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1. Le copertine: vexata quaestio!

«Rimane però il fatto che le donne in copertina “vanno” assai meglio di qualsiasi altro soggetto». Così, sul finire del 1953, il Nostromo, nella rubrica di Cinema nuovo (n. 20) dedicata ai ‘Colloqui con i lettori’, risponde a Giuseppe Sibilla di Melfi. Non ci è dato, ad oggi, sapere con esattezza quali fossero i rilievi specifici e le rimostranze del sig. Sibilla sulla predominanza assoluta (l’unica eccezione realmente significativa è Chaplin nel primo numero) di volti e corpi femminili sulle copertine di Cinema nuovo. Abbiamo però accesso alle ragioni di politica editoriale e strategia di mercato che vengono addotte a giustificazione della scelta: appunto, le donne in copertine funzionano, dominano nella quasi totalità della stampa illustrata, e non sembra – aggiunge il Nostromo – «che accontentare il pubblico in questa materia […] sia poi un grande sacrificio», o che «il carattere della rivista» possa esserne «alterato» [fig. 1].

Il disappunto del sig. Sibilla non è destinato a restare un caso isolato. Nell’aprile del 1954 (n. 34) è la volta di Mario Lo Surdo, da Milano, a cui il Nostromo risponde: «Le foto che pubblichiamo sono scelte eminentemente con un criterio che selezioni il valore della recitazione degli attori e non le loro doti fisiche o quelle del loro abbigliamento». In questo caso non sono le ragioni del mercato a essere invocate, ma più stringenti politiche editoriali e anzi, più ampiamente, culturali, che subordinerebbero (come vedremo, il condizionale è d’obbligo) la scelta delle fotografie alla valorizzazione del talento e della tecnica recitativa.

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Come è noto, gli anni Trenta sono stati decisivi nello sviluppo della pubblicistica cinematografica. La crescente popolarità dell’industria dello spettacolo ha favorito un processo di specializzazione delle testate che hanno scelto la propria formula e il proprio pubblico per imporsi sul mercato. La produzione dei rotocalchi di questo decennio d’oro è già stata mappata, evidenziando come la stampa popolare solo raramente si sia occupata di temi al di fuori della cronaca e del divismo.

Cinema Illustrato, Cine Mio e Stelle sono i rotocalchi divistici caratterizzati dalle firme più prestigiose e da una particolare ricchezza e varietà di contenuti. Qui il divismo dominante si configura «non soltanto come stimolo alle curiosità epidermiche degli spettatori dei drammi hollywoodiani, ma anche come incentivo per il lettore ad avviarsi sulla strada di un maggiore approfondimento del cinema nei suoi molteplici aspetti» (De Berti 2000, p. 34). Conducendo un’analisi delle rubriche, emerge anche una certa insistenza sulla promozione di giovani volti per il cinema: quasi una vocazione delle riviste a farsi trampolino di lancio verso l’universo filmico per aspiranti stelline con o senza formazione. Decodificare e storicizzare questa funzione di scouting delle riviste ci sembra interessante per comprendere come il fenomeno del divismo si sia diffuso in Italia anche in relazione al contesto storico culturale dell’epoca fascista: esibendo il seducente mondo di Hollywood, in evidente contrasto con le imposizioni del regime che provava a definire il modello femminile chiudendolo nelle mura domestiche, le riviste chiedevano alle donne di uscire allo scoperto, di provare ad inseguire modelli diversi ed esotici, di mettersi alla prova secondo categorie lontane da quelle imposte, ovvero la bellezza e la spregiudicatezza.

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Il volto di Pasolini si erge, frontalmente, dinnanzi all’osservatore con la tagliente severità del poeta che guarda le cose e le trasforma in opera di poesia. Accattone, invece, interpretato da Franco Citti e ritratto alle spalle del regista, condensa nella sua triste posa l’immagine di un sottoproletariato senza speranza, in cui non si dà redenzione ma solo morte.

Il film, commenta Levi nella Prefazione alla sceneggiatura, «è, con chiara evidenza, l’opera di un poeta», in cui risalta un’«autenticità diretta», garantita non tanto dalla scelta di personaggi «veri» quanto «da una identificazione che non consente diaframmi estetizzanti». A ciò concorre un uso sapiente della «soggettiva libera indiretta» che mescola – come si evince dal saggio Il cinema di poesia, confluito poi in Empirismo eretico – lo sguardo dell’autore con quello del personaggio, al fine di sganciare dai moduli prestabiliti del cinema ‘classico’ il nuovo cinema di poesia, fondato sull’esigenza di unire la mimesi del personaggio alla libertà di stile propria dell’autore. Si effonde così nell’opera una vena espressionistica fatta di «rumore e furore» che scorre in modo sotterraneo lungo tutto l’arco della narrazione per affiorare nei suoi momenti più intensi. «Due volte – chiarifica Levi – scoppia, assurda e inattesa, una risata, che è il grido della vitalità pura nei momenti più neri di un mondo di solo bisogno».

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Che cos’è un documento? Parlando in termini generali, possiamo definirlo come un frammento del mondo reale – un’immagine, un suono, un testo scritto – inserito e citato all’interno di un testo letterario. Nel periodo tra le due guerre mondiali in tutta Europa, la tendenza al ‘documentario’ inizia ad emergere come categoria estetica ed è riferita ad un modo moderno di descrivere il reale nelle arti visuali, così come al cinema e in fotografia. Intorno al 1930 con la New Objectivity o Neue Sachlichkeit le arti visuali cercano di inventare un modo nuovo per combinare le due dimensioni. Lo stesso fa la letteratura.

Il rapporto tra letteratura e documento diventa una delle questioni cruciali a partire dalla fine del XIX secolo e raggiunge il suo apice nella prima metà del XX secolo: la letteratura ospita ed ingloba al proprio interno testi non letterari e documenti provenienti dal mondo reale e questa integrazione modifica la natura stessa del testo e dei generi letterari. Questa relazione negli anni Trenta conosce degli esempi illustri, come Manhattan Transfer (1925) di Dos Passos o Berlin Alexanderplatz (1929) di Döblin. La letteratura ospita e inserisce al proprio interno elementi documentari, ma allo stesso tempo diventa essa stessa documento e testimonianza concreta di un contesto e di una specifica realtà storica.

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La stricte authenticité du document humain

André Breton, 1937

Un testo ibrido è composto di elementi verbali e non verbali come fotografie, illustrazioni e frames cinematografici. Il processo di integrazione tra diverse componenti modifica la natura e la struttura del testo e crea la possibilità di molteplici livelli di lettura, mettendo in discussione la ‘linearità del significante’, e dando spazio a forme di comunicazione complesse che coniugano diversi mezzi espressivi e comunicativi come parole, immagini, accorgimenti tipografici. Il testo come ibrido si presta ad una lettura molteplice, su più livelli, in più direzioni: è un qualcosa che cresce e prolifera grazie anche all’innesto di ciò che sembra marginale. Questa sezione della Galleria accoglie al proprio interno tutti quei testi in cui il rapporto tra ciò che è letterario e ciò che è documentario si esprime attraverso la relazione tra verbale e non verbale.

È lo snodarsi del processo di lettura che consente ai documenti, anche quelli non verbali, di diventare cruciali per una comprensione completa delle intenzioni espresse dal testo letterario. La letteratura degli anni Trenta è ricca di esempi illustri di testi che inglobano al proprio interno documenti fotografici che potrebbero apparire come marginali, ma che sono funzionali al processo di lettura del testo letterario, come nel caso di Virginia Woolf in Three guineas (1938), Nadja di André Breton (1928), Chantiers américains di André Maurois (1933) o French en andere cancan di Gaston Burssens (1935, Fig. 1).

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Questa sezione è dedicata alle relazioni tra documento e letteratura in un ambito di grande interesse: quello della letteratura popolare. Sono qui raccolti documenti relativi ai gusti, agli interessi, alle letture della middleclass europea tra gli anni Venti e gli anni Trenta. Si va dall’interesse per le esplorazioni – i grandi viaggi, le colonie, i mezzi di trasporto – al successo delle riviste e dei rotocalchi, all’attrazione per gli strumenti in grado di mettere l’uomo a contatto con il mondo delle immagini, come la macchina da presa e la fotocamera. Negli anni Trenta c’è lo sviluppo di mete turistiche, come dimostrano le brochure collezionate da André Beucler (Fig. 1), o quelle dell’antropologia francese con Mission Dakar-Djibouti nel 1931-1933 (Minotaure e L’Afrique fantôme di Michel Leiris). Viene enfatizzato il trend coloniale, come in Gente d’Africa di Davy Gabrielli (1935) o Paris-Tombouctou di Paul Morand (1928). Gli anni Trenta conoscono una rivoluzione nei trasporti: macchine e aereoplani sono la materializzazione del sogno di velocità, forza e controllo della natura che nasce con il Futurismo (Fig. 2). I poster italiani, la pubblicità e un largo numero di libri riferiti all’aviazione (Fig. 3) sono la testimonianza di questo entusiasmo.

Gli anni tra il 1920 e il 1930 sono anche il periodo d’oro per la fotografia e il cinema documentario: è in atto una fase di entusiasmo per questa dimensione dinamica e visuale della realtà, che consente allo spettatore di catturare il mondo, restituendone una chiara immagine allo spettatore.

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The aim of this paper is to propose some reflections on the current theoretical debate about the image that has stemmed from disciplines such as Media Theory, Visual Studies and Semiotics. By tackling the relationship between the visual code and the verbal one, the author shall dwell on a specific double-sided object: book covers. Actually, covers as well as paratext can be considered as literary texts in themselves. They are not only individual phrases or visual stories that introduce the text, but also an integral part of a broader literary project, which includes book series, literary genres, back covers, and reviews.

Note introduttive

Obiettivo del saggio è quello di proporre alcune riflessioni riguardanti parte dell’attuale dibattito teorico sull’immagine, sviluppatosi intorno a scienze fra loro correlate come teorie dei media, studi di cultura visiva e semiotica del testo. Il filo del discorso teorico si concentrerà sulle interconnessioni fra aspetti figurativi e linguistici riguardanti uno specifico campo letterario-visivo: quello delle copertine editoriali dei testi di narrativa. La copertina e l’insieme dell’apparato peritestuale, non solo in quanto singoli sintagmi che introducono al testo, ma anche in quanto parti integranti di un più ampio progetto letterario, quello della collana di appartenenza ad esempio, o di genere, come testi brevi (affini alla recensione), possono essere considerati campioni testuali del letterario a tutti gli effetti.

D’altro canto essi sembrano offrire anche una postazione privilegiata per osservare nella ricca varietà delle forme iconico-figurative attraverso cui si manifestano – con funzioni diverse da quelle della saggistica o della letteratura scientifica – il rinvio agli aspetti verbali. Si stabilisce così tra la prima, la quarta e il contenuto del libro un fitto dialogo in cui le parole vengono illustrate dalle immagini, rovesciando la prospettiva retorica dell’ekphrasis, e in cui l’impianto visivo della copertina sembra essere in grado di contenere e riassumere dati di diversa natura, da quelli informativi a quelli narrativi, con richiami intertestuali al mondo delle arti, in una complessa sfera semiotica. Il saggio farà riferimento ad un ampio corpus di copertine di narrativa costruito in occasione della mostra Trenta anni di copertine alla Stranieri. Collane di narrativa in Biblioteca tra il 1950 e il 1980, che si è tenuta all’Università per Stranieri di Perugia nel 2010. Esso verrà poi integrato da esempi attuali.

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