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  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

1. Il racconto

A dare spessore umano al film è una profonda relazione tra il movimento del plot e lo sviluppo interiore del personaggio a partire da una Ê»ferita inconsciaʼ che affligge il protagonista all’inizio del suo percorso, scrive la sceneggiatrice hollywoodiana Dara Marks. La ferita di Viola e Dasy non è inconscia, ma fisica. La superficie del corpo doppio, un’anomalia genetica che porta con sé un’indefinita identità di genere, si incarica di rendere visibile ed esteriore lo sviluppo interiore delle coprotagoniste. L’incidente scatenante che consente il loro Ê»risveglioʼ coincide con la rivelazione che il padre mente per sottometterle e guadagnare dalle loro esibizioni canore: al contrario di quanto i genitori avevano sempre affermato separarsi è possibile, serve solo del denaro. Per procurarselo avrà inizio la fuga. Ma soltanto una di loro, Dasy, desidera scindersi dal corpo della gemella, e soltanto il gesto d’amore di Viola permetterà al personaggio doppio di rinnovarsi [fig. 1].

Il viaggio interiore inizia quando la doppia protagonista intraprende il percorso che la porterà a rigenerare corpo e voce della creatura multipla. Secondo quanto teorizzato da Maureen Murdock, l’avventura di questa singolare eroina dal doppio corpo ha inizio con il rifiuto della madre, appendice passiva paterna. Viola e Dasy scappano su un motorino e partono alla ricerca della loro nuova identità [fig. 2]. Ma è solo l’inizio del viaggio: un gommone le porta verso un’esperienza traumatizzante di seduzione maschile su un panfilo, da cui le due fuggono tuffandosi in mare. Così perdono il denaro, sottratto a un sedicente discografico di nome Marco Ferreri, necessario per sostenere l’operazione di divisione dei loro corpi. È in questo momento che ha inizio il ribaltamento dei ruoli fra le due coprotagoniste, dentro un’acqua scura dove le banconote si disperdono in mare: Dasy, la leader che si scontra con il padre, cede il ruolo attivo a Viola, la gemella remissiva che decide di sfidare la sorte gettandosi in mare. È la prima esperienza di morte. Quando padre e sacerdote le ricatturano dopo il naufragio, durante una cerimonia rituale religiosa, anzi pagana, Dasy torna motore dell’azione pugnalandosi. La seconda esperienza di morte conduce il racconto al suo punto di svolta, cioè al rinnovamento dell’eroina doppia. La macrosequenza conclusiva è un happy end affidato ai corpi e alle voci delle due sorelle ormai separate. Nella discesa della parabola che coincide con la liberazione dalla Ê»ferita fisicaʼ delle coprotagoniste, tutto avviene in un’unica scena di una decina di minuti narrativamente reticente: momento di trasformazione, climax e risoluzione finiscono quasi per coincidere.

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La genesi di un film è preclusa agli occhi di chi non vi è direttamente coinvolto.* Tutto quello che accade prima e dopo il ciak, dietro la macchina da presa, durante la preparazione, le prove e poi, ancora, in sala di montaggio, è un processo alchemico di cui è molto difficile dar conto dall’esterno. E ogni volta che si tenta di andare a ritroso, di ricostruire i passaggi che stanno dietro al risultato ultimo, si ha la sensazione di violare uno spazio intimo e segreto. Eppure, se abbiamo la possibilità di vedere o intravvedere, attraverso le riprese o gli scatti di backstage, le persone che il film non ci mostra, di cogliere cosa sta dietro o intorno a un’immagine, un volto, un’espressione, un taglio di luce, una location, siamo colti da un’emozione e, almeno personalmente, da una fascinazione estrema e da un po’ di paura. Simile a quella che si prova di fronte a un apiario, mondo precluso a chi non ne comprende le leggi e non si protegge adeguatamente. Maurice Maeterlinck nella sua La vita delle api scrive che un’arnia, agli occhi di chi non la conosce, appare come un ammasso confuso, e invece racchiude

Un’immagine vivida e suggestiva che, mutatis mutandis, potrebbe descrivere le tante competenze e i mestieri che entrano in gioco sul set di un film che è, appunto, «un insieme stupefacente di capacità», tutte protese alla realizzazione di un progetto. La similitudine è forse ovvia, ma è difficile sfuggire alla tentazione di riferirla al cinema di Alice Rohrwacher, e non soltanto per un’assonanza tematica con il secondo lungometraggio, Le meraviglie, o per il mero dato biografico (il padre della regista è infatti un apicultore). Il suo modo di fare cinema ha infatti qualità affini a quelle delle api di Maeterlinck, perché restituisce un’idea di comunanza di persone, intenti, industriosità, attraverso una visione che è autoriale e plurale, personale eppure corale [figg. 1 e 2]. Come in un alveare. Ora però lascio da parte la metafora e cerco di avvicinarmi – sperando di non violarlo né di tradirlo – al lavoro del set, per provare a riflettere sulla qualità specifica delle relazioni umane e professionali che fanno sì che un’idea, uno script, prendano forma, trovino corpi, voci, luoghi, luci, atmosfere. Così come nei suoi film le donne (e le giovanissime protagoniste) costituiscono il perno attorno al quale ruota la storia, sono lo sguardo sul mondo e la tessitura profonda dei legami, allo stesso modo il set di Rohrwacher è una comunità caratterizzata da una spiccata componente femminile. Molte sono le donne della sua troupe, donne che circondano Alice e la accompagnano nei lunghi periodi di gestazione dei suoi film. Non si tratta di una scelta a priori, né di una scelta esclusiva, ma di una specie di caso che sembra, almeno a oggi, essere diventato un destino. La stessa Rohrwacher, del resto, in un’intervista su De Djess (cortometraggio in cui alle consuete collaborazioni se ne sono aggiunte altre, creando un set prettamente femminile) afferma:

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1. Rifrazioni

Le collaborazioni fra Alice e Alba Rohrwacher sono al centro di un immaginario di grande ricchezza, abitato da presenze fantasmatiche che hanno origine dal loro legame e che a loro volta generano intricati arabeschi di tensioni e affetti, solidarietà e competizioni, confronti ed emozioni. Attraverso il prisma della sorellanza si rifrangono le infinite possibilità della differenza, soprattutto per quanto riguarda i posizionamenti culturali e di gender. Le personagge messe in scena da Alba e quelle raccontate da Alice assumono interpretazioni nuove, alla luce del filo di un cognome e di un passato in comune.

L’immagine scattata da Marco La Conte per Io Donna [fig. 1] è solo una delle fotografie circolate per la promozione di Le meraviglie mentre era in concorso al festival di Cannes, e basate sul continuo richiamo visuale fra questi due corpi, nonché sulle loro differenze. Da quando la fotografia istantanea è divenuta pratica comune all’interno della borghesia europea, le fotografie di famiglia hanno ritratto insieme le sorelle, giocando esattamente su questo impianto visivo di rime e contraddizioni, in un inseguirsi di tratti somatici e scelte stilistiche [fig. 2]. Questa somiglianza nella differenza riproduce attraverso l’immagine fotografica quel perturbante sdoppiamento e quella differenza attribuiti in assoluto al femminile dalle culture patriarcali (Irigaray 1991 [1977]). Le immagini di Alice e Alba contribuiscono alla visualizzazione di quel ‘mistero’, e sono portatrici della rottura dell’individualità considerata come unità e pienezza (maschile) tipica delle culture egemoniche.

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Palpitava un debole rumore, dolce come la brezza delle piante; era il respiro delle Ninfe addormentate, che sognavano la giovinezza del mondo, il tempo in cui non esisteva ancora l’uomo, e dove la terra non dava vita che agli alberi, alle bestie e agli dei.

Marguerite Yourcenar, Nostra Signora delle Rondini

 

La geometria dei generi cinematografici si basa su una serie di assiomi formali incontrovertibili. Uno di questi riguarda l’universo diegetico dei modelli melodrammatici: tutto ciò che rientra nel dominio del ‘due’ è, di fatto, inconciliabile con la struttura del melodramma ed è destinato a regredire, a disperdersi, a frammentarsi, a subire una metamorfosi di natura scettica all’interno della quale i confini tra identità e alterità – tra integrità e separazione, tra singolarità e molteplicità – perdono consistenza, lasciando il posto a un complesso nucleo prismatico che investe tutte le tipologie di relazione tra i personaggi (la coppia di coniugi, gli amanti, i genitori e i figli, i fratelli, le sorelle). Quali sono le conseguenze di un simile presupposto, nel suo essere poco più di una mera provocazione, in un discorso che invece tende a privilegiare le modalità con cui è possibile relazionarsi al ‘due’, e dunque a un paradigma simbolico forte di soggettività?

Una delle declinazioni dell’‘essere due’ sviluppate dalla filosofa Luce Irigaray nella sua opera omonima del 1994 riguarda la questione della genealogia: il primo incontro con il corpo dell’altro è quello che ognuno di noi intrattiene con la propria madre (il cosiddetto ‘altro parentale’). Tale incontro non è sempre uguale, né tantomeno neutrale, ma varia a seconda che io sia una bambina o un bambino ed ha un ritorno sulla costituzione dell’identità: «Nel mio corpo presente sono già intenzione verso l’altro, intenzione fra me e l’altro, dapprima nella genealogia». Si tratta di una tematica che l’autrice riprende anche in altri testi, come ad esempio Sessi e genealogie (1989) e Il respiro delle donne (1996), in cui viene posto l’accento sull’importanza delle genealogie femminili in relazione all’ordine del sacro:

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