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  • 'Paesaggi di vita'. Mito e racconto nel cinema documentario italiano (1948-1968) →
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La Galleria che qui presentiamo è stata concepita nell’ambito delle attività di ricerca del PRIN 2017 Archives of the South. Non-fiction Cinema and Southern Landscape in Italy (1948-1968), condotto dalle Unità dell’Università della Calabria, di Catania, di Palermo e del Suor Orsola Benincasa. L’obiettivo-guida dell’intero progetto era tornare a considerare l’incidenza e le diverse forme della rappresentazione del ‘paesaggio meridiano’ (Cassano 1996) all’interno della produzione documentaristica italiana di un ventennio cruciale, sia dal punto di vista produttivo sia in riferimento all’affermarsi di esperienze e pratiche di visione che avrebbero portato a una nuova grammatica del reale. Tra il 1948 e il 1968, infatti, sorgono collaborazioni irripetibili tra antropologi, poeti, letterati, fotografi e registi, il cui esito è testimoniato da prodotti ibridi – si pensi a testi complessi come Stendalì - Suonano ancora (1960) di Cecilia Mangini e La taranta (1961) di Gianfranco Mingozzi – che sperimentano format via via diversi, superando la semplice etichetta del cinema d’inchiesta. Dentro questo calderone immaginifico, che abbraccia e mette in dialogo figure autoriali, linguaggi e tempi apparentemente incompatibili, trovano posto tantissimi nomi, capaci di generare traiettorie espressive di grande rilievo ma in parte ancora inesplorate. Carlo Levi, Ernesto De Martino, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia, Vittorio De Seta, Luigi Di Gianni, Michele Gandin, Giuseppe Ferrara, Ugo Saitta, Francesco Alliata, Folco Quilici, Ferdinando Scianna, Annabella Rossi, Mario Cresci, Mario Gallo: questo elenco, ancora parziale, testimonia un fervore creativo peculiare e invita a ricostruire il profilo multiforme di un racconto che fonde insieme le sostanze del mito, del folclore, della memoria e dell’identità, e che intreccia i margini narrativi di un’esperienza di scrittura liminale, attraverso cui è la voce del paesaggio stesso a emergere, in un portentoso gioco di traduzioni continue tra il regime dell’immagine e quello della parola, la realtà e la finzione, il tempo e la Storia.

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Il cinema del reale si è spesso interessato allo spazio domestico, traducendo l’indagine di quest’ultimo in un’istanza autonarrante da parte dei soggetti/autori di una forma documentaria disposta ad accogliere l’intimità del racconto individuale. Daniele Dottorini, riprendendo il pensiero di David Shields, scrive che «quanto più un’opera si fa autobiografica, intimista, confessionale, imbarazzante, tanto più si frammenta» (Dottorini 2020). È non a caso la natura ‘performativa’ del documentario contemporaneo a sembrare la più adeguata ad accogliere, nelle maglie di una cornice filmica vissuta da relazioni intermediali tra formati, rapporti ambigui tra campo e fuori campo, ibridazioni tra realtà e finzione, l’altrettanto sconnesso viaggio interiore che ogni soggetto è chiamato a compiere quando racconta di sé all’esterno. Riportare cosa è ‘casa’ significa nella maggior parte dei casi accettare che la sua definizione si decostruisca in uno spettro di frammenti che le negano un qualunque perimetro spaziale in nome di un’apertura a ciò che avviene ‘oltre le mura’, o più essenzialmente al di là del racconto singolare di chi narra. A partire da tre documentari guidati dal racconto femminile, Autobiografia di una casa (2002) di Alice Guareschi, Casa (2013) di Daniela De Felice e Quattro strade (2020) di Alice Rohrwacher, questo saggio propone di riflettere su come la narrazione del proprio ‘focolare’ avvenga spesso affidandosi al racconto dell’altro, riconoscendo il proprio spazio abitativo in primo luogo come materia esposta a chi, da un simbolico ‘fuori’, modifica, lavora e tutela i suoi contorni.

The cinema of the real has often been interested in the domestic space, translating its investigation into a self-narrating instance by the subjects/authors of a documentary form ready to welcome the intimacy of the individual story. Daniele Dottorini, taking up the thought of David Shields, writes that «the more a work becomes autobiographical, intimate, confessional, embarrassing, the more it fragments» (Dottorini 2020). It’s not a case that the ‘performative’ nature of the contemporary documentary seems to be the most suitable for welcoming, in the meshes of a filmic frame experienced by intermedial relationships between formats, ambiguous relationships between filmic image and off screen, hybridizations between reality and fiction, the same disjointed inner journey that each subject is called to make when he talks about himself on the outside. Reporting what is ‘home’ means in most cases accepting that its definition deconstructs itself into a spectrum of fragments that deny it any spatial perimeter in the name of an opening to what happens ‘beyond the walls’ or more essentially beyond the singular tale of the narrator. Starting from three documentaries guided by a female gaze, Alice Guareschi’s Autobiografia di una casa (2002), Daniela De Felice’s Casa (2013) and Alice Rohrwacher’s Quattro strade (2020), this essay proposes to reflect on how the narration of one’s own home often takes place by relying on the other’s story, recognizing one’s living space primarily as a material exposed to those who, from a symbolic ‘outside’, modify, work and protect its borders.

Il cinema del reale si è spesso interessato allo spazio domestico, traducendo l’indagine di quest’ultimo in un’istanza autonarrante da parte dei soggetti/autori di una forma documentaria disposta ad accogliere l’intimità del racconto individuale. Daniele Dottorini, riprendendo il pensiero di David Shields, scrive che «quanto più un’opera si fa autobiografica, intimista, confessionale, imbarazzante, tanto più si frammenta» (Dottorini 2020, p. 53). È, non a caso, la natura «performativa» (Nichols 2014) del documentario contemporaneo a sembrare la più adeguata ad accogliere, nelle maglie di una cornice filmica vissuta da relazioni intermediali tra formati, rapporti ambigui tra campo e fuori campo, ibridazioni tra realtà e finzione, l’altrettanto sconnesso viaggio interiore che ogni soggetto è chiamato a compiere quando racconta di sé all’esterno. Riportare cosa è ‘casa’ significa nella maggior parte dei casi accettare che la sua definizione si decostruisca in uno spettro di frammenti che le negano un qualunque perimetro spaziale in nome di un’apertura a ciò che avviene ‘oltre le mura’, o più essenzialmente al di là del racconto singolare di chi narra. A partire da tre documentari guidati dal racconto femminile, Autobiografia di una casa (2002) di Alice Guareschi, Casa (2013) di Daniela De Felice e Quattro strade (2020) di Alice Rohrwacher, questo saggio propone di riflettere su come la narrazione del proprio ‘focolare’ avvenga spesso affidandosi al racconto dell’altro, riconoscendo il proprio spazio abitativo, in primo luogo, come materia esposta a chi, da un simbolico ‘fuori’, modifica, lavora e tutela i suoi contorni.

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Abstract: ITA | ENG

Thème Je (2011) di Françoise Romand è un ironico e implacabile autoritratto di famiglia tra interno ed esterno, tra cinema e vita, tra storia e Storia. Dalla cucina alla camera da letto, dal giardino al bagno, la videocamera di Romand percorre tutte le stanze come fossero dimensioni del sé e interroga le presenze reali o fantasmatiche che le abitano (madre, padre, sorella, zii, amanti) per dare forma a una dichiarazione d’amore corale al cinema e alla vita. Quasi sconosciuta in Italia, Romand ha mosso i primi passi nel cinema a metà anni Ottanta con documentari di produzione televisiva come Mix-Up ou Méli-Mélo (1986) e Appelez-moi Madame (1987), che indagavano storie di famiglia con un linguaggio più vicino a quello di Jacques Tati che al cinéma vérité. Poi ha optato per l’autoproduzione, girato la macchina da presa su di sé per realizzare un video-diario che trova una propria forma cinematografica del tutto originale.

Françoise Romand’s The Camera I (2011) is an witty and relentless family autoportrait shot between interiors and exteriors, cinema and life, lifestory and History. From the kitchen to the bedroom, from the garden to the bathroom, Romand’s camera explores domestic spaces as if they were dimensions of her own self inhabited by real and ghostly characters (her mother, father, sister, uncle, lovers) whom she interrogates and in so doing gives shape to a polyphonic love declaration to cinema and life itself. Almost unknown in Italy, Romand started her carrier in the mid-Eighties with tv-produced documentaries such as Mix-Up (1986) and Call me Madame (1987), which told family stories with a cinematic language closer to Jacques Tati’s than to cinema verité. Later on, she had to opt for auto-production and decided to turn the camera to herself in order to make a video-journal completely original and personal in form and content.

Quasi sconosciuta in Italia, eccetto per alcuni passaggi al Festival Cinema e donne di Firenze e per la retrospettiva dedicatale a Torino nel 2019, Françoise Romand ha mosso i primi passi nel cinema alla metà degli anni Ottanta con alcuni documentari di produzione televisiva incentrati sulla questione dell’identità: Mix-Up ou Méli-Mélo (1986), Appelez-moi Madame (1987) e Les miettes du purgatoire (1992) indagavano storie di famiglia insolite (uno scambio in culla, una riassegnazione di genere in tarda età, la convivenza di figli anziani con genitori longevi) per mezzo di un linguaggio creativo più vicino a quello di Jacques Tati che al cinéma vérité. La riflessione cinematografica sulle pieghe complesse della soggettività è proseguita poi con due opere di finzione: Passé Composé (1994) sull’incontro tra un uomo che cerca di ricostruire il proprio passato e una donna affetta da amnesia e Vice vertu et vice versa (1996) su due vicine di casa insoddisfatte che, approfittando della loro somiglianza fisica, decidono di scambiarsi le vite l’una di prostituta e l’altra di disoccupata. Quando la televisione ha cominciato a erodere i margini entro cui riusciva a svilupparsi un cinema libero ed eccentrico come il suo, Romand ha optato per l’autoproduzione. Sintomatica è la gestazione complicata di Si toi aussi tu m’abandonnes (2004), storia di un giovane adottivo e delle difficoltà relazionali con la famiglia d’accoglienza, che non è mai andato in onda nella versione director’s cut (Birgé 2007 e Uslu 2017). A quel punto, ormai, la regista aveva già deciso di girare la macchina da presa su di sé e realizzare quello che poi è diventato Thème Je (2011), un video-diario scritto in punta di caméra-stylo che fa tesoro dell’eredità di capolavori del genere come Walden (1969) e Lost Lost Lost (1976) di Jonas Mekas o Les plages d’Agnès (2008) di Agnès Varda, elaborando tuttavia una forma e una poetica personali. Si tratta di un ironico e implacabile autoritratto delle proprie relazioni e opere compiutosi nell’arco di oltre dieci anni, dal 1999 al 2010, attraverso diverse fasi di riprese e soprattutto di montaggio. Il titolo è un gioco di parole che rovescia l’enunciato «Je t’aime» senza però tradirlo poiché il film è a tutti gli effetti una dichiarazione d’amore alla vita e alle possibilità creative del cinema. La versione inglese del titolo è a sua volta un gioco di parole: The camera I significa ‘la camera io’ o ‘la camera sé’ ma, siccome il pronome personale I è un omofono di eye (occhio), allora l’allusione è al kinoglaz da cui Romand osserva e filma il proprio mondo.

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