C’è un libro o un saggio su quasi tutto quello che ha fatto Pasolini nella sua vita. Ammesso che si possa ancora prendere per buona la teoria della doppia articolazione su cui si baserebbero sia la lingua del cinema sia quella della realtà, le circostanze hanno portato ad una paradossale accumulazione di speculazioni. Si è iniziato, ovviamente, dai testi che si occupavano della storia nel suo insieme (la vita e le opere di PPP). Quando il tema si è saturato, si è passati ad analizzarne i differenti «sintagmi», accorpati o scomposti: il cinema di Pasolini, le sceneggiature di Pasolini, le poesie di Pasolini, per poi concentrarsi, in modo sempre più parziale e capillare, su ciascuna singola componente di questi «monemi»: il singolo film, il singolo verso, le relazioni connettive, tutto ciò che stava dietro e davanti ad esse, i documenti rivelatori e ogni minimo scartafaccio. Quando anche su ciascuno di questi aspetti si sono moltiplicati i testi, le notazioni, i punti di vista, si è giunti ad analizzare con la stessa pedante acribia anche i «fonemi pasoliniani», gli elementi spuri, magari isolati dal contesto, privi di un senso autonomo. Singoli fatti bruti, inquadrature non montate, capaci di dire tutto e il contrario di tutto, come qualsiasi fotografia; capaci di manipolare, dunque utili per partecipare alla beatificazione e al linciaggio – due facce della stessa medaglia – che ancora impedisce di storicizzare Pasolini e lo obbliga a essere ininterrottamente ucciso, da quarant’anni a questa parte.
C’è l’Africa di Pasolini. C’è il Friuli di Pasolini. C’è persino la Tuscia di Pasolini che a Chia, provincia di Viterbo, comprò una torre medievale dove visse gli ultimi anni della sua vita o almeno i fine settimana. Un luogo misterioso e isolato. Poco raccontato dalla mitologia pasoliniana. C’è anzitutto la Roma di Pasolini. Ma poiché si tratta di una città che si contendo in molti, sarebbe più corretto dire che c’è il Pigneto di Pasolini. Quella tra Pasolini e il Pigneto è un’associazione più forte e radicale del legame che unisce Fellini alla Fontana di Trevi o via Veneto. Un legame al riparo dalle contaminazioni turistiche, o in genere così si pensa. Se però cerchiamo un alloggio da queste parti su «airbnb» subito ci spiegano che «Pigneto is known as one of the most fashionable and artistic Rome neighborhoods, famous as the favourite set of Pasolini and Neo Realism cinema and a trendy area mixed with the flavor of the old and authentic Rome». Nel 1961, durante le riprese di Accattone, il Pigneto non era molto trendy. Per realizzare il film furono scelti vari luoghi della città. Quartieri popolari come il Testaccio, Centocelle, la borgata Gordiani. Ma di tutta la mappa urbana di Accattone – che include anche luoghi celebri come il ponte di Castel Sant’Angelo – il Pigneto rappresenta al meglio la sintesi tra la Roma letteraria di Ragazzi di vita o Una vita violenta e quella cinematografica di Accattone. Stretto la via Prenestina e la Casilina, il quartiere era all’epoca un borgo di case popolari con strade sterrate e baracche. Per il cinema non si trattava di un quartiere qualsiasi. Qui Rossellini ha girato molte scene di Roma città aperta. Qui è ambientata la celebre sequenza della morte di Anna Magnani, icona del neorealismo e del nostro immaginario resistenziale e repubblicano. Alla metà degli anni Cinquanta, il film di Rossellini circola di nuovo nelle sale di parrocchia e nelle arene di quartiere allestite d’estate nella città. Pasolini rievoca «l’epico paesaggio neorealista» nella celebre poesia dedicata a una visione di Roma città aperta che comparirà poi nella raccolta La religione del mio tempo, uscita proprio nel 1961: