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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Thème Je (2011) di Françoise Romand è un ironico e implacabile autoritratto di famiglia tra interno ed esterno, tra cinema e vita, tra storia e Storia. Dalla cucina alla camera da letto, dal giardino al bagno, la videocamera di Romand percorre tutte le stanze come fossero dimensioni del sé e interroga le presenze reali o fantasmatiche che le abitano (madre, padre, sorella, zii, amanti) per dare forma a una dichiarazione d’amore corale al cinema e alla vita. Quasi sconosciuta in Italia, Romand ha mosso i primi passi nel cinema a metà anni Ottanta con documentari di produzione televisiva come Mix-Up ou Méli-Mélo (1986) e Appelez-moi Madame (1987), che indagavano storie di famiglia con un linguaggio più vicino a quello di Jacques Tati che al cinéma vérité. Poi ha optato per l’autoproduzione, girato la macchina da presa su di sé per realizzare un video-diario che trova una propria forma cinematografica del tutto originale.

Françoise Romand’s The Camera I (2011) is an witty and relentless family autoportrait shot between interiors and exteriors, cinema and life, lifestory and History. From the kitchen to the bedroom, from the garden to the bathroom, Romand’s camera explores domestic spaces as if they were dimensions of her own self inhabited by real and ghostly characters (her mother, father, sister, uncle, lovers) whom she interrogates and in so doing gives shape to a polyphonic love declaration to cinema and life itself. Almost unknown in Italy, Romand started her carrier in the mid-Eighties with tv-produced documentaries such as Mix-Up (1986) and Call me Madame (1987), which told family stories with a cinematic language closer to Jacques Tati’s than to cinema verité. Later on, she had to opt for auto-production and decided to turn the camera to herself in order to make a video-journal completely original and personal in form and content.

Quasi sconosciuta in Italia, eccetto per alcuni passaggi al Festival Cinema e donne di Firenze e per la retrospettiva dedicatale a Torino nel 2019, Françoise Romand ha mosso i primi passi nel cinema alla metà degli anni Ottanta con alcuni documentari di produzione televisiva incentrati sulla questione dell’identità: Mix-Up ou Méli-Mélo (1986), Appelez-moi Madame (1987) e Les miettes du purgatoire (1992) indagavano storie di famiglia insolite (uno scambio in culla, una riassegnazione di genere in tarda età, la convivenza di figli anziani con genitori longevi) per mezzo di un linguaggio creativo più vicino a quello di Jacques Tati che al cinéma vérité. La riflessione cinematografica sulle pieghe complesse della soggettività è proseguita poi con due opere di finzione: Passé Composé (1994) sull’incontro tra un uomo che cerca di ricostruire il proprio passato e una donna affetta da amnesia e Vice vertu et vice versa (1996) su due vicine di casa insoddisfatte che, approfittando della loro somiglianza fisica, decidono di scambiarsi le vite l’una di prostituta e l’altra di disoccupata. Quando la televisione ha cominciato a erodere i margini entro cui riusciva a svilupparsi un cinema libero ed eccentrico come il suo, Romand ha optato per l’autoproduzione. Sintomatica è la gestazione complicata di Si toi aussi tu m’abandonnes (2004), storia di un giovane adottivo e delle difficoltà relazionali con la famiglia d’accoglienza, che non è mai andato in onda nella versione director’s cut (Birgé 2007 e Uslu 2017). A quel punto, ormai, la regista aveva già deciso di girare la macchina da presa su di sé e realizzare quello che poi è diventato Thème Je (2011), un video-diario scritto in punta di caméra-stylo che fa tesoro dell’eredità di capolavori del genere come Walden (1969) e Lost Lost Lost (1976) di Jonas Mekas o Les plages d’Agnès (2008) di Agnès Varda, elaborando tuttavia una forma e una poetica personali. Si tratta di un ironico e implacabile autoritratto delle proprie relazioni e opere compiutosi nell’arco di oltre dieci anni, dal 1999 al 2010, attraverso diverse fasi di riprese e soprattutto di montaggio. Il titolo è un gioco di parole che rovescia l’enunciato «Je t’aime» senza però tradirlo poiché il film è a tutti gli effetti una dichiarazione d’amore alla vita e alle possibilità creative del cinema. La versione inglese del titolo è a sua volta un gioco di parole: The camera I significa ‘la camera io’ o ‘la camera sé’ ma, siccome il pronome personale I è un omofono di eye (occhio), allora l’allusione è al kinoglaz da cui Romand osserva e filma il proprio mondo.

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