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  • Barbablù. Il mito al crocevia delle arti e delle letterature →

 

 

Barbablù fa il suo ingresso nel teatro e nella letteratura tedeschi grazie alla favola teatrale di Ludwig Tieck (edita in quattro atti nel 1797, poi in cinque nel 1812). Rudolf Haym (1870, pp. 90 sgg.), giudicava l’impresa intrinsecamente impossibile: la dimensione fantastica e illogica della fiaba sarebbe costitutivamente incompatibile con i rapporti di causalità e il realismo richiesti dalla scena, sicché Blaubart potrebbe essere tollerato in teatro, grazie al potere de-realizzante della comicità e della musica, tutt’al più come musikalische Zauberposse (farsa magica in musica). Il dramma di Tieck conobbe effettivamente una fortuna scenica particolarmente scarsa a suo tempo, e nel Novecento (il secolo che pure ha reso possibile spesso in teatro ciò che in passato era ritenuto impossibile) esitò addirittura in un terribile Theaterskandal (Residenztheater di Monaco, regia di Jürgen Fehling, 1951).

Il caso di Herbert Eulenberg, dunque, sembra paradigmatico alla luce di tali premesse: rappresentato nel 1906 come dramma in prosa, il suo Barbablù si dimostrò un solenne fiasco e un eclatante Theaterskandal; riproposto nel 1920, questa volta riadattato a libretto per la musica di Rezniceck, riscosse invece un discreto successo [fig. 1]. Quando nel 1905 pubblica Ritter Blaubart (Cavaliere Barbablù) Eulenberg – autore oggi pressoché dimenticato o ricordato come degno di oblio, ma che, soprattutto tra il 1910 e l’inizio della prima guerra mondiale, godette di larghissimo favore sulle scene tedesche – era praticamente uno sconosciuto per i grandi teatri di Berlino. Improvvisamente i due maggiori uomini di teatro dell’epoca, Otto Brahm e Max Reinhardt, s’interessano al suo testo. Il primo portando nel 1889 gli Spettri di Henrik Ibsen e Prima dell’alba di Gerhard Hauptmann (epocale scandalo teatrale) alla Freie Bühne aveva ‘rivoluzionato’ le scene tedesche e inaugurato il naturalismo; il secondo, formatosi alla scuola di Brahm, era diventato il regista antinaturalista per eccellenza, deciso a bandire il grigiore della vita quotidiana e a recuperare la magia dello spettacolo.

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Quando scrisse Platonov, Anton Pavlovič ÄŒechov era uno studente di medicina di appena vent’anni: nonostante i numerosi interventi di revisione, l’opera non fu mai rappresentata né pubblicata mentre il suo autore era in vita: ritrovata dal fratello in un cassetto della sua scrivania, venne pubblicata postuma e senza titolo nel 1920. Da allora, però, non sono mancati adattamenti e riscritture, sebbene il lavoro sia stato spesso considerato non rappresentabile, trattandosi di un’opera di oltre 230 pagine, con ventitré personaggi, scene incomplete e un finale irrisolto. Tra queste riproposizioni si situa adesso la messinscena curata da Marco Lorenzi, giovanissimo regista della compagnia torinese Il Mulino di Amleto, insieme a Lorenzo De Iacovo, a partire da un’esperienza di residenza d’artista in cui il regista e la compagnia si sono immersi nel testo čechoviano, come ha spiegato l’attore Angelo Maria Tronca incontrando il pubblico in occasione della rappresentazione l’8 febbraio 2020 al Teatro Massimo (Cagliari): «L’italiano è l’unica lingua che usa il verbo ‘recitare’, ‘citare di nuovo’, in riferimento al lavoro attoriale; le altre lingue impiegano il verbo ‘giocare’, che è esattamente quello che fa un attore, ed è quello che abbiamo fatto noi nel portare in scena il Platonov di ÄŒechov».

La dimensione, solo apparentemente leggera, del gioco è evidente sin dal modo in cui gli attori accolgono il pubblico a teatro, offrendo agli spettatori generosi cicchetti di vodka, a rappresentare la russità čechoviana e a preannunciare l’intima connessione tra la scena e lo spazio circostante che si concretizzerà durante i cento minuti della pièce. Le luci non si sono ancora spente, le attrici e gli attori sono già seduti al lato della scena; a un certo punto, un giovane con ai piedi un paio di infradito si alza, accende uno zampirone e si spruzza dello spray antizanzare sotto le ascelle, dopodiché si reca alla postazione tecnica sulla sinistra del palco. Tutt’attorno regna il silenzio, se non fosse per un ticchettio nevrotico, incalzante, che amplifica l’attesa. Una delle attrici si avvicina al grande tavolo posto al centro del palco e inizia ad affettare una cipolla su un tagliere di legno: è scossa da un pianto sommesso, senza lacrime, dal quale, però, si riprende subito. Ancora non conosciamo il suo nome, né quale sia il motivo del suo tormento, ma proviamo per lei una sincera empatia: l’attrice è Roberta Calia e il vestito arioso che indossa è quello della gaudente e sensuale Anna Petrovna, vedova del Generale Voinìtsev e proprietaria terriera.

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