Il pubblico fermo su una sedia, o sdraiato su un lettino oppure itinerante nelle viscere della fiaba, cammina con me... erra con me. So dove devo arrivare, ma non conosco completamente la strada perché solo con le mucche, i gatti, le pecore, i leoni e i bambini succederà qualcosa.[1]
Dal 2006 Chiara Guidi, fondatrice con Romeo e Claudia Castellucci e con Paolo Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio, oggi Socìetas, si dedica da sola a un percorso di ricerca sull’infanzia sia attraverso la creazione di spettacoli teatrali sia incontrando personalmente adolescenti, educatori, educatrici e genitori all’interno di attività di formazione, corsi di aggiornamento e, a Cesena, nelle giornate di puericultura teatrale nell’ambito di Puerilia.
Chiara Guidi porta avanti un’indagine concepita, pensata e scritta con in mente l’infanzia e i suoi lavori danno voce a una domanda piuttosto che a una sentenza finale che interessa tanto i bambini quanto gli adulti. Ai più grandi è infatti concessa una visione della scena soltanto se essi sono disposti a lasciarsi andare e affinare lo sguardo, mimando la plasticità e la destrezza di visione dei piccoli spettatori in prima fila, letteralmente immersi nella situazione rappresentata.
Sin dagli esordi un numero significativo di lavori, aperti alla presenza chiassosa e divaricante dei bambini, è dedicato alla ricezione dell’antico e alla polisemia dei miti, portando alla luce ciò che ancora essi sono capaci di raccontare. E dato che «i miti non hanno già sempre quel significato che viene loro conferito»[2] e aumentano il loro potere a seconda della forma in cui ciascuno di noi li include, i materiali di provenienza mitica vengono ridisegnati da Guidi, per la scena, attraverso la lente della fiaba, portatrice anch’essa di un enigma impenetrabile e di una crudeltà che assorbe il senso del tragico. «Così le fatiche di Ercole valgono quindi quelle di Pollicino o di Pinocchio»,[3] si legge nella scheda dello spettacolo Le fatiche di Ercole. Se nella maggior parte dei casi gli allestimenti di tutti i suoi lavori puntano alla costruzione di un’architettura del racconto espansa nello spazio e da attraversare a piedi, nell’ultimo lavoro, Edipo. Una fiaba di magia (2019), le vicende sono tutte contenute all’interno della scatola scenica. Prima di mettere a fuoco alcuni elementi che contraddistinguono quest’ultima opera, possiamo soffermarci brevemente sulla visione inedita a cui si sottopone lo spettatore durante i suoi spettacoli.
1.Forme dello sguardo, forme dello spazio
Dal 1992 le sale del Teatro Comandini di Cesena accolgono gli allestimenti faraonici e a tutti gli effetti anti-economici, come li giudica la stessa Guidi, di tutti i suoi lavori a cominciare dal primo progetto, Le favole di Esopo, in cui bambini e genitori, accompagnati da una narratrice, sono chiamati a calpestare letteralmente le pagine del testo attraversando le sale abitate da animali in carne ed ossa. Anche nei lavori successivi, come Buchettino, Fiabe giapponesi, Pelle d’asino, Bestione, La terra dei lombrichi. Una tragedia per bambini, tratto dall'Alcesti di Euripide, solo per citarne alcuni, la rappresentazione provoca uno sconfinamento della scena, laddove la fiaba si concede nella sua letteralità più stringente, dispiegandosi sotto forma di luoghi, segni e oggetti disseminati nello spazio «secondo una modalità itinerante che regola la presenza dei piccoli spettatori mediante un progetto drammaturgico di partecipazione attiva».[4] La scena, apparecchiata e preparata prima dell’inizio dello spettacolo secondo una regola e una forma, attende lo spettatore e infine lo assorbe, presagendo i suoi movimenti e incoraggiando un suo calpestio cadenzato.
Il Teatro infantile deve costruire il tempo di ogni successione narrativa e battere il ritmo variegato dei passaggi. Non deve trascurarne alcuno: prima la casa dei genitori, poi il bosco, poi la strega, poi il ritorno a casa. Non è una mera cronologia di eventi ma il disegno articolato di un tempo che, riunendo gli eventi intorno a sé, li condensa nello spazio di una storia e li orienta. Ogni attimo va scandito con la stessa precisione e densità di una pennellata che si somma a un’altra.[5]
Lo spazio, allora, si presenta allo spettatore come rovesciato: «I nostri spettacoli sono privi di prospettiva, perché siamo contrari alla prospettiva»,[6] si legge in una conversazione con i quattro membri del gruppo raccolta e trascritta da Oliviero Ponte di Pino negli anni Ottanta.
Lo spettatore infante non si trova davanti a un’immagine unica e fissa, data una volta per tutte e da contemplare come da una fessura e con un solo occhio, ma è chiamato, invece, ad andare incontro alla scena e assumere di volta in volta su ciò che accade delle visioni frontali, laterali oppure dal basso. Insomma è incoraggiato a muoversi, cambiare posto e sperimentare tutti gli ambienti, contraddistinti da tanti centri prospettici. Le rappresentazioni nei lavori del Teatro infantile, delineate da curve, strettoie, cunicoli e rigonfiamenti, seguono così una morfologia dell’abnorme e dell’eccesso, scatenando una varietà di sguardi e azioni possibili. È come se un senso dello spazio, uno soltanto, non possa essere rintracciabile: forse di spazio ce n’è fin troppo e non possiamo appellarci a un’unità della scena. Al contrario scegliere per la scena una rappresentazione prospettica può significare che:
l’occhio guarda restando immobile e impassibile, come una lente ottica. Esso non compie il benché minimo movimento: non può e non ha il diritto di muoversi, sebbene la condizione essenziale della visione sia l’attività, l’attiva ricostruzione della realtà nella visione, in quanto funzione dell’essere vivente. Inoltre, questo guardare non è accompagnato né da ricordi né da sforzi spirituali o di riconoscimento. Si tratta di un processo esteriore e meccanico, o al massimo fisico-chimico, ma comunque ben lontano da quello che noi chiamiamo visione. Tutto il momento psichico della visione, come anche quello fisiologico, è completamente assente.[7]
Optare per una rappresentazione prospettica può generare, allora, un mondo immobile, in cui non è prevista nessuna attività, nessun movimento, se non la sola contemplazione per lo spettatore di un quadro sempre identico e impassibile. Possiamo sostenere che i lavori della Guidi si liberano dello schema prospettico – di questo recinto di visione formale – per abbracciare tutti i punti del quadro infinito, non eleggendone uno solo che si elevi come punto esclusivo. Il pubblico è infatti incoraggiato ad assumere tante posizioni, dotarsi di uno sguardo pre-prospettico equiparabile alla postura che un bambino assume nel corpo a corpo con il foglio bianco. In età infantile le invenzioni grafiche, in fin dei conti, sono un modo originale di afferrare il mondo e raffigurarselo.[8] Sarà più naturale, allora, per il piccolo spettatore contemplare una visione, non orientata a un’immagine racchiusa entro una cornice secondo delle regole meccaniche, ma tesa a spingersi oltre un limite. Egli è chiamato a partecipare come presenza attiva al farsi dell’opera, riconducibile quasi a una pratica ludico-rituale generativa di una dimensione comunitaria e di possibilità inaspettate. Valentina Valentini adopera il concetto di «opera-mondo»[9] per identificare tutti quei testi che a teatro abbracciano il formato installazione, che permette all’indagine di uscire fuori del palcoscenico e di stimolare una percezione aptica. Il bambino può muoversi, spostarsi, camminare, fingere e giocare seriamente e infine ascoltare una storia e crederci fino in fondo. Che cosa succede se apriamo il nostro sguardo? Che cosa osserviamo se utilizziamo tutti gli altri sensi, oltre a quello della vista? La visione di questi lavori, alla pari della lettura di un albo illustrato, invita a non restare incollati a un’immagine fissa e congelata ma a mettere il piede dentro di essa e dare inizio a un vagabondaggio della fantasia. La fiaba, allora, è ‘percorsa’, ‘parlata’, ‘espressa’ e si trasforma – come sostiene la stessa Guidi – in un recinto magico. Quali paesaggi si aprono davanti ai nostri occhi e cosa si nasconde dall’altra parte?
2. Edipo. Una fiaba di magia
Se volgiamo lo sguardo all’ultimo lavoro, Edipo. Una fiaba di magia, che ha debuttato a Cesena nel 2019 e ancora oggi prosegue le sue repliche, ci accorgiamo di un trattamento differente del dispositivo scenico che mette in relazione la vicenda narrata e lo spettatore. Quest’ultimo rimane seduto per tutta la durata dello spettacolo e per ‘entrare’ nella storia stavolta deve farsi tutto occhio. Aguzzare, decifrare, scrutare, scandagliare, schiudere, indagare, svelare. Nel testo della tragedia sofoclea tanti sono i rimandi alla capacità di vedere, osservare la trasparenza delle cose, ‘stra-vedere’ in una Tebe in cui il buio fa da padrone. «Tornerò io all’origine. Sarò io la luce!»,[10] dice Edipo all’inizio della tragedia. James Hillman in Edipo rivisitato, oltre a sottolineare che «il linguaggio di luce, visione e occhi pervade tutta la tragedia»,[11] sostiene che Edipo sottopone il suo percorso a un metodo, una sorta di strategia per procedere. Anche per lo spettatore, allora, il processo di conoscenza passa attraverso l’interrogazione, la ricerca, l’insight fino a raggiungere un altro modo di vedere le cose e il desiderio ultimo di ‘vedersi’.
Lo spettacolo comincia, siamo immersi nell’oscurità e, seguendo il metodo di Edipo, affiniamo lo sguardo, facendo affidamento soltanto sui nostri occhi. Gradualmente andiamo in cerca di una luce che ci permette di fare nostra la domanda di Edipo: «Io chi sono?». Per scoprire chi è, l’eroe deve compiere una discesa, passare sotto, piegarsi e squarciare un enorme velo. Ma a sorvegliare le cavità del profondo, vigilare l’accesso ai territori del fiabesco e sbarrare la strada a Edipo, Chiara Guidi, prendendo le distanze dalla tragedia originale, pone la Sfinge con il suo enigma. Essa è soglia, sorvegliante, prova, contrassegno che altera il destino dell’eroe. Aggirato questo passaggio e una volta giunti sottoterra scopriamo che un altro involucro, simile a una bolla concava trasparente attraverso la quale intravedere gli avvenimenti, sbarra il cammino e ci separa dallo spazio del racconto in cui abitano le figure. Sofocle all’inizio della tragedia identifica la città di Tebe con una terra sprofondata, in agonia e soffocante là sotto. All’oracolo di Delfi, che lancia la sua profezia al padre di Edipo, Laio, viene riservato l’epiteto di ombelico della terra, centro del mondo. Scopriamo, così, che il viaggio di Edipo, immaginato da Guidi, si svolge sottoterra, in un luogo capovolto e oscuro, in cui intrufolarsi, inabissarsi e spingersi a costo di essere risucchiati, come accade nelle disavventure di altri eroi come Alice, Dorothy, Sussi e Biribissi fino ad arrivare a Jack e Rose, la coppia di fratelli inventata da Anthony Browne in Il tunnel. Edipo fa il suo viaggio in un mondo abissato al pari di altri due personaggi della fiaba, Hänsel e Gretel, che nel 1997 erano stati fatti precipitare, dalla Socìetas Raffaelo Sanzio, insieme agli spettatori lungo sottopassaggi ricavati in una pedana in legno costruita sulla platea del Teatro Valle di Roma.
Una volta dentro, Edipo cade in uno sonno profondo e ai nostri occhi si apre un paesaggio arido, tutto terra, con rocce simili a stalattiti che affiorano dal terreno, senza voce, senza un filo d’erba o una farfalla. Nella riscrittura di Guidi cinque rami secchi, simili a lunghi tralci o cordoni, fungono da coro della tragedia ed emettono un suono simile a un fruscio ogni qual volta si esprimono sui fatti. Sulla scena trovano posto anche Creonte, che ha assunto le sembianze di un uccello, Tiresia, in veste di talpa, un servo in forma di asino, testimone dell’uccisione fatale, e un ragno che disfa i fili della vicenda tanto intricata. Infine facciamo la conoscenza di altri due esseri appallottolati: due tuberi, prigionieri di un lungo sonno nell’attesa che quella terra ricominci a fiorire. Uno dei due piange e freme perché vuole crescere. Nel testo di Sofocle per alludere a Edipo o alla sua stirpe tanti sono i riferimenti al ciclo evolutivo delle piante, laddove compaiono parole come seme, fibra, frutto e radice. Nel finale della tragedia quando l’eroe si rivolge alle sue due figlie, Ismene e Antigone, egli sostituisce il verbo partorire con l’espressione mietere. Se «le metafore che usiamo per le nostre vite – sostiene ancora Hillman – vedono quasi esclusivamente la parte aerea della crescita dell’organismo»,[12] questa riscrittura del mito si avvale di un altro modo ancora per parlare di sviluppo richiamandosi non a un’ascesa bensì a una discesa nel mondo vegetale. Apprendere la storia di Edipo nella riscrittura di Guidi comporta un calarsi nel mondo da parte del bambino fino al punto di scorgere le radici che affondano e si ramificano sotto i suoi piedi: due bulbi indistinti, origine di uno sviluppo potenziale. Possiamo dire che il percorso di crescita in Edipo ha una mente ecologica e si mette in relazione col mondo esterno «perché anche l’universo assolve, o assolverebbe, perfettamente alla funzione “genitoriale”, non solo in quanto davvero dalle sue profondità siamo emersi, ma anche in quanto, continuamente, ci plasma, ci nutre, ci insegna».[13] La casa di Edipo risiede allora in una terra di mezzo, non è Tebe né Corinto, ma è collocata in un luogo apparentemente inospitale ed eccezionale, a dimostrazione che questo eroe «possiede sin dalle origini una doppia natura, nello stesso tempo selvaggia e civilizzata».[14]
Un aspetto significativo riconducibile alla presenza dei due tuberi sulla scena, figure inedite che Guidi pone lungo il cammino dell’eroe, può essere rintracciato in uno studio di Vladimir Propp della prima metà del Novecento. Com’è noto, l’antropologo russo allontanandosi dal campo degli studi letterari sbarca in quelli etnografici per cogliere tutti quei motivi lontani destinati a fare il loro ingresso nei racconti di creazione, miti sacri e successivamente nelle fiabe. Analizzando un elemento ricorrente in quattro intrecci narrativi, quello dell’inumazione di ossa o di cadaveri, passaggio preliminare affinché dal terreno possa crescere un albero, egli scopre materiale illustrativo per illuminare lo studio della fiaba. Comprende che la ricorsività di questo espediente narrativo a dire il vero presenta una storia lontana, risalente a modi di produzione della vita materiale e popolare. L’agire sulla terra, compiendo riti magici per generare fecondità e provocare una crescita rigogliosa, rientra in un’antica usanza appartenente alle società popolari come fenomeno compiuto simbolicamente e con frequenza per incidere sul sostentamento e sulle risorse di sopravvivenza. Dallo studio di Propp scopriamo, ad esempio, che in alcune popolazioni primitive, alle quali la caccia di animali risulta interdetta, grande importanza assume, invece, la raccolta di vegetali. E così una sepoltura accurata dei cadaveri assicura che nella fase del raccolto «i tuberi scavati dalla terra sono un dono degli antenati sepolti».[15] Alla luce di questi discorsi lo spazio scenico della fiaba abitato da quegli esseri può assumere le sembianze di un terreno in via di germinazione, in cui cerimonie solenni di conservazione, inumazione, raccolta e fertilità si integrano con la riscrittura del mito e gettano una luce nuova sul destino di Edipo. In termini visivi e spaziali questa distesa seminata, contraddistinta da una forma quasi oculare e trasparente, può assumere nella mente dello spettatore anche le sembianze di culla, grembo, seno materno e cavità, su cui proiettare un gioco di ombre e sotto la cui protezione Edipo può abbandonarsi a un sonno profondo e all’ascolto di un racconto orale, trasmesso da una voce femminile e il cui incipit mescola la storia edipica con quella di un altro racconto, la fiaba di Rosaspina dei fratelli Grimm.
Nella riscrittura di questa tragedia possiamo avanzare l’ipotesi che il mito lasci il posto alla fiaba: nella mente del protagonista si apre, infatti, una sorta di crisi o incrinatura che dà inizio al suo viaggio. Dopo il superamento di una soglia che coincide con l’abbattimento della Sfinge che lui solo è capace di sconfiggere non perché è sagace o astuto (come nella versione mitica) ma perché decide di compiere un cammino, «una foresta di compagni in partecipazione simbiotica»,[16] attori travestiti da bestie, lo accoglie e cambia il suo destino. Lo stesso Propp in un altro contributo tratta questa tragedia alla pari di un intreccio regale, che si rifà a sua volta a forme storiche di lotta per il potere e si chiude nel finale proprio con l’avvento al trono del protagonista. Profezia, matrimonio dei genitori, allontanamento del bambino, partenza, sono solo alcune delle fasi che lo studioso russo individua e ordina come gradini dell’intreccio fiabesco. «E se tutta la tragedia è costruita sul dispiegamento di un solo momento della tradizione epica, il momento dello smascheramento»,[17] come indica Propp, nel finale si pone l’accento proprio sull’accecamento di Edipo, che – secondo la lettura del mito che Bettini e Guidorizzi forniscono – può essere interpretato come un «incremento di poteri»[18] per accedere a un’altra forma di sguardo: speciale, superiore a quello dei mortali e ancora più acuto. La violenza, in Sofocle, assume così il valore simbolico di liberazione ed elezione e avvicina l’eroe ormai privo della vista alla dimensione del sacro alla pari della figura del cieco-veggente, al quale sono accessibili cose che a un essere mortale appaiono impenetrabili.
Se dai materiali del folclore riconducibili all’esistenza di questo personaggio la Grecia ha messo in primo piano e ha rappresentato la tragedia del suo peccato involontario, della sua presa di coscienza e del suo senso di colpa, nella riscrittura sotto forma di fiaba di Guidi poco spazio è concesso all’agnizione finale ed Edipo è tutt’altro che un capro espiatorio. Non è additato come un colpevole, non ricorre alla mutilazione quando i suoi errori emergono sotto gli occhi di tutti e non è vittima del rimorso. Se da una parte per tutta la durata dello spettacolo permane l’ansia della ricerca di sé dall’altra è assente nella conclusione l’oscuro tormento della tragedia sofoclea. A tal punto che nel lieto fine di questa fiaba-tragedia per bambini il perdono, al pari di una magia in grado di sprigionarsi sottoterra e trasformare un seme in fiore, cancella ciò che è accaduto e offre un riscatto, una seconda possibilità al destino dell’eroe.
Nel finale Edipo attraversa nuovamente la platea, come all’inizio del viaggio, esce di scena e reca con sé la capacità di revisione e la memoria del futuro che lo attende. Si lascia alle spalle lo spazio della fiaba, ripopolato dal cinguettio degli uccelli, dagli animali e dai due tuberi. «Il bosco disincantato si anima di figure. […] Persino i teneri, i furbi animalucci che servirono l’eroe come istinti sottili riacquistano grazia, dignità umane…Terra nuova, cieli nuovi intorno a uno spirito trasformato».[19]
Edipo. Una fiaba di magia
di Chiara Guidi in dialogo con Vito Matera
con Francesco Dell’Accio, Francesca Di Serio, Chiara Guidi, Vito Matera, Filippo Zimmermann
e con le voci di Eva Castellucci, Anna Laura Penna, Gianni Plazzi, Sergio Giuseppe Scarlatella, Pier Paolo Zimmermann
musiche Francesco Guerri, Scott Gibbons
produzione Societas
coproduzione Emilia Romagna Teatro Fondazione
1 A. Sacchi, C. Guidi, Minimo Theatrum. L’infanzia della scena, Cesena, Socìetas Raffaello, 2015, p. 11.
2 H. Blumenberg, Il futuro del mito, Milano, Edizioni Medusa, 2002, p. 144.
3 C. Guidi, L. Amara, Teatro infantile. L’arte scenica davanti agli occhi di un bambino, Bologna, Luca Sossella Editore, 2019, pp. 160-161.
4 A. Sapienza, ‘Vedere il suono. Il metodo errante di Chiara Guidi tra infanzia e voce’, Acting Archives Review. Rivista di studi sull’attore e la recitazione, 13, maggio 2017, p. 31.
5 C. Guidi, L. Amara, Teatro infantile. L’arte scenica davanti agli occhi di un bambino, p. 87.
6 O. Ponte di Pino, Il nuovo teatro italiano 1975-1988. La ricerca dei gruppi: materiali e documenti, Firenze, La casa Usher, 1988, p. 127.
7 P. Florenskij, La prospettiva rovesciata, Milano, Adelphi, 2020, p. 96.
8 Per approfondire il discorso relativo alla rappresentazione nel disegno infantile si rimanda a A.O. Ferraris, Il significato del disegno infantile, Torino, Bollati Boringhieri, 1973.
9 V. Valentini, Teatro contemporaneo 1989-2019, Roma, Carocci, 2020, p. 125.
10 Sofocle, Edipo re, Milano, Garzanti, 2014, trad. it. di E. Savino, p. 13.
11 J. Hillman, Figure del mito, Milano, Adelphi, 2014, p. 166.
12 J. Hillman, Il codice dell’anima, Milano, Adelphi, 2002, p. 64.
13 G. Grilli, ‘Bambini, insetti, fate e Charles Darwin’, in E. Beseghi, G. Grilli (a cura di), La letteratura invisibile. Infanzia e libri per bambini, Roma, Carocci, 2011, p. 52.
14 M. Bettini, G. Guidorizzi, Il mito di Edipo. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Torino, Einaudi, 2004, p. 87.
15 V. Propp, Edipo alla luce del folclore. Quattro studi di etnografia storico-strutturale, Torino, Einaudi, 1975, p. 22.
16 J. Hillman, Figure del mito, p. 89.
17 V. Propp, Edipo alla luce del folclore. Quattro studi di etnografia storico-strutturale, p. 128.
18 M. Bettini, G. Guidorizzi, Il mito di Edipo. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, p. 125.
19 C. Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 42.