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In questo saggio tratterò della costruzione da parte di Tommaso Pincio del proprio spazio autobiografico attraverso le sue opere. In primo luogo, analizzerò il suo Autoritratto con le spalle rivolte all’arte e alla fantascienza (incompiuto) del 2012, mostrando come in generale i suoi riferimenti autobiografici siano più elusivi che diretti. Nel secondo e nel terzo paragrafo affronterò il plot ricorrente di Marco Colapietro – nome anagrafico dell’autore – che, dopo aver fallito come pittore, imbocca la strada della scrittura letteraria con l’identità di Tommaso Pincio. Il plot si trova al cuore di lavori ibridi caratterizzati da una sfaccettata commistione di autobiografia e saggio, come Hotel a zero stelle (2011), Pulp Roma (2012) e Scrissi d’arte (2015), ma allo stesso tempo costituisce la soggiacente cornice di Cinacittà (2008) e Il dono di saper vivere (2018). Dopodiché, prenderò in esame l’esordio M. (1997), in cui ha luogo una nascita alternativa di Tommaso Pincio come personaggio. Dato che qui Tommaso Pincio è rappresentato come uno stencil con uno specifico e immutabile «programma di determinazione motivazionale», la mia idea è che i protagonisti delle prime opere di Tommaso Pincio siano una sorta di ‘programmatica prefigurazione’ del successivo plot ricorrente dell’artista fallito. Nell’ultimo paragrafo, infine, suggerirò che Il dono di saper vivere possa aprire un nuovo percorso nella produzione letteraria di Tommaso Pincio, che superi il suo ‘plot programmato’.

In this paper I will dwell upon Tommaso Pincio’s construction of his autobiographical space through his works. First, I will analyse his 2012 Autoritratto con le spalle rivolte all’arte e alla fantascienza (incompiuto) assuming how in general his autobiographical references are more elusive than direct. In the second and third sections I will tackle the recurrent plot of the talentless Marco Colapietro – the author’s real name – who after failing as a painter embraces the path of literary writing as Tommaso Pincio. This plot is at the core of hybrid works characterised by a multifaceted mixture of autobiography and essay, such as Hotel a zero stelle (2011), Pulp Roma (2012) and Scrissi d’arte (2015). At the same time, it is also the underlying frame of Cinacittà (2008) and Il dono di saper vivere (2018). Then, I will examine the debut work M. (1997), where Tommaso Pincio’s alternative birth as a character takes place. Since here Tommaso Pincio is depicted as a stencil with a specific and unchangeable «program of motivational determination», my view is that the protagonists of Tommaso Pincio’s early works are a sort of ‘programmed prefiguration’ of the following recurrent plot of the failed artist. In the last section I will eventually suggest that Il dono di saper vivere may open a new path in Tommaso Pincio’s literary production, going beyond his ‘programmed plot’.

 

 

Per quanto l’apparato critico che accompagna il lavoro di Tommaso Pincio sia ormai cospicuo, la quasi totalità degli interventi riguarda singoli testi o specifici aspetti della sua produzione: la decostruzione del concetto di realtà, la propensione ucronica e distopica, la pratica della metalessi, l’eziologia dello pseudonimo, nonché i molteplici riferimenti al mondo dell’arte, del cinema, del fumetto e della visualità nel suo complesso, incluso un arguto utilizzo delle piattaforme social.[1] Manca ancora uno studio che, tenendo insieme le diverse componenti del suo immaginario, fornisca un’interpretazione complessiva dell’autore – e la cosa non stupisce visto che un simile lavoro richiederà tutt’altro che scontate competenze interdisciplinari e comparatistiche, in grado di abbracciare non solo letterature diverse, ma anche i vari ambiti culturali sopra menzionati, declinati, peraltro, a partire dalla passione per la fantascienza, nell’orizzonte del midcult e della popular culture.

Dato che non è possibile cimentarsi qui in un’indagine a tutto tondo su quello che, parafrasandone l’attitudine citazionale, si potrebbe – almeno in via provvisoria – definire l’enciclopedismo postmoderno di Tommaso Pincio,[2] mi limiterò ad abbozzare un percorso di lettura focalizzato sulla centralità che lo spazio autobiografico e, in particolare, il «destino del mancato artista»[3] rivestono nell’opera dello scrittore.

 

1. Lo spazio autobiografico

Sebbene meno fortunato del pacte autobiographique, anche lo spazio autobiografico è un concetto che si deve a Philippe Lejeune, che l’ha proposto in un saggio dedicato ad André Gide per indicare «una strategia che mira a costruire la personalità attraverso i più diversi giochi della scrittura».[4] Diversamente dal patto, che poggia sulla convenzione di genere dell’identità di protagonista, narratore e autore, lo spazio autobiografico presuppone una maggiore tensione interpretativa da parte del lettore: questi deve essere pronto a raccogliere e a mettere tra loro in comunicazione i segnali autobiografici, allusi o dichiarati, che l’autore ha distribuito nella sua opera. Se ancora di patto vogliamo parlare, pertanto, dovremo farlo nei termini di una contrattazione tramite cui il lettore implica l’autobiografia dell’autore nell’orizzonte (testuale) di un’incalzante dialogicità ermeneutica.

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Come scrittore mi sono condannato da solo a una maledizione, nel senso che devo costantemente spiegare perché mi chiamo in un certo modo.

 

 

Tommaso Pincio nasce a Roma con il nome di Marco Colapietro nel 1963. Si diploma all’Accademia delle Belle Arti, ma, dopo aver frequentato gli ambienti artistici della capitale, progressivamente rinuncia alle proprie aspirazioni artistiche e si trasferisce a New York, dove tra l’altro fa l’assistente di Jonathan Lasker. Rientra poi a Roma e lavora per vari anni nella Galleria d’arte di Gian Enzo Sperone in via della Pallacorda.

Dopo varie pubblicazioni d’arte firmate col nome anagrafico, tra cui spicca Conformale (Edizioni Documentario, 1992), Tommaso Pincio esordisce nel 1997 con M., riedito nel 1999 presso Cronopio. Il romanzo, ambientato in un passato ucronico tra gli Stati Uniti e Berlino, contamina Philip Dick con Thomas Pynchon, con un’evidente fascinazione per la fantascienza e la letteratura americana che si ritrova nel successivo Lo spazio sfinito, pubblicato nel 2000 presso Fanucci nella collana Avant Pop – e riedito nel 2010 da Minimum fax. Qui entrano in scena le biofiction alternative di personaggi come Jack Kerouac e Marilyn Monroe, che inaugurano la peculiare pratica di un genere che si ritrova anche in Un amore dell’altro mondo, dedicato a Kurt Cobain e al suo amico immaginario Homer Alienson detto Boda. Il libro è pubblicato nel 2002 da Einaudi nella collana Stile Libero; nella medesima collana, nella versione Big, appare anche La ragazza che non era lei (2005), che intreccia passaggi di realtà alla Dick con il tema del disincanto della cultura hippy.

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C’è l’Africa di Pasolini. C’è il Friuli di Pasolini. C’è persino la Tuscia di Pasolini che a Chia, provincia di Viterbo, comprò una torre medievale dove visse gli ultimi anni della sua vita o almeno i fine settimana. Un luogo misterioso e isolato. Poco raccontato dalla mitologia pasoliniana. C’è anzitutto la Roma di Pasolini. Ma poiché si tratta di una città che si contendo in molti, sarebbe più corretto dire che c’è il Pigneto di Pasolini. Quella tra Pasolini e il Pigneto è un’associazione più forte e radicale del legame che unisce Fellini alla Fontana di Trevi o via Veneto. Un legame al riparo dalle contaminazioni turistiche, o in genere così si pensa. Se però cerchiamo un alloggio da queste parti su «airbnb» subito ci spiegano che «Pigneto is known as one of the most fashionable and artistic Rome neighborhoods, famous as the favourite set of Pasolini and Neo Realism cinema and a trendy area mixed with the flavor of the old and authentic Rome». Nel 1961, durante le riprese di Accattone, il Pigneto non era molto trendy. Per realizzare il film furono scelti vari luoghi della città. Quartieri popolari come il Testaccio, Centocelle, la borgata Gordiani. Ma di tutta la mappa urbana di Accattone – che include anche luoghi celebri come il ponte di Castel Sant’Angelo – il Pigneto rappresenta al meglio la sintesi tra la Roma letteraria di Ragazzi di vita o Una vita violenta e quella cinematografica di Accattone. Stretto la via Prenestina e la Casilina, il quartiere era all’epoca un borgo di case popolari con strade sterrate e baracche. Per il cinema non si trattava di un quartiere qualsiasi. Qui Rossellini ha girato molte scene di Roma città aperta. Qui è ambientata la celebre sequenza della morte di Anna Magnani, icona del neorealismo e del nostro immaginario resistenziale e repubblicano. Alla metà degli anni Cinquanta, il film di Rossellini circola di nuovo nelle sale di parrocchia e nelle arene di quartiere allestite d’estate nella città. Pasolini rievoca «l’epico paesaggio neorealista» nella celebre poesia dedicata a una visione di Roma città aperta che comparirà poi nella raccolta La religione del mio tempo, uscita proprio nel 1961:

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