Il cinema del reale si è spesso interessato allo spazio domestico, traducendo l’indagine di quest’ultimo in un’istanza autonarrante da parte dei soggetti/autori di una forma documentaria disposta ad accogliere l’intimità del racconto individuale. Daniele Dottorini, riprendendo il pensiero di David Shields, scrive che «quanto più un’opera si fa autobiografica, intimista, confessionale, imbarazzante, tanto più si frammenta» (Dottorini 2020, p. 53). È, non a caso, la natura «performativa» (Nichols 2014) del documentario contemporaneo a sembrare la più adeguata ad accogliere, nelle maglie di una cornice filmica vissuta da relazioni intermediali tra formati, rapporti ambigui tra campo e fuori campo, ibridazioni tra realtà e finzione, l’altrettanto sconnesso viaggio interiore che ogni soggetto è chiamato a compiere quando racconta di sé all’esterno. Riportare cosa è ‘casa’ significa nella maggior parte dei casi accettare che la sua definizione si decostruisca in uno spettro di frammenti che le negano un qualunque perimetro spaziale in nome di un’apertura a ciò che avviene ‘oltre le mura’, o più essenzialmente al di là del racconto singolare di chi narra. A partire da tre documentari guidati dal racconto femminile, Autobiografia di una casa (2002) di Alice Guareschi, Casa (2013) di Daniela De Felice e Quattro strade (2020) di Alice Rohrwacher, questo saggio propone di riflettere su come la narrazione del proprio ‘focolare’ avvenga spesso affidandosi al racconto dell’altro, riconoscendo il proprio spazio abitativo, in primo luogo, come materia esposta a chi, da un simbolico ‘fuori’, modifica, lavora e tutela i suoi contorni.
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