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In un breve articolo del novembre 1954, Gabriel García Márquez si sofferma sul caso di Anna Maria Pierangeli, stella cagliaritana adottata dal cinema americano all’alba del medesimo decennio. Per lo scrittore, nulla in questa «minuta e intelligente italiana» suggerisce l’idea della diva internazionale, ma tutto in lei sembra piuttosto evocare «un mondo a parte, un delicato e grazioso pezzetto dell’Italia cattolica», quasi «un residuo dei tempi medioevali» proiettato sugli schermi d’America (García Márquez 1999, pp. 654-655). Benché suggestiva, tale descrizione sorvola non solo sul fatto che Ê»Pier Angeliʼ, come la ribattezza la MGM, sia stata una delle protagoniste più rappresentative del fenomeno di assimilazione esercitato dall’empireo hollywoodiano su molte nostre dive del dopoguerra, ma anche sul fatto che il suo esordio sia avvenuto con pellicole rivelatrici di una personalità più complessa di quella da «spaventata cerbiatta» che pare attribuirle García Márquez.

Riesce, forse, a dirci qualcosa in più sul peculiare fascino di questa diva la copertina che Life le dedica nel luglio dello stesso anno. Immortalata da Allan Grant, Pierangeli ha qui le sembianze di una ninfa intenta a giocare nella acque di uno stagno [fig. 1]. Il gusto della cover presumibilmente è conforme all’abitudine della rivista di presentare le dive italiane dell’epoca in maniera Ê»sempliceʼ e Ê»naturaleʼ (cfr. Serra 2009, pp. 452-470), sulla scia dell’idea, mutuata dal neorealismo rosa, che esse debbano «[comunicare] un sex appeal privo di pose divistiche, una ruvida sensualità terrena […] genuina e incontaminata» (Gundle 2007). Tuttavia, colpisce subito come Pierangeli, con la sua grazia adolescenziale, non possieda certo la prorompente fisicità di altre celebri connazionali. Al contrario, si avverte in questa immagine il tratto precipuo della sua stardom, la sua particolare vocazione a incarnare il mito della cosiddetta Ê»ingénueʼ. Sospesa tra inconsapevolezza sessuale dell’infanzia e risveglio erotico della giovinezza, l’ingénue è, per definizione, figura instabile e pericolosa. Da un lato, collegando la sua idea di femminilità al momento del passaggio da bambina a donna, tale figura pare sempre sul punto di sparire, di durare non più di una stagione cinematografica, giusto il tempo del lancio di una starlet. Dall’altro lato, l’ingénue rischia di imprigionare l’attrice dentro la maschera dello stereotipo, costringendola, magari per decenni, a simulare la freschezza della child-woman.

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Nel 2004 e nel 2012 Charlotte Rampling torna a recitare per il cinema italiano con Le chiavi di casa di Gianni Amelio e Tutto parla di te di Alina Marazzi. I film rendono omaggio al suo carisma, ma sembrano soffrire di poca audacia immaginativa nell’utilizzare le sue doti. Nel primo è madre di una ragazza disabile: silenziosa e dolente, esce dal film senza aver impresso alcun segno di rilievo. Nel secondo è una misteriosa antropologa, che indaga nel mondo delle madri che soffrono di depressione post partum. Parrebbe nascondere il coup de théâtre del film, che finisce invece deludendo le aspettative, anche quelle legate al suo personaggio. Sembrerebbe che entrambi i lavori vogliano stigmatizzare con la sua presenza la qualità intellettuale dell’operazione, ma finiscano col sottrarsi all’approfondimento oneroso che da un portato come quello di Rampling inevitabilmente si attende. Difatti in entrambi la sua partecipazione finisce per essere un’occasione mancata, quasi la nostra autorialità contemporanea scelga di accostarsi a una presenza attoriale così specifica e preziosa in modo anodino: non significativamente inedito e, allo stesso tempo, dimostrando molta attenzione (forse troppa) a evitare qualunque dialogo con la sua identità cinematografica, frutto di una storia quarantennale la cui origine è tutta italiana.

È il nostro cinema infatti ad aver creato Charlotte Rampling. Basterebbero due film: La caduta degli dei (1969) e Il portiere di notte (1974) [figg. 1-2]. Oltre a Visconti, che le imprime il segno dell’attrice di rango, e Cavani, che la lega a un film che è da subito un classico (facendo di lei addirittura un’icona la cui potenza permane tutt’oggi), ci sono anche altri registi italiani cui Rampling deve l’identificazione del suo specifico. Sergio Mingozzi, Giuseppe Patroni Griffi e Giuliano Montaldo dimostrano infatti attenzione nei confronti di questa nuova idea di femminile, che trova incarnazione nella giovane attrice. Spia di un nuovo gusto cosmopolita, dotata di una sensibilità speciale, attratta da inquietudini che vengono captate da certo nostro cinema, che tanto ha utilizzato attrici straniere (star, grandi interpreti già affermate nei paesi d’origine, soprattutto francesi), ma anche dive-meteore legate a un solo grande film (un nome: ad esempio Anita Ekberg), ibridandosi significativamente con esiti spesso non banali.

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La fisicità di Mariangela Melato è subito stata categorizzata per la sua anomalia nel panorama divistico italiano, strumento di costruzione di personagge che rompono vistosamente i confini delle femminilità convenzionali (Formenti 2016). Quel corpo relativamente malleabile e magro e quel volto enigmatico, che Fellini definì «una via di mezzo tra una divinità egizia e un extraterrestre», la avvicinano alle «muse della modernità» che negli anni ’60 avevano punteggiato gli schermi europei (Pravadelli 2014). Le sue personagge sono però spesso proletarie, sempre provinciali: uno dei suoi ruoli più famosi – la Raffaella Pavone Lorenzetti di Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto (1974) – fa il verso proprio alla Claudia interpretata da Monica Vitti in L’avventura (Michelangelo Antonioni, 1960) che Veronica Pravadelli prende a esempio di diva moderna [figg. 1-2].

 

1. Performances sartoriali di femminilità possibili

Con i tre film diretti da Wertmüller fra il 1972 e il 1974 Melato esplora i confini di figure proposte come maschere, pienamente calate nel momento della rappresentazione: la femminista emancipata, la prostituta ribelle, l’industriale edonista. Donne le cui scelte estetiche e vestimentarie sono parte integrante della configurazione soggettiva, suturando le personagge nella narrazione (Gaines 1990). Il rifiuto del realismo e della sobrietà a favore di una caratterizzazione forte, che però non si inabissa mai nel grottesco che pure connota tutte le altre scelte estetiche nei tre film proposti, permette un particolare rapporto delle spettatrici con le tre personagge di Melato. Questa scelta consente di rendere imprevedibile lo stereotipo, perché il costume diviene una rete che trattiene una fisicità altrimenti troppo fluida e sfuggente. Ma una rete è anche intreccio, struttura di sostegno, possibilità di significazioni nuove, come le trame di lana colorata intessute da Fiore: e le donne portate sullo schermo da Melato in collaborazione con Wertmüller tengono in costante equilibrio la dialettica fra maschera e soggetto, fra superficie e tridimensionalità, scoprendo e rendendo espliciti i meccanismi della configurazione identitaria.

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Palpitava un debole rumore, dolce come la brezza delle piante; era il respiro delle Ninfe addormentate, che sognavano la giovinezza del mondo, il tempo in cui non esisteva ancora l’uomo, e dove la terra non dava vita che agli alberi, alle bestie e agli dei.

Marguerite Yourcenar, Nostra Signora delle Rondini

 

La geometria dei generi cinematografici si basa su una serie di assiomi formali incontrovertibili. Uno di questi riguarda l’universo diegetico dei modelli melodrammatici: tutto ciò che rientra nel dominio del ‘due’ è, di fatto, inconciliabile con la struttura del melodramma ed è destinato a regredire, a disperdersi, a frammentarsi, a subire una metamorfosi di natura scettica all’interno della quale i confini tra identità e alterità – tra integrità e separazione, tra singolarità e molteplicità – perdono consistenza, lasciando il posto a un complesso nucleo prismatico che investe tutte le tipologie di relazione tra i personaggi (la coppia di coniugi, gli amanti, i genitori e i figli, i fratelli, le sorelle). Quali sono le conseguenze di un simile presupposto, nel suo essere poco più di una mera provocazione, in un discorso che invece tende a privilegiare le modalità con cui è possibile relazionarsi al ‘due’, e dunque a un paradigma simbolico forte di soggettività?

Una delle declinazioni dell’‘essere due’ sviluppate dalla filosofa Luce Irigaray nella sua opera omonima del 1994 riguarda la questione della genealogia: il primo incontro con il corpo dell’altro è quello che ognuno di noi intrattiene con la propria madre (il cosiddetto ‘altro parentale’). Tale incontro non è sempre uguale, né tantomeno neutrale, ma varia a seconda che io sia una bambina o un bambino ed ha un ritorno sulla costituzione dell’identità: «Nel mio corpo presente sono già intenzione verso l’altro, intenzione fra me e l’altro, dapprima nella genealogia». Si tratta di una tematica che l’autrice riprende anche in altri testi, come ad esempio Sessi e genealogie (1989) e Il respiro delle donne (1996), in cui viene posto l’accento sull’importanza delle genealogie femminili in relazione all’ordine del sacro:

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