7.3. Un’attività senza esempio. Collaborazioni femminili sul set di Alice Rohrwacher

di

     
Categorie



La genesi di un film è preclusa agli occhi di chi non vi è direttamente coinvolto.* Tutto quello che accade prima e dopo il ciak, dietro la macchina da presa, durante la preparazione, le prove e poi, ancora, in sala di montaggio, è un processo alchemico di cui è molto difficile dar conto dall’esterno. E ogni volta che si tenta di andare a ritroso, di ricostruire i passaggi che stanno dietro al risultato ultimo, si ha la sensazione di violare uno spazio intimo e segreto. Eppure, se abbiamo la possibilità di vedere o intravvedere, attraverso le riprese o gli scatti di backstage, le persone che il film non ci mostra, di cogliere cosa sta dietro o intorno a un’immagine, un volto, un’espressione, un taglio di luce, una location, siamo colti da un’emozione e, almeno personalmente, da una fascinazione estrema e da un po’ di paura. Simile a quella che si prova di fronte a un apiario, mondo precluso a chi non ne comprende le leggi e non si protegge adeguatamente. Maurice Maeterlinck nella sua La vita delle api scrive che un’arnia, agli occhi di chi non la conosce, appare come un ammasso confuso, e invece racchiude

un’attività senza esempio, un infinito numero di leggi savie, un insieme stupefacente di capacità, di misteri, di esperienza, di calcoli, di scienze, di industriosità diverse, di previsioni, di certezze, di abitudini intelligenti, di strani sentimenti e virtù.

Un’immagine vivida e suggestiva che, mutatis mutandis, potrebbe descrivere le tante competenze e i mestieri che entrano in gioco sul set di un film che è, appunto, «un insieme stupefacente di capacità», tutte protese alla realizzazione di un progetto. La similitudine è forse ovvia, ma è difficile sfuggire alla tentazione di riferirla al cinema di Alice Rohrwacher, e non soltanto per un’assonanza tematica con il secondo lungometraggio, Le meraviglie, o per il mero dato biografico (il padre della regista è infatti un apicultore). Il suo modo di fare cinema ha infatti qualità affini a quelle delle api di Maeterlinck, perché restituisce un’idea di comunanza di persone, intenti, industriosità, attraverso una visione che è autoriale e plurale, personale eppure corale [figg. 1 e 2]. Come in un alveare. Ora però lascio da parte la metafora e cerco di avvicinarmi – sperando di non violarlo né di tradirlo – al lavoro del set, per provare a riflettere sulla qualità specifica delle relazioni umane e professionali che fanno sì che un’idea, uno script, prendano forma, trovino corpi, voci, luoghi, luci, atmosfere. Così come nei suoi film le donne (e le giovanissime protagoniste) costituiscono il perno attorno al quale ruota la storia, sono lo sguardo sul mondo e la tessitura profonda dei legami, allo stesso modo il set di Rohrwacher è una comunità caratterizzata da una spiccata componente femminile. Molte sono le donne della sua troupe, donne che circondano Alice e la accompagnano nei lunghi periodi di gestazione dei suoi film. Non si tratta di una scelta a priori, né di una scelta esclusiva, ma di una specie di caso che sembra, almeno a oggi, essere diventato un destino. La stessa Rohrwacher, del resto, in un’intervista su De Djess (cortometraggio in cui alle consuete collaborazioni se ne sono aggiunte altre, creando un set prettamente femminile) afferma:

Mi piace molto parlare dell’identità di genere però con una certa ironia. È una coincidenza, in fondo, e come tutte le coincidenze ci fa pensare. Perché quando una cosa continua a capitare nella vita, ci fa pensare. Però al tempo stesso mantiene una sua leggerezza. Devo dire che lavorare con tutte queste donne ha un fascino particolare, perché mi sembra che queste donne in particolare con cui mi trovo a lavorare sono tutte persone che riescono ad avere un controllo della situazione senza dover diventare violente, senza dover diventare dure. Sul set c’è una grande – proprio, direi – gioia (Interview with Alice Rohrwacher, 2016).

La genesi dei due lungometraggi Corpo celeste (2011) e Le meraviglie (2014) – ma anche di De Djess (2015) – conta su un gruppo di lavoro sostanzialmente stabile e molto coeso: Hélène Louvart (fotografia e operatrice alla macchina), Tatiana Lepore (acting coach e supervisione dialoghi), Loredana Buscemi (costumista), Daniela Tartaro (parrucchiera), Emita Frigato (scenografa), Rachele Meliadò (assistente scenografa), Simona Pampallona (fotografa di scena) e altre ancora. Comparti che dialogano fra loro, perché ogni aspetto tecnico del film non può non comunicare con l’altro, recepirne prontamente ogni movimento, ogni scelta, ogni spunto, in un circolo virtuoso di reciproche influenze. Ma si tratta soprattutto di un significativo intreccio di prospettive femminili che certamente esula dalla mera prestazione d’opera e dalla specifica competenza professionale, tingendosi di altre coloriture che vanno dalla comunanza di intenti, di gusto, alla modalità di lavoro; e, ancora, dall’amicizia alla cura, dall’intesa immediata alla solidarietà reciproca.

Il set è prossimità, anche fisica. Girare un film vuol dire essere a stretto contatto gli uni con gli altri, le une con le altre. E i set, come è noto, possono essere luoghi percorsi da tensioni molto forti, anche violente, da conflitti e asperità. Il set di Rohrwacher, stando alle testimonianze – e come rivelano le fotografie – è abbracciato dallo sguardo della regista [fig. 3] e abitato da persone che stanno vicine in virtù di legami costruiti nel tempo, attraverso dialoghi, conversazioni, scambi, viaggi alla ricerca di location o di semplici suggestioni, confronti sulla sceneggiatura, su un dettaglio di scenografia, di un costume o di un’acconciatura. Questo fa sì che le donne che vi lavorano non solo si sentano intimamente parte di qualcosa, non discriminate bensì valorizzate rispetto ad altri contesti lavorativi analoghi, ma siano anche unite da quella che potrei definire una sorellanza d’elezione – senza dimenticare ovviamente la sorellanza di sangue, quella tra Alice e Alba Rohrwacher – che nasce da un riconoscimento reciproco che è professionale e personale al tempo stesso.

Poiché penso che ci sia uno stretto legame tra ciò che si racconta e il modo e le persone che si scelgono per arrivare a raccontarlo, non si può non rilevare nel lavoro di Rohrwacher un’altra declinazione del legame femminile e della vicinanza. Un legame transgenerazionale, determinato dalla presenza di giovani interpreti quali Yle Vianello, Alexandra Lungu, Agnese Graziani, in particolare, tutte alla prima (e forse unica) esperienza di set. Sono loro le presenze più illuminanti, radiose e misteriose del cinema di Rohrwacher, sono i ‘giacimenti di vita’ a cui la regista ha attinto senza forzature, senza snaturarli, riuscendo a preservarne l’integrità. Lavorare con loro, portarle davanti a una macchina da presa, comporta una responsabilità e necessita di una cura che va ben al di là di quella imposta dalle normative che tutelano i minori sul set. Significa saperle accompagnare e guidare, proteggerle, incoraggiarle, far sì che quell’esperienza sia al contempo eccezionale e perfettamente normale [fig. 4]. Significa imporre loro i ritmi di un lavoro duro e spesso ripetitivo come quello delle riprese senza sacrificare i momenti di gioco e di svago [fig. 5]. Ed è nel rapporto con le giovani interpreti che la componente femminile della troupe trova un altro motivo di coesione e una ulteriore ragione d’essere, perché ciascuna a suo modo è chiamata in causa, in rapporto che potremmo definire di maternità vicaria, che passa attraverso sguardi, contatti fisici, parole sussurrate nell’orecchio [fig. 6].

Adulte e bambine, donne che lavorano e future donne, in una tessitura di intrecci trasversali che fa sì che il set di Rohrwacher sia non solo segnato quantitativamente da una forte componente femminile (dato non certo irrilevante, soprattutto nel nostro Paese), ma anche e soprattutto da una peculiare qualità e natura della relazione che la tiene unita e coesa. Così è sul set e così è nei suoi film, in una specularità esemplare e unica, e in «un’attività senza esempio», come direbbe Maeterlinck.

 

*Ringrazio per le testimonianze e gli spunti di riflessione Tatiana Lepore, Daniela Tartari, Rachele Meliadò, Loredana Buscemi e Simona Pampallona, alla quale va un ringraziamento ulteriore per avermi concesso di pubblicare le sue foto dal set di Le meraviglie.

 

Bibliografia

M. Maeterlinck, La vita delle api [1901], Rizzoli, Milano 1989.

M. Ratner (a cura di), 'Heaven Down Here: Interview with Alice Rohrwacher', Film Quarterly, 2, Winter 2011, pp. 43-47.

Miu Miu Women Tales #9 DE DJESS: Interview with Alice Rohwacher, <https://www.youtube.com/watch?v=9k0TaZEzb-s >[accessed 15 settembre 2016].

M. Pierini, ‘I non attori che sanno recitare. Pratiche di casting e e coaching nel cinema italiano contemporaneo’, Bianco e nero, 581, gennaio-aprile 2015, pp. 12-18.