Il Mulino di Amleto, Platonov. Un modo come un altro per dire che la felicità è altrove

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Quando scrisse Platonov, Anton Pavlovič Čechov era uno studente di medicina di appena vent’anni: nonostante i numerosi interventi di revisione, l’opera non fu mai rappresentata né pubblicata mentre il suo autore era in vita: ritrovata dal fratello in un cassetto della sua scrivania, venne pubblicata postuma e senza titolo nel 1920. Da allora, però, non sono mancati adattamenti e riscritture, sebbene il lavoro sia stato spesso considerato non rappresentabile, trattandosi di un’opera di oltre 230 pagine, con ventitré personaggi, scene incomplete e un finale irrisolto. Tra queste riproposizioni si situa adesso la messinscena curata da Marco Lorenzi, giovanissimo regista della compagnia torinese Il Mulino di Amleto, insieme a Lorenzo De Iacovo, a partire da un’esperienza di residenza d’artista in cui il regista e la compagnia si sono immersi nel testo čechoviano, come ha spiegato l’attore Angelo Maria Tronca incontrando il pubblico in occasione della rappresentazione l’8 febbraio 2020 al Teatro Massimo (Cagliari): «L’italiano è l’unica lingua che usa il verbo ‘recitare’, ‘citare di nuovo’, in riferimento al lavoro attoriale; le altre lingue impiegano il verbo ‘giocare’, che è esattamente quello che fa un attore, ed è quello che abbiamo fatto noi nel portare in scena il Platonov di Čechov».

La dimensione, solo apparentemente leggera, del gioco è evidente sin dal modo in cui gli attori accolgono il pubblico a teatro, offrendo agli spettatori generosi cicchetti di vodka, a rappresentare la russità čechoviana e a preannunciare l’intima connessione tra la scena e lo spazio circostante che si concretizzerà durante i cento minuti della pièce. Le luci non si sono ancora spente, le attrici e gli attori sono già seduti al lato della scena; a un certo punto, un giovane con ai piedi un paio di infradito si alza, accende uno zampirone e si spruzza dello spray antizanzare sotto le ascelle, dopodiché si reca alla postazione tecnica sulla sinistra del palco. Tutt’attorno regna il silenzio, se non fosse per un ticchettio nevrotico, incalzante, che amplifica l’attesa. Una delle attrici si avvicina al grande tavolo posto al centro del palco e inizia ad affettare una cipolla su un tagliere di legno: è scossa da un pianto sommesso, senza lacrime, dal quale, però, si riprende subito. Ancora non conosciamo il suo nome, né quale sia il motivo del suo tormento, ma proviamo per lei una sincera empatia: l’attrice è Roberta Calia e il vestito arioso che indossa è quello della gaudente e sensuale Anna Petrovna, vedova del Generale Voinìtsev e proprietaria terriera.

È estate, come suggerisce il brano dei Noir Désir, Le vent nous portera, che invita a godersi il momento prima che si alzi la marea, e Anna si appresta a ricevere gli ospiti nella sua tenuta di campagna, messa all’asta a causa della crisi economica che investe la Russia di fine Ottocento. I preparativi sono un momento gioioso per la padrona di casa e per gli invitati, intenti ad apparecchiare la tavola e a versare la vodka nei bicchieri al ritmo della musica. Le riprese dell’evento realizzate con uno smartphone e proiettate in tempo reale su uno schermo posto sulla parete di fondo ci permettono di esperire un doppio livello narrativo e cronologico: ambientata nella Russia degli anni Ottanta del secolo XIX, la storia rivive nella dimensione scenica e mediale di oggi. La compagnia è quasi al completo, la cena sta per essere servita quando arrivano – in ritardo – gli ultimi due ospiti, Mikhail ‘Platonov’ Vassilevič e sua moglie Saša: che i festeggiamenti abbiano inizio.

Platonov, interpretato da un energico Michele Sinisi, è sia il protagonista del dramma sia l’epicentro dei malumori e delle tensioni che affioreranno durante la serata, scombussolando gli equilibri tra i vari personaggi. Il cinismo e il sarcasmo sono maschere dietro le quali si nasconde un individuo velleitario che non ha mai avuto la forza di lottare per i propri ideali:

 

Forse la verità è che in me non c’è mai stato niente da impedire / io non sono venuto al mondo per fare / sono stato messo qui per ostacolare gli altri / per starmene fermo come una grossa creatura / come un sasso per farli inciampare / stare immobile e aspettare perché sono gli altri che prima o poi vengono a sbattere contro di me.

 

Le battute del protagonista – nella versione di Lorenzi e De Iacovo – sono un concentrato di ironia e amarezza che ne rivelano l’indolenza e la vigliaccheria: Platonov è il primo dei tipici falliti čechoviani, caratterizzati da una «volontà paralitica, fluttuanti come alghe dentro uno stagno», come scrive Angelo Maria Ripellino nel Teatro teatro di Cechov (in Letteratura come itinerario nel meraviglioso, Einaudi, 1968, p. 105).

Il Platonov di Čechov rappresenta la vita nel suo flusso di eventi monotono e ripetitivo, e anche i continui riferimenti al clima – il caldo insopportabile, l’afa – manifestano l’incapacità dei personaggi di comunicare tra di loro e di evolversi dalla loro condizione di ‘monadi’, di individui chiusi in sé stessi, immobili e insofferenti, per i quali «il dialogo non è […] un tramite di comprensione, ma un’incollatura di divergenti soliloqui» (ivi, p. 113). Nella versione del Mulino di Amleto è il personaggio eponimo a erompere in un soliloquio sulla felicità umana, che «ti sfiora soltanto le labbra», e sul senso della vita: «Possibile che per me sia giunta già la fine? Devo vivere / vivere ancora / sono ancora giovane io!», urla Platonov all’apice del suo sfogo solitario. ‘Felicità’, ‘passato’ e ‘vita’ sono termini ricorrenti nei discorsi dei personaggi: «la vita… la vita va», risponde un’imbarazzata Sof’ja Egòrovna (Barbara Mazzi) a Mikhail Vassilevič; lei gli rimprovera di vivere nel passato, e nel frattempo cerca di sfuggire alla bramosia dei suoi occhi, in fondo desiderosa di ritrovarvi una scintilla del passato comune. E ancora: «La vita / Sof’ja / la vita! Perché non viviamo come avremmo potuto?»; la domanda che Mikhail rivolge alla donna in realtà è diretta a tutti noi, destinatari dell’opera di Čechov, depositari del suo lascito di umanità.

E poi la crisi, i debiti, la tenuta di Anna Petrovna all’asta: sono temi che tornano più volte come una cantilena, che il personaggio affronta con lo spirito del carpe diem più che con l’angustia del memento mori. Il latinorum è la cifra stilistica del personaggio di Porfìri Semionòvič (Stefano Braschi), un individuo a metà strada tra la macchietta e un potenziale deus ex machina che dovrebbe salvare la padrona di casa dalla rovina e intanto la corteggia in modo spudorato; suo figlio Kirill Porfìrievič Glagòlev (Angelo Maria Tronca) è la personificazione del piccolo borghese che non riesce a tenere a freno le sue pulsioni; Sergej Pàvlovič Voinìtsev (Raffaele Musella) è un insegnante di scuola media che vorrebbe dedicarsi al teatro – anche lui, come gli altri personaggi, ha altro per la testa. Nel suo progetto di mettere in scena l’Amleto di Shakespeare si riflette, per la legge del contrappasso, la mediocrità dell’uomo čechoviano incapace di portare a compimento i suoi piani. Platonov ce lo descrive come «tutto occhi per sua moglie» Sof’ja, e in effetti lo smartphone con cui riprende lei e gli altri ospiti funge da estensione digitale del suo sguardo, percezione intima che si fa pubblica condivisione. Infine, c’è Osip (Yuri D’Agostino), etichettato come assassino e ladro di cavalli, da tutti evitato e al contempo cercato per piccoli favori che celano l’ipocrisia e la meschinità di ognuno dei presenti. Osip è in realtà un personaggio ‘polifonico’ nel senso bachtiniano del termine: legge il copione seduto su un baule in fondo al palco; osserva la scena dal di fuori ma i suoi occhi vedono più di quello che gli altri personaggi sanno o sentono; la sua voce è autonoma rispetto a quella del narratore ma in più di un’occasione ne assume il ruolo, colmando i vuoti scenici e narrando ciò che avviene tra un atto e l’altro. «Normalmente al termine del terzo atto comincia a piovere / normalmente piove per tutto il quarto atto», ci informa Osip: il meteo asseconda l’atmosfera della festa, una coreografia di menzogne e verità che lentamente vengono a galla, svelando desideri e inquietudini ma non senza rivelare le reali intenzioni degli individui.

Uno degli elementi principali della scenografia è la vetrata che separa lo spazio diegetico in due ambienti: in primo piano, si consuma la recita della vita ‘così com’essa è’, fatta di tradimenti e sotterfugi, amori fraudolenti e crisi matrimoniali; in secondo piano, al di là della vetrata, i personaggi danzano, scherzano tra loro e si riprendono con il cellulare. Il loro tumulto interiore si contrappone quindi a un’azione che anziché progredire si avviluppa su sé stessa, causando equivoci e dolore. L’attenzione per i dettagli che caratterizza il lavoro ‘chirurgico’ di Čechov è qui riproposta in chiave multimediale: le immagini proiettate sullo schermo rappresentano un tentativo di penetrare nella carne e negli stati d’animo dei personaggi, facendoceli sentire ancora più vivi e prossimi.

Anche la musica assolve un’importante funzione scenica e narrativa: i dieci brani che compongono la playlist della messinscena, una mescolanza di generi e sonorità del panorama musicale odierno, calano l’azione nella contemporaneità e contribuiscono a dilatare i tempi. La riproduzione in loop di Tango till they’ll sore di Tom Waits crea l’illusione che un evento si ripeta più volte o che la percezione dello stesso muti a seconda del punto di vista di chi è in scena; Bye Bye Macadam dei Rone esplode nel cambio di scena con le sue ritmiche convulse e sintetiche, mentre Platonov fa vorticare Sof’ja in piedi al centro della vetrata, il cui movimento rotatorio evoca l’immagine delle lancette di un orologio impazzito. La sinfonia di luci progettata da Giorgio Tedesco dinamizza l’intreccio, lo drammatizza, e al contempo dà spessore alle emozioni, plasma la tensione crescente che aderisce ai corpi dei personaggi e ne piega la voce.

Nel finale, tutti i personaggi si riuniscono sul palco per accommiatarsi (da Mikhail Platonov? dal pubblico?), mentre la voce di Osip si leva dal coro:

 

Normalmente la tenuta di Anna e Voinitsev viene messa all’asta ma Portfirij Semenovic non si presenta per l’acquisto / la tenuta viene persa per sempre // normalmente Voinitsev / abbandonato / tenta il suicidio e fallisce/ e la pistola finisce tra le mani di Sof’ja, che la punta contro Platonov / e normalmente Platonov muore / quasi per caso // ma non questa sera // nella prima commedia di Čechov / Platonov / a un certo punto compare una pistola / e così nella seconda / nella terza e così via / tranne nell’ultima / lì / non compare nessuna pistola / come se Čechov avesse bisogno che si facesse qualcosa di diverso che morire / La vita! Perché non viviamo come avremmo potuto? Ecco / finché non ci sarà una risposta a questa domanda abbiamo bisogno / abbiamo voglia di continuare a vivere!

 

Sulle note di Sweet Child o’ Mine dei Guns N’ Roses, finalmente cade la pioggia, catartica.

Un modo come un altro per dire che la felicità è altrove recita il sottotitolo dello spettacolo: è una felicità impossibile quella agognata dagli uomini e dalle donne del Platonov, un’ebbrezza effimera provocata dalla vodka che velocemente evapora, convertendo il riso in pianto; ed è proprio questa tensione verso la felicità irraggiungibile che fa di loro individui imperfetti e vulnerabili.

Trattandosi di un testo della giovinezza, Platonov si presenta come un laboratorio di sperimentazione in cui Čechov ha elaborato forme, temi e simboli che saranno ripresi e sviluppati nelle opere successive – ne è un esempio il gabbiano che precipita sul palco dopo essere stato colpito dalla pistola di Sergej Voinìtsev. Anche per questo la sfida del Mulino di Amleto è stata di far rivivere nel testo i temi portanti dell’intero repertorio čechoviano: l’animo umano colto nel suo vortice di emozioni; i tormenti e l’oppressione della quotidianità; l’ossessione del passato e l’incapacità di vivere il presente, in ogni ‘altrove’ possibile.

 

Visto l’8 febbraio 2020, Teatro Massimo (Cagliari), organizzato da CeDAC/Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo Sardegna, La Grande Prosa, Stagione 2019/2020

 

Uno spettacolo di Il Mulino di Amleto da Anton Pavlovič Čechov regia Marco Lorenzi; riscrittura Marco Lorenzi, Lorenzo De Iacovo; attori Stefano Braschi, Roberta Calia, Yuri D'Agostino, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Rebecca Rossetti, Michele Sinisi, Giorgio Tedesco, Angelo Maria Tronca; regista assistente Anne Hirth; style e visual concept Eleonora Diana; disegno luci Giorgio Tedesco; costumi Monica Di Pasqua; foto di scena Manuela Giusto; produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Teatro Piemonte Europa, Festival delle Colline Torinesi; con il sostegno di La Corte Ospitale-Progetto residenziale 2018; in collaborazione con Viartisti; per la residenza al Parco Culturale Le Serre; durata 100 minuti