Quasi sconosciuta in Italia, eccetto per alcuni passaggi al Festival Cinema e donne di Firenze e per la retrospettiva dedicatale a Torino nel 2019, Françoise Romand ha mosso i primi passi nel cinema alla metà degli anni Ottanta con alcuni documentari di produzione televisiva incentrati sulla questione dell’identità: Mix-Up ou Méli-Mélo (1986), Appelez-moi Madame (1987) e Les miettes du purgatoire (1992) indagavano storie di famiglia insolite (uno scambio in culla, una riassegnazione di genere in tarda età, la convivenza di figli anziani con genitori longevi) per mezzo di un linguaggio creativo più vicino a quello di Jacques Tati che al cinéma vérité. La riflessione cinematografica sulle pieghe complesse della soggettività è proseguita poi con due opere di finzione: Passé Composé (1994) sull’incontro tra un uomo che cerca di ricostruire il proprio passato e una donna affetta da amnesia e Vice vertu et vice versa (1996) su due vicine di casa insoddisfatte che, approfittando della loro somiglianza fisica, decidono di scambiarsi le vite l’una di prostituta e l’altra di disoccupata. Quando la televisione ha cominciato a erodere i margini entro cui riusciva a svilupparsi un cinema libero ed eccentrico come il suo, Romand ha optato per l’autoproduzione. Sintomatica è la gestazione complicata di Si toi aussi tu m’abandonnes (2004), storia di un giovane adottivo e delle difficoltà relazionali con la famiglia d’accoglienza, che non è mai andato in onda nella versione director’s cut (Birgé 2007 e Uslu 2017). A quel punto, ormai, la regista aveva già deciso di girare la macchina da presa su di sé e realizzare quello che poi è diventato Thème Je (2011), un video-diario scritto in punta di caméra-stylo che fa tesoro dell’eredità di capolavori del genere come Walden (1969) e Lost Lost Lost (1976) di Jonas Mekas o Les plages d’Agnès (2008) di Agnès Varda, elaborando tuttavia una forma e una poetica personali. Si tratta di un ironico e implacabile autoritratto delle proprie relazioni e opere compiutosi nell’arco di oltre dieci anni, dal 1999 al 2010, attraverso diverse fasi di riprese e soprattutto di montaggio. Il titolo è un gioco di parole che rovescia l’enunciato «Je t’aime» senza però tradirlo poiché il film è a tutti gli effetti una dichiarazione d’amore alla vita e alle possibilità creative del cinema. La versione inglese del titolo è a sua volta un gioco di parole: The camera I significa ‘la camera io’ o ‘la camera sé’ ma, siccome il pronome personale I è un omofono di eye (occhio), allora l’allusione è al kinoglaz da cui Romand osserva e filma il proprio mondo.
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