-rivoluzionario di Hauptmann portato un paio d’anni innanzi al successo, dopo che alla prima nel 1896 era stato un fiasco [fig. 3]. E proprio dal quadro di Corinth possiamo ricavare indirettamente un’idea di come dovette apparire sulle scene il primo Blaubart eulenberghiano.

Non manca qualche isolato apprezzamento per il testo, come quello di Paul Wiegler che, nel 1909, salutava nel Ritter Blaubart un autentico spirito tedesco, che non rinuncia ai tratti barbarici a dispetto delle edulcorate versioni latine: «Eulenberg ha saputo rivivere nel suo animo caparbio questa atmosfera tedesca di Blaubart […] ciò che era più caro alla nostra comune giovinezza: il brivido della notte, confusione e solitudine» (Wiegler 1909, p. 1680).

Quando nel 1920, riadattato a libretto d’opera, sfrondato a tre atti (con l’eliminazione di alcuni episodi e personaggi, come il quarto figlio di Nikolaus, Anton, indebitato ubriacone molesto senza prospettive, e pertanto suicida) e dotato di un nuovo finale (Blaubart non muore più per mano di Werner, ma si getta volontariamente nell’incendio, consegnandosi alla fiamma quale sua ‘ultima moglie’, alla ricerca della liberazione/redenzione della propria anima), questo Barbablù tornò in scena il 29 gennaio 1920, questa volta a Darmstadt e con le musiche di Nikolaus Reznicek, l’accoglienza fu più calorosa e in qualche caso promosse un riesame del dramma, ma non la sua piena riabilitazione.

In definitiva, era merito della musica se gli aspetti più disturbanti del libretto riuscivano sopportabili, sicché non tanto al drammaturgo quanto piuttosto al compositore era ascrivibile il successo, tanto che Ritter Blaubart (eseguito e inciso nel 2002 dall’orchestra sinfonica della radio di Berlino diretta da Michail Jurowski, nonché riallestito il 4 maggio 2012 ad Augusta con tanto di colpo di scena, quando, a dieci minuti dalla fine, il direttore d’orchestra Dirk Kaftan ebbe un mancamento) viene oggi considerato il capolavoro di Reznicek, la cui fama, peraltro, non sopravanza quella dell’ormai pressoché dimenticato Eulenberg.

 

 

Bibliografia

H. Eulenberg, Ritter Blaubart. Ein Märchenstück in fünf Aufzügen (1905), in Id., Ausgewählte Werke in 5 Bänden, Bd. 2 Dramen aus der Jugendzeit, Stuttgart, Engelhorn, 1925, pp. 271-324.

H. Eulenberg, Ritter Blaubart. Ein Märchenstück in drei Aufzügen, Musik von E.N. von Reznicek, Wien, Universal-Edition, 1920.

R. Haym, Die romantische Schule. Ein Beitrag zur Geschichte des deutschen Geistes, Berlin, Rudolph Gaertner, 1870.

A. Spanuth, ‘Berliner Plauderei’, Indiana Tribüne, 1 dicembre 1906.

P. Wiegler, ‘Der gute Blaubart’, Die Neue Rundschau, 4, 1909, pp. 1679-80.


1 Tutte le traduzioni sono mie.