Come è noto, gli anni Trenta sono stati decisivi nello sviluppo della pubblicistica cinematografica. La crescente popolarità dell’industria dello spettacolo ha favorito un processo di specializzazione delle testate che hanno scelto la propria formula e il proprio pubblico per imporsi sul mercato. La produzione dei rotocalchi di questo decennio d’oro è già stata mappata, evidenziando come la stampa popolare solo raramente si sia occupata di temi al di fuori della cronaca e del divismo.
Cinema Illustrato, Cine Mio e Stelle sono i rotocalchi divistici caratterizzati dalle firme più prestigiose e da una particolare ricchezza e varietà di contenuti. Qui il divismo dominante si configura «non soltanto come stimolo alle curiosità epidermiche degli spettatori dei drammi hollywoodiani, ma anche come incentivo per il lettore ad avviarsi sulla strada di un maggiore approfondimento del cinema nei suoi molteplici aspetti» (De Berti 2000, p. 34). Conducendo un’analisi delle rubriche, emerge anche una certa insistenza sulla promozione di giovani volti per il cinema: quasi una vocazione delle riviste a farsi trampolino di lancio verso l’universo filmico per aspiranti stelline con o senza formazione. Decodificare e storicizzare questa funzione di scouting delle riviste ci sembra interessante per comprendere come il fenomeno del divismo si sia diffuso in Italia anche in relazione al contesto storico culturale dell’epoca fascista: esibendo il seducente mondo di Hollywood, in evidente contrasto con le imposizioni del regime che provava a definire il modello femminile chiudendolo nelle mura domestiche, le riviste chiedevano alle donne di uscire allo scoperto, di provare ad inseguire modelli diversi ed esotici, di mettersi alla prova secondo categorie lontane da quelle imposte, ovvero la bellezza e la spregiudicatezza.