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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Il cinema del reale si è spesso interessato allo spazio domestico, traducendo l’indagine di quest’ultimo in un’istanza autonarrante da parte dei soggetti/autori di una forma documentaria disposta ad accogliere l’intimità del racconto individuale. Daniele Dottorini, riprendendo il pensiero di David Shields, scrive che «quanto più un’opera si fa autobiografica, intimista, confessionale, imbarazzante, tanto più si frammenta» (Dottorini 2020). È non a caso la natura ‘performativa’ del documentario contemporaneo a sembrare la più adeguata ad accogliere, nelle maglie di una cornice filmica vissuta da relazioni intermediali tra formati, rapporti ambigui tra campo e fuori campo, ibridazioni tra realtà e finzione, l’altrettanto sconnesso viaggio interiore che ogni soggetto è chiamato a compiere quando racconta di sé all’esterno. Riportare cosa è ‘casa’ significa nella maggior parte dei casi accettare che la sua definizione si decostruisca in uno spettro di frammenti che le negano un qualunque perimetro spaziale in nome di un’apertura a ciò che avviene ‘oltre le mura’, o più essenzialmente al di là del racconto singolare di chi narra. A partire da tre documentari guidati dal racconto femminile, Autobiografia di una casa (2002) di Alice Guareschi, Casa (2013) di Daniela De Felice e Quattro strade (2020) di Alice Rohrwacher, questo saggio propone di riflettere su come la narrazione del proprio ‘focolare’ avvenga spesso affidandosi al racconto dell’altro, riconoscendo il proprio spazio abitativo in primo luogo come materia esposta a chi, da un simbolico ‘fuori’, modifica, lavora e tutela i suoi contorni.

The cinema of the real has often been interested in the domestic space, translating its investigation into a self-narrating instance by the subjects/authors of a documentary form ready to welcome the intimacy of the individual story. Daniele Dottorini, taking up the thought of David Shields, writes that «the more a work becomes autobiographical, intimate, confessional, embarrassing, the more it fragments» (Dottorini 2020). It’s not a case that the ‘performative’ nature of the contemporary documentary seems to be the most suitable for welcoming, in the meshes of a filmic frame experienced by intermedial relationships between formats, ambiguous relationships between filmic image and off screen, hybridizations between reality and fiction, the same disjointed inner journey that each subject is called to make when he talks about himself on the outside. Reporting what is ‘home’ means in most cases accepting that its definition deconstructs itself into a spectrum of fragments that deny it any spatial perimeter in the name of an opening to what happens ‘beyond the walls’ or more essentially beyond the singular tale of the narrator. Starting from three documentaries guided by a female gaze, Alice Guareschi’s Autobiografia di una casa (2002), Daniela De Felice’s Casa (2013) and Alice Rohrwacher’s Quattro strade (2020), this essay proposes to reflect on how the narration of one’s own home often takes place by relying on the other’s story, recognizing one’s living space primarily as a material exposed to those who, from a symbolic ‘outside’, modify, work and protect its borders.

Il cinema del reale si è spesso interessato allo spazio domestico, traducendo l’indagine di quest’ultimo in un’istanza autonarrante da parte dei soggetti/autori di una forma documentaria disposta ad accogliere l’intimità del racconto individuale. Daniele Dottorini, riprendendo il pensiero di David Shields, scrive che «quanto più un’opera si fa autobiografica, intimista, confessionale, imbarazzante, tanto più si frammenta» (Dottorini 2020, p. 53). È, non a caso, la natura «performativa» (Nichols 2014) del documentario contemporaneo a sembrare la più adeguata ad accogliere, nelle maglie di una cornice filmica vissuta da relazioni intermediali tra formati, rapporti ambigui tra campo e fuori campo, ibridazioni tra realtà e finzione, l’altrettanto sconnesso viaggio interiore che ogni soggetto è chiamato a compiere quando racconta di sé all’esterno. Riportare cosa è ‘casa’ significa nella maggior parte dei casi accettare che la sua definizione si decostruisca in uno spettro di frammenti che le negano un qualunque perimetro spaziale in nome di un’apertura a ciò che avviene ‘oltre le mura’, o più essenzialmente al di là del racconto singolare di chi narra. A partire da tre documentari guidati dal racconto femminile, Autobiografia di una casa (2002) di Alice Guareschi, Casa (2013) di Daniela De Felice e Quattro strade (2020) di Alice Rohrwacher, questo saggio propone di riflettere su come la narrazione del proprio ‘focolare’ avvenga spesso affidandosi al racconto dell’altro, riconoscendo il proprio spazio abitativo, in primo luogo, come materia esposta a chi, da un simbolico ‘fuori’, modifica, lavora e tutela i suoi contorni.

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La genesi di un film è preclusa agli occhi di chi non vi è direttamente coinvolto.* Tutto quello che accade prima e dopo il ciak, dietro la macchina da presa, durante la preparazione, le prove e poi, ancora, in sala di montaggio, è un processo alchemico di cui è molto difficile dar conto dall’esterno. E ogni volta che si tenta di andare a ritroso, di ricostruire i passaggi che stanno dietro al risultato ultimo, si ha la sensazione di violare uno spazio intimo e segreto. Eppure, se abbiamo la possibilità di vedere o intravvedere, attraverso le riprese o gli scatti di backstage, le persone che il film non ci mostra, di cogliere cosa sta dietro o intorno a un’immagine, un volto, un’espressione, un taglio di luce, una location, siamo colti da un’emozione e, almeno personalmente, da una fascinazione estrema e da un po’ di paura. Simile a quella che si prova di fronte a un apiario, mondo precluso a chi non ne comprende le leggi e non si protegge adeguatamente. Maurice Maeterlinck nella sua La vita delle api scrive che un’arnia, agli occhi di chi non la conosce, appare come un ammasso confuso, e invece racchiude

Un’immagine vivida e suggestiva che, mutatis mutandis, potrebbe descrivere le tante competenze e i mestieri che entrano in gioco sul set di un film che è, appunto, «un insieme stupefacente di capacità», tutte protese alla realizzazione di un progetto. La similitudine è forse ovvia, ma è difficile sfuggire alla tentazione di riferirla al cinema di Alice Rohrwacher, e non soltanto per un’assonanza tematica con il secondo lungometraggio, Le meraviglie, o per il mero dato biografico (il padre della regista è infatti un apicultore). Il suo modo di fare cinema ha infatti qualità affini a quelle delle api di Maeterlinck, perché restituisce un’idea di comunanza di persone, intenti, industriosità, attraverso una visione che è autoriale e plurale, personale eppure corale [figg. 1 e 2]. Come in un alveare. Ora però lascio da parte la metafora e cerco di avvicinarmi – sperando di non violarlo né di tradirlo – al lavoro del set, per provare a riflettere sulla qualità specifica delle relazioni umane e professionali che fanno sì che un’idea, uno script, prendano forma, trovino corpi, voci, luoghi, luci, atmosfere. Così come nei suoi film le donne (e le giovanissime protagoniste) costituiscono il perno attorno al quale ruota la storia, sono lo sguardo sul mondo e la tessitura profonda dei legami, allo stesso modo il set di Rohrwacher è una comunità caratterizzata da una spiccata componente femminile. Molte sono le donne della sua troupe, donne che circondano Alice e la accompagnano nei lunghi periodi di gestazione dei suoi film. Non si tratta di una scelta a priori, né di una scelta esclusiva, ma di una specie di caso che sembra, almeno a oggi, essere diventato un destino. La stessa Rohrwacher, del resto, in un’intervista su De Djess (cortometraggio in cui alle consuete collaborazioni se ne sono aggiunte altre, creando un set prettamente femminile) afferma:

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1. Rifrazioni

Le collaborazioni fra Alice e Alba Rohrwacher sono al centro di un immaginario di grande ricchezza, abitato da presenze fantasmatiche che hanno origine dal loro legame e che a loro volta generano intricati arabeschi di tensioni e affetti, solidarietà e competizioni, confronti ed emozioni. Attraverso il prisma della sorellanza si rifrangono le infinite possibilità della differenza, soprattutto per quanto riguarda i posizionamenti culturali e di gender. Le personagge messe in scena da Alba e quelle raccontate da Alice assumono interpretazioni nuove, alla luce del filo di un cognome e di un passato in comune.

L’immagine scattata da Marco La Conte per Io Donna [fig. 1] è solo una delle fotografie circolate per la promozione di Le meraviglie mentre era in concorso al festival di Cannes, e basate sul continuo richiamo visuale fra questi due corpi, nonché sulle loro differenze. Da quando la fotografia istantanea è divenuta pratica comune all’interno della borghesia europea, le fotografie di famiglia hanno ritratto insieme le sorelle, giocando esattamente su questo impianto visivo di rime e contraddizioni, in un inseguirsi di tratti somatici e scelte stilistiche [fig. 2]. Questa somiglianza nella differenza riproduce attraverso l’immagine fotografica quel perturbante sdoppiamento e quella differenza attribuiti in assoluto al femminile dalle culture patriarcali (Irigaray 1991 [1977]). Le immagini di Alice e Alba contribuiscono alla visualizzazione di quel ‘mistero’, e sono portatrici della rottura dell’individualità considerata come unità e pienezza (maschile) tipica delle culture egemoniche.

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Colpisce nel guardare i due film di Alice Rohrwacher l’affiorare di un femminile che si incontra creando relazioni, echi e suggestioni e che rivela un punto di vista autoriale tra i più personali, maturi e immaginifici del nostro cinema contemporaneo. Sono contatti trasversali, legami simbolici (ma non solo) che risultano rivelatori dell’esperienza intellettuale e creativa della giovane regista (e sceneggiatrice) di Corpo celeste (2011) e Le meraviglie (2014).

Entrambi i film seguono, con trepidazione anche significativamente fisica – frutto anche della scelta di Rohrwacher di collaborare con Hélène Louvart, direttrice della fotografia e operatrice alla macchina (reduce, tra gli altri, da Pina [W. Wenders, 2011] e Les plages d’Agnès [A. Varda, 2008]) – le due protagoniste adolescenti, Marta e Gelsomina. «Nel continuo terremoto del crescere, nell’amarezza di scoperte inattese (dell’infelicità, del passare delle cose), sono stata presa da un senso di meraviglia, di emozione indicibile». La frase è tratta da Corpo celeste, raccolta di scritti (riflessioni, meditazioni autobiografiche) di Anna Maria Ortese pubblicata nel 1997. «Intuitivo e non strutturale», come dichiara la regista, il legame tra l’opera della scrittrice e quella di Alice Rohrwacher è denso e sofisticato. Più di un indizio, è quasi una dichiarazione, preziosa nell’esplorazione dello sguardo della regista, a cominciare ovviamente dal film del debutto, la cui suggestione riverbera tuttavia sorprendentemente anche ne Le meraviglie.

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