3.1. Un corpo in due: Indivisibili di Edoardo De Angelis

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1. Il racconto

A dare spessore umano al film è una profonda relazione tra il movimento del plot e lo sviluppo interiore del personaggio a partire da una ʻferita inconsciaʼ che affligge il protagonista all’inizio del suo percorso, scrive la sceneggiatrice hollywoodiana Dara Marks. La ferita di Viola e Dasy non è inconscia, ma fisica. La superficie del corpo doppio, un’anomalia genetica che porta con sé un’indefinita identità di genere, si incarica di rendere visibile ed esteriore lo sviluppo interiore delle coprotagoniste. L’incidente scatenante che consente il loro ʻrisveglioʼ coincide con la rivelazione che il padre mente per sottometterle e guadagnare dalle loro esibizioni canore: al contrario di quanto i genitori avevano sempre affermato separarsi è possibile, serve solo del denaro. Per procurarselo avrà inizio la fuga. Ma soltanto una di loro, Dasy, desidera scindersi dal corpo della gemella, e soltanto il gesto d’amore di Viola permetterà al personaggio doppio di rinnovarsi [fig. 1].

Il viaggio interiore inizia quando la doppia protagonista intraprende il percorso che la porterà a rigenerare corpo e voce della creatura multipla. Secondo quanto teorizzato da Maureen Murdock, l’avventura di questa singolare eroina dal doppio corpo ha inizio con il rifiuto della madre, appendice passiva paterna. Viola e Dasy scappano su un motorino e partono alla ricerca della loro nuova identità [fig. 2]. Ma è solo l’inizio del viaggio: un gommone le porta verso un’esperienza traumatizzante di seduzione maschile su un panfilo, da cui le due fuggono tuffandosi in mare. Così perdono il denaro, sottratto a un sedicente discografico di nome Marco Ferreri, necessario per sostenere l’operazione di divisione dei loro corpi. È in questo momento che ha inizio il ribaltamento dei ruoli fra le due coprotagoniste, dentro un’acqua scura dove le banconote si disperdono in mare: Dasy, la leader che si scontra con il padre, cede il ruolo attivo a Viola, la gemella remissiva che decide di sfidare la sorte gettandosi in mare. È la prima esperienza di morte. Quando padre e sacerdote le ricatturano dopo il naufragio, durante una cerimonia rituale religiosa, anzi pagana, Dasy torna motore dell’azione pugnalandosi. La seconda esperienza di morte conduce il racconto al suo punto di svolta, cioè al rinnovamento dell’eroina doppia. La macrosequenza conclusiva è un happy end affidato ai corpi e alle voci delle due sorelle ormai separate. Nella discesa della parabola che coincide con la liberazione dalla ʻferita fisicaʼ delle coprotagoniste, tutto avviene in un’unica scena di una decina di minuti narrativamente reticente: momento di trasformazione, climax e risoluzione finiscono quasi per coincidere.

Nonostante il forte radicamento della storia nel territorio e nell’eredità del cinema italiano (dalla tradizione partenopea della sceneggiata a La donna scimmia di Marco Ferreri, 1964, dall’immaginario garroniano di Castel Volturno alla ricorrente esibizione di un Cristo Pantocrator che ricorda l’incipit de La dolce vita, 1960), la sceneggiatura di Edoardo De Angelis, Barbara Petronio e Nicola Guagnanone, anche autore del soggetto, mostra una struttura classica in cui si realizza l’arco di un personaggio femminile doppio: Viola e Dasy riescono a trasformarsi all’interno di un contesto degradato di sfruttamento familiare, secondo una visione a lieto fine di un’avventura quasi fiabesca che ricorda il Pinocchio di Collodi. Apparentemente le gemelle sono creature fantastiche che compiono un viaggio per riuscire a guadagnare un (solo) corpo in carne e ossa come il burattino di legno che al termine del racconto diventa un bambino vero, ma in questa coppia di protagoniste si può leggere anzitutto un esempio di performatività del genere: la sua scelta (da femminile doppio a femminile singolo) si realizza alla fine del film e indica, in questa nuova formulazione, una nuova forma di vita del genere. Ampliando la prospettiva, il film racconta un tipo di «azione performativa plurale nel regime di precarietà» di cui ha scritto Judith Butler ne L’alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell’azione collettiva. In questo tratto costituivo risiede l’interesse di un film costruito come un racconto classico ma in realtà segnato alla radice dalla sensibilità contemporanea. L’epilogo rappresenta infatti la ricerca di una nuova posizione nel mondo da parte di corpi rigenerati finalmente liberi di immaginare il loro futuro.

 

2. La forma spettacolare

Fino dalla seconda sequenza del film si scopre il corpo protagonista del racconto, un doppio femminile che appare nella sua nuda superficie gender nonconforming. La presentazione di Viola e Dasy mette i corpi delle gemelle siamesi in massima evidenza mostrando l’atto sessuale della masturbazione, e ancor più il fatto che il piacere fisico transiti dal gesto di Viola all’espressione beata di Dasy che dorme. L’identità sessuale è multipla, l’identità di genere non è ancora formata, i due corpi sono simbiotici al punto da condividere ogni tipo di sensazioni fisiche, dall’orgasmo alla ripienezza gastrica. Ma non solo l’identità di genere, anche il ruolo di queste due particolari coprotagoniste è in corso di definizione. Si considerano infatti coprotagonisti due personaggi/attori che perseguono lo stesso obiettivo narrativo, ma qui si tratta di una coppia protagonista distinta negli obiettivi (Dasy vuole separarsi, Viola restare unita alla gemella) ma saldata nello stesso corpo. La rappresentazione di questo ʻdoppio fisicoʼ, citazione esplicita delle vere gemelle siamesi Violet e Daisy Hilton presenti nel cast di Freaks di Tod Browning (1932), è il fulcro del film. Soprattutto i volti delle due attrici protagoniste (mentre i loro corpi, artificialmente uniti dagli effetti speciali visivi, dominano i numeri musicali [fig. 3]) sono oggetto di indagini accurate da parte della macchina da presa, che le scruta e le distingue nei comportamenti e nelle espressioni con spesso sfocature mirate ma anche, complice la somiglianza di Angela e Marianna Fontana, sorelle cantanti nella vita, le confonde, dal momento che il loro ruolo attivo/passivo si ribalta più volte nel corso del racconto.

Indivisibili è dominato da quelle «azioni performative di sperimentale percezione del sé» con cui Eve Kosofsky Sedgwick definisce il queer: ogni azione transita attraverso il corpo doppio e mette in scena il genere facendo della pubblica esibizione dei corpi e delle voci di Viola e Dasy il modo di rappresentazione centrale del film, e la chirurgia (con il medico interpretato da Peppe Servillo) un elemento a sostegno della tematica dominante della ricerca dell’identità sessuale. Lo spettacolo, con le canzoni inscenate nel corso di feste e serenate, come nella più antica tradizione napoletana fin dal cinema di Elvira Notari, viene a coincidere con il dramma familiare dello sfruttamento non solo delle voci, come accade per i cantanti bambini, ma anche dei corpi, che vengono continuamente toccati dal pubblico come portafortuna in ragione della loro difformità [fig. 4]. Nella finzione il padre scrive le canzoni che la colonna sonora di Enzo Avitabile modula sulle voci delle due giovani cantanti. Così la forma dell’autorappresentazione della messa in scena (uno spettacolo nello spettacolo) salda la musica neomelodica partenopea con il rock napoletano degli anni Settanta, proponendo una singolare fusione. La canzone leit-motiv, Tutt’egual song ‘e ccriature, annoda il destino delle protagoniste con «l’intuizione di un’umanità che appare all’alba dal mare (il magnifico incipit) e che vive come dimenticata dal resto del mondo su un lembo di spiaggia, una spiaggia incuneata in un territorio di nessuno, come un delta di un’altra storia, offre il senso di una comunità che di fatto è già migrante; come se non avesse potuto far altro che accogliere e diventare essa stessa il destino di quanti non avrebbe voluto mai accogliere» (Giona A. Nazzaro, ʻ“Indivisibili” di Edoardo De Angelisʼ, Micromega, 29 settembre 2016). Questa visione politica del film si concentra nella sequenza chiave del secondo turning point, affidata al rito celebrato sulla spiaggia di Castel Volturno («Il sacerdote interpretato da Gianfranco Gallo, a metà fra il santone e il camorrista, è una delle grandi invenzioni sincretiche del film. Come se il futuro del cosiddetto sud fosse ormai già archiviato e ormai non ci fosse altra scelta che invertire il senso delle migrazioni del Mediterraneo e assumere su di sé, per sopravvivere, i mille segni contraddittori di un’integrazione parziale che purtroppo non fa altro che prestare il fianco a nuove e inedite forme di oppressione e sfruttamento», Giona A. Nazzaro, “Indivisibili”).

Le due ʻpeccatrici santeʼ, issate su un furgone, vengono trascinate, toccate, strattonate, insozzate dalla sete di miracolo di una comunità mista afrocampana. Il momento di trasformazione coincide con la coltellata autoinferta da Dasy al ʻcorpo comuneʼ per liberarlo dalla schiavitù dell’esibizione prima nelle feste civili, ora in un rito religioso celebrato da un sacerdote in abito talare. Questo momento non può che richiamare il climax della forma melodrammatica, così acutamente investigata negli ultimi anni dagli studi sul cinema italiano di Lucia Cardone e Simona Busni. Il melodramma femminile, infatti, è una forma spettacolare di lunga tradizione ricollocabile entro i confini della cultura e della storia nazionale. Al cinema scandisce alcune tappe esemplari del rapporto fra donne e società italiana, ma prende avvio dall’opera in musica ottocentesca che costituisce il primitivo emergere di azioni autodistruttive intraprese dalle protagoniste come reazioni alle richieste negate di emancipazione. Se si chiudesse qui, Indivisibili indicherebbe un ritorno al passato. Invece un’ellissi risolve l’epilogo tragico, rovesciandolo in una vittoria del corpo trasformato.

Nell’ultima scena Viola percorre, attaccata a una sacca di drenaggio piena di sangue, un lunghissimo corridoio di ospedale alla ricerca della sorella. La trova distesa e condivide con lei una postura sul fianco impedita dalla originaria forma siamese. Dasy, inerme, al contatto con la sorella ritrova la voce per cantare una canzone di Janis Joplin, simbolo del desiderio di libertà musicale espressa durante la fuga («Appena fatta l’operazione vorrei andare a Los Angeles, “ngoppa a l’Oceano”, dove sono sparse le ceneri di Janis Joplin», «Sul serio, posso venire pur’io?»). Più che la risoluzione del conflitto innescato dalla consapevolezza iniziale che possono separarsi, questo momento conclusivo appare un «agire di concerto»: esso «può costituire una forma incarnata di contestazione delle più recenti, e potenti, concezioni dominanti del politico» secondo la visione di Judith Butler. Una ricerca di trasformazione e di conquista dell’identità, non solo singolare, che metta il corpo al centro dell’azione politica. Se nella sequenza conclusiva il canto appare un segno tangibile dell’identità comune, l’abbraccio denota la ricerca di una nuova collocazione nel mondo ma di segno plurale.

Da questa prospettiva possiamo ora guardare la sequenza iniziale, la statuetta del Cristo di gesso rovesciata nella sabbia [figg. 5-6], posta all’inizio di una lenta panoramica in piano sequenza che segue, al ritorno sulla riva in un’aurora livida, un gruppo di prostitute che rientrano a casa. La macchina le pedina fino alla porta dell’abitazione e lì ʻsi distraeʼ a guardare la finestra accanto, trovando Viola e Dasy distese sul letto. Le due ragazze condividono dunque con le prostitute lo stesso destino di corpi femminili esibiti e sfruttati, il loro è un agire plurale che si risolve, si è detto, in una nuova forma di vita del genere. In questo senso la separazione e il dolore che essa comporta, secondo il regista De Angelis tema del film, si rivela un’«azione performativa di sperimentale percezione del sé», che immette nella forma del racconto cinematografico la visione politica espressa da alcune delle principali teorie queer.

 

3. La rappresentazione

«“Performatività” non è che un modo di nominare il potere del linguaggio di dar luogo a una situazione nuova, o di dare avvio a una serie di effetti», scrive Judith Butler ne L’alleanza dei corpi. I corpi sensienti di Viola e Dasy mettono in gioco la nostra percezione corporea proponendole un regime di condivisione all’insegna del piacere e del desiderio, e mostrando come due oggetti di abuso imparano a diventare soggetti desideranti singoli ricompresi in un insieme nuovo: infatti secondo Eve Kosofsky Sedgwick queer è anzitutto un movimento del pensiero, del linguaggio e dell’azione che procede in direzioni contrarie rispetto a quelle esplicitamente riconosciute. Inscenando il rifiuto della performance neomelodica imposta dal padre con l’acquiescenza della madre, e soprattutto il rito sincretico promosso dal sacerdote che le mette in scena come ʻpeccatrici santeʼ, le gemelle indicano un percorso di liberazione del sé, di emancipazione anche rispetto a un territorio devastato e sconciato dallo stesso sfruttamento economico che le rende schiave del clan familiare.

In questo senso appare non secondaria la scelta di un cast che propone, sulla scorta della tradizione neorealista (esplicitamente convocata in un film parlato in napoletano e sottotitolato anche nella versione italiana), l’applicazione della ʻlegge dell’amalgamaʼ enunciata da André Bazin. Come ricorda Elena Dagrada in un saggio recente (Non solo Ingrid. Attori di professione, interpreti occasionali e la “legge dell’amalgama” secondo Bazin e Rossellini), tale regola non consiste in quel che l’espressione sembra suggerire, ossia nel far recitare interpreti occasionali accanto ad attori di professione, bensì, più efficacemente, nell’uso dell’attore professionista contro le aspettative del pubblico. Lo scopo, infatti, è quello è di ottenere una maggiore ʻimpressione di veritàʼ, che secondo Bazin scaturisce da due fattori: 1) uso dell’attore professionista in ruoli diversi da quelli abituali, affiancato a non professionisti scelti in base a criteri fisici o biografici; 2) la verità dei soggetti, ossia il ricorso a una sceneggiatura che renda plausibile la presenza dei dilettanti a fianco dei professionisti. È infatti l’adesione degli interpreti – di tutti gli interpreti, professionisti e non – a un intreccio che «esige da loro il minimo di menzogna drammatica» a garantire l’efficacia dell’amalgama, anche tra verità dei ruoli e inevitabile finzione. In questo senso va letta la scelta di ʻamalgamareʼ nel cast le due coprotagoniste di trainante forza espressiva prive di esperienza cinematografica, scelte in base sia a criteri fisici (la somiglianza fra le sorelle Fontana) che biografici (la giovane età, le doti canore), con un’attrice di professione come Antonia Truppo nel ruolo della madre [fig. 7]. A lei è affidata l’unica solida prova di recitazione presente nell’intero film. La sequenza, girata in primissimo piano con la macchina incollata al volto dell’attrice, inchioda la madre al fallimento del ruolo genitoriale: la dipendenza dall’hashish, la facilità con cui si fa raggirare dal marito, un’istanza di ribellione subito sedata dal senso di colpa emergono in una scena di forte impatto, recitata con una tecnica immedesimativa che porta in emersione sul volto i sentimenti contrastanti, le emozioni non più trattenute, il dolore che scaturisce dalla propria impotenza a difendere le figlie. Sorta di condensato passionale che motiva Viola e Dasy nel progettare e concretizzare la fuga, la sequenza si pone come momento di avvio dell’avventura attraverso quella separazione dal femminile che per Maureen Murdock rappresenta l’avvio del viaggio dell’eroina quale risposta femminile al viaggio dell’eroe. Una volta ricatturate le due dovranno sottostare al gesto, violentemente patriarcale, del padre che ferisce i palmi delle loro mani come segno sacrificale all’interno della processione religiosa.

Per tutte le ragioni fin qui esposte credo sia necessario investigare questo film come opera suscettibile di una lettura queer che si allarghi a una visione politica per il ruolo che il racconto, la forma spettacolare e la rappresentazione adottano, immettendo linfa vitale nel panorama del cinema italiano. Indivisibili propone la ricerca di una nuova forma nel genere e con essa una posizione nel mondo che non chiami in causa soltanto l’istanza individuale ma abbracci con lo sguardo, come nella sequenza iniziale del film, persone e territorio ugualmente sfruttati e depredati. Nell’ultima inquadratura la macchina da presa, in plongée, si ritrae con lentezza e pudicizia: lasciando libero corso al canto delle sorelle, si fissa sul loro abbraccio che disegna la nuova forma assunta da corpi liberati perché, finalmente, consapevolmente scelti e alleati [fig. 8].

 

 

Bibliografia

J. Butler, L’alleanza dei corpi, trad. it. di F. Zappino, Milano, Nottetempo, 2017.

E. Dagrada, ‘Non solo Ingrid. Attori di professione, interpreti occasionali e la “legge dell’amalgama” secondo Bazin e Rossellini’, in G. Carluccio, E. Morreale, M. Pierini (a cura di), Intorno al Neorealismo. Voci, contesti, linguaggi e culture dell’Italia del Dopoguerra, Milano, Scalpendi, 2017, pp. 209-216.

E. Kosofsky Sedgwick, Stanze private. Epistemologia e politica della sessualità [1990], trad. e cura di F. Zappino, prefazione di S. Antosa, Roma, Carocci, 2011.

G.A. Nazzaro, ‘“Indivisibili” di Edoardo De Angelis’, Micromega, 29 settembre 2016.