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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
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Quello di Franco Citti è stato uno dei volti più identificativi del cinema di Pasolini, da Accattone (1961) e da Mamma Roma (1962) fino a Edipo re (1967) e al Decameron (1971). Il contributo ripercorre, lungo la produzione cinematografica del poeta-regista, le interpretazioni di Citti, offrendo alcune originali chiavi di lettura correlate alla teoria del cinema pasoliniana e alla ‘tensione figurale’ dei personaggi. 

Franco Citti was one of the most identifying actor of Pasolini’s cinema, from Accattone (1961) and Mamma Roma (1962) to Edipo re (1967) and Il Decameron (1971). The contribution traces Citti’s film roles along the film production of the poet-director, offering some original interpretations related to Pasolini’s theory of cinema and the ‘figural tension’ of the characters. 

E allora bisognerà subito fare, ai margini, un’osservazione: mentre la comunicazione strumentale che è alle basi della comunicazione poetica o filosofica è già estremamente elaborata, è insomma un sistema reale e storicamente complesso e maturo – la comunicazione visiva che è alla base del linguaggio cinematografico è, al contrario, estremamente rozza, quasi animale. Tanto la mimica e la realtà bruta quanto i sogni e i meccanismi della memoria, sono fatti quasi pre-umani, o ai limiti dell’umano: comunque pre-grammaticali e addirittura pre-morfologici (i sogni avvengono al livello dell’inconscio, e così i meccanismi mnemonici; la mimica è segno di estrema elementarità civile ecc.). Lo strumento linguistico su cui si impianta il cinema è dunque di tipo irrazionalistico: e questo spiega la profonda qualità onirica del cinema, e anche la sua assoluta e imprescindibile concretezza, diciamo, oggettuale (Pasolini 1999b, pp. 1463-1464).

Nel suo primo intervento ufficiale sul cinema, Pasolini sottolinea la presenza di uno strato profondo, elementare, barbarico, onirico, infantile, sul quale si costruisce poi ogni film singolo con l’apparenza del racconto. Pre-grammaticale è il termine derivato dal saggio di Contini sul linguaggio pascoliano del 1955: dunque siamo già in ambito di un contesto poetico che si contrappone a una elaborazione prosastica.

Pasolini lo aveva già ampiamente affermato a proposito del suo magnifico discorso intorno alle Notti di Cabiria del 1957. L’analisi inizia dalla descrizione fisica e psichica di Fellini stesso, definito, attraverso una sequenza di metafore, una «enorme macchia», un «polipo», un’«ameba ingrandita al microscopio», un «rudere azteco», un «gatto annegato» (Pasolini 1999a, p. 700): «la forma di uomo che Fellini possiede è incessantemente pericolante: tende a risistemarsi e riassestarsi nella forma precedente che la suggerisce» (ibidem). Da questo essere metamorfico esce una non-voce, un insieme di fonemi, un incrocio di dialetti (romagnolo-romanesco) che viene ricondotto alla ‘pre-grammaticalità pascoliana’. Fellini si esprime con un pre-linguaggio.

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Tra il 1960 e il 1961 con il film Accattone Pier Paolo Pasolini iniziò ad affiancare alle note vesti di poeta e romanziere quelle di regista. Lo scrittore non era estraneo al mondo del cinema, avendo già collaborato a diverse sceneggiature per autori come Mario Soldati, Federico Fellini, Mauro Bolognini, Carlo Lizzani, ma in quel biennio impugnò la macchina da presa e nel passaggio da una struttura (la sceneggiatura) a un’altra (il film) decise di farsi parte attiva del processo creativo. Le ragioni di tale integrazione di mezzi espressivi, i reciproci riverberi tra la tecnica e il contenuto del film, la portata innovativa di un’estetica radicale emergono con lucida eloquenza nel volume curato da Luciano De Giusti e Roberto Chiesi Accattone. L’esordio di Pier Paolo Pasolini raccontato dai documenti (Bologna-Pordenone, Cineteca di Bologna-Cinemazero, 2015). Il testo riunisce documenti, interviste, appunti che offrono una testimonianza diretta e finora poco nota della genesi del film, arricchita non solo da trascrizioni e dattiloscritti inediti provenienti dagli archivi di Cinemazero, ma anche dai ricordi degli attori e di coloro che a partire da Accattone si rivelarono i più stretti collaboratori di Pasolini. Le parole di Adele Cambria, interprete del ruolo della remissiva Nannina, e di Franca Pasut, che diede corpo alla pura e ingenua Stella, si affiancano nel volume alle testimonianze di Bernardo Bertolucci, giovanissimo aiuto-regista, di Tonino Delli Colli, direttore della fotografia, di Nino Baragli, responsabile del montaggio di tutti i film di Pasolini, e illuminano con preziosi indizi le diverse fasi di lavoro, dallo shooting alla post-produzione.

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C’è l’Africa di Pasolini. C’è il Friuli di Pasolini. C’è persino la Tuscia di Pasolini che a Chia, provincia di Viterbo, comprò una torre medievale dove visse gli ultimi anni della sua vita o almeno i fine settimana. Un luogo misterioso e isolato. Poco raccontato dalla mitologia pasoliniana. C’è anzitutto la Roma di Pasolini. Ma poiché si tratta di una città che si contendo in molti, sarebbe più corretto dire che c’è il Pigneto di Pasolini. Quella tra Pasolini e il Pigneto è un’associazione più forte e radicale del legame che unisce Fellini alla Fontana di Trevi o via Veneto. Un legame al riparo dalle contaminazioni turistiche, o in genere così si pensa. Se però cerchiamo un alloggio da queste parti su «airbnb» subito ci spiegano che «Pigneto is known as one of the most fashionable and artistic Rome neighborhoods, famous as the favourite set of Pasolini and Neo Realism cinema and a trendy area mixed with the flavor of the old and authentic Rome». Nel 1961, durante le riprese di Accattone, il Pigneto non era molto trendy. Per realizzare il film furono scelti vari luoghi della città. Quartieri popolari come il Testaccio, Centocelle, la borgata Gordiani. Ma di tutta la mappa urbana di Accattone – che include anche luoghi celebri come il ponte di Castel Sant’Angelo – il Pigneto rappresenta al meglio la sintesi tra la Roma letteraria di Ragazzi di vita o Una vita violenta e quella cinematografica di Accattone. Stretto la via Prenestina e la Casilina, il quartiere era all’epoca un borgo di case popolari con strade sterrate e baracche. Per il cinema non si trattava di un quartiere qualsiasi. Qui Rossellini ha girato molte scene di Roma città aperta. Qui è ambientata la celebre sequenza della morte di Anna Magnani, icona del neorealismo e del nostro immaginario resistenziale e repubblicano. Alla metà degli anni Cinquanta, il film di Rossellini circola di nuovo nelle sale di parrocchia e nelle arene di quartiere allestite d’estate nella città. Pasolini rievoca «l’epico paesaggio neorealista» nella celebre poesia dedicata a una visione di Roma città aperta che comparirà poi nella raccolta La religione del mio tempo, uscita proprio nel 1961:

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Il volto di Pasolini si erge, frontalmente, dinnanzi all’osservatore con la tagliente severità del poeta che guarda le cose e le trasforma in opera di poesia. Accattone, invece, interpretato da Franco Citti e ritratto alle spalle del regista, condensa nella sua triste posa l’immagine di un sottoproletariato senza speranza, in cui non si dà redenzione ma solo morte.

Il film, commenta Levi nella Prefazione alla sceneggiatura, «è, con chiara evidenza, l’opera di un poeta», in cui risalta un’«autenticità diretta», garantita non tanto dalla scelta di personaggi «veri» quanto «da una identificazione che non consente diaframmi estetizzanti». A ciò concorre un uso sapiente della «soggettiva libera indiretta» che mescola – come si evince dal saggio Il cinema di poesia, confluito poi in Empirismo eretico – lo sguardo dell’autore con quello del personaggio, al fine di sganciare dai moduli prestabiliti del cinema ‘classico’ il nuovo cinema di poesia, fondato sull’esigenza di unire la mimesi del personaggio alla libertà di stile propria dell’autore. Si effonde così nell’opera una vena espressionistica fatta di «rumore e furore» che scorre in modo sotterraneo lungo tutto l’arco della narrazione per affiorare nei suoi momenti più intensi. «Due volte – chiarifica Levi – scoppia, assurda e inattesa, una risata, che è il grido della vitalità pura nei momenti più neri di un mondo di solo bisogno».

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La cosa a cui l’uomo ha più diritto è la vacanza, l’evasione, la sparizione, la solitudine.

P. P. Pasolini, Petrolio

 

 

1. Accattone è all’osteria con i suoi amici magnaccia, ubriaco fradicio. Si sente male, si abbatte sul tavolo e il Napoletano, che è accanto, gli solleva la testa per i capelli e lo guarda: ma lui, pallido come un morto, non lo sente perchè ha un mancamento, uno «sturbo» che gli fa chiudere gli occhi e impedisce ogni comunicazione.

2. Franco Citti con gli occhi chiusi e la testa inclinata, come la Santa Teresa di Bernini nella chiesa romana di Santa Maria della Vittoria, evoca precisamente un’esperienza di estasi: il suo malore lo proietta fuori dal mondo, lo solleva da terra come la levitazione di Emilia in Teorema. Non a caso, allora, la sequenza dell’osteria si conclude proprio a questo punto con un taglio netto: il Napoletano lascia ricadere la testa di Accattone e la narrazione riprende subito dopo, con il protagonista che beve a una fontanella tornando sotto il sole alla sua «bicocca».

L’estasi è un’esperienza comune a molti personaggi pasoliniani, che escono così dall’universo degli uomini per incontrare l’intensità, la profondità e la verità. Il fatto che questi momenti estatici, per definizione transitori e non ripetibili, coincidano spesso con la sfera del basso corporeo (l’ubriachezza in Accattone, il sesso in Teorema o in Petrolio) non sottrae loro l’aureola dell’eccezionalità e anzi ne accentua il carattere rivelatore. Gli occhi che non vedono di Accattone sono gli stessi di Edipo in Edipo re (ancora Franco Citti) e diventano l’immagine stessa di uno sguardo che scavalca il presente, proiettandosi all’interno e sprofondando in un’altra dimensione: il «paradiso interiore» del divino, del sogno o del futuro.

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