3.7. Voci in mia vece. Lo spazio domestico a partire dal racconto dell’altro

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Il cinema del reale si è spesso interessato allo spazio domestico, traducendo l’indagine di quest’ultimo in un’istanza autonarrante da parte dei soggetti/autori di una forma documentaria disposta ad accogliere l’intimità del racconto individuale. Daniele Dottorini, riprendendo il pensiero di David Shields, scrive che «quanto più un’opera si fa autobiografica, intimista, confessionale, imbarazzante, tanto più si frammenta» (Dottorini 2020). È non a caso la natura ‘performativa’ del documentario contemporaneo a sembrare la più adeguata ad accogliere, nelle maglie di una cornice filmica vissuta da relazioni intermediali tra formati, rapporti ambigui tra campo e fuori campo, ibridazioni tra realtà e finzione, l’altrettanto sconnesso viaggio interiore che ogni soggetto è chiamato a compiere quando racconta di sé all’esterno. Riportare cosa è ‘casa’ significa nella maggior parte dei casi accettare che la sua definizione si decostruisca in uno spettro di frammenti che le negano un qualunque perimetro spaziale in nome di un’apertura a ciò che avviene ‘oltre le mura’, o più essenzialmente al di là del racconto singolare di chi narra. A partire da tre documentari guidati dal racconto femminile, Autobiografia di una casa (2002) di Alice Guareschi, Casa (2013) di Daniela De Felice e Quattro strade (2020) di Alice Rohrwacher, questo saggio propone di riflettere su come la narrazione del proprio ‘focolare’ avvenga spesso affidandosi al racconto dell’altro, riconoscendo il proprio spazio abitativo in primo luogo come materia esposta a chi, da un simbolico ‘fuori’, modifica, lavora e tutela i suoi contorni.

The cinema of the real has often been interested in the domestic space, translating its investigation into a self-narrating instance by the subjects/authors of a documentary form ready to welcome the intimacy of the individual story. Daniele Dottorini, taking up the thought of David Shields, writes that «the more a work becomes autobiographical, intimate, confessional, embarrassing, the more it fragments» (Dottorini 2020). It’s not a case that the ‘performative’ nature of the contemporary documentary seems to be the most suitable for welcoming, in the meshes of a filmic frame experienced by intermedial relationships between formats, ambiguous relationships between filmic image and off screen, hybridizations between reality and fiction, the same disjointed inner journey that each subject is called to make when he talks about himself on the outside. Reporting what is ‘home’ means in most cases accepting that its definition deconstructs itself into a spectrum of fragments that deny it any spatial perimeter in the name of an opening to what happens ‘beyond the walls’ or more essentially beyond the singular tale of the narrator. Starting from three documentaries guided by a female gaze, Alice Guareschi’s Autobiografia di una casa (2002), Daniela De Felice’s Casa (2013) and Alice Rohrwacher’s Quattro strade (2020), this essay proposes to reflect on how the narration of one’s own home often takes place by relying on the other’s story, recognizing one’s living space primarily as a material exposed to those who, from a symbolic ‘outside’, modify, work and protect its borders.

Il cinema del reale si è spesso interessato allo spazio domestico, traducendo l’indagine di quest’ultimo in un’istanza autonarrante da parte dei soggetti/autori di una forma documentaria disposta ad accogliere l’intimità del racconto individuale. Daniele Dottorini, riprendendo il pensiero di David Shields, scrive che «quanto più un’opera si fa autobiografica, intimista, confessionale, imbarazzante, tanto più si frammenta» (Dottorini 2020, p. 53). È, non a caso, la natura «performativa» (Nichols 2014) del documentario contemporaneo a sembrare la più adeguata ad accogliere, nelle maglie di una cornice filmica vissuta da relazioni intermediali tra formati, rapporti ambigui tra campo e fuori campo, ibridazioni tra realtà e finzione, l’altrettanto sconnesso viaggio interiore che ogni soggetto è chiamato a compiere quando racconta di sé all’esterno. Riportare cosa è ‘casa’ significa nella maggior parte dei casi accettare che la sua definizione si decostruisca in uno spettro di frammenti che le negano un qualunque perimetro spaziale in nome di un’apertura a ciò che avviene ‘oltre le mura’, o più essenzialmente al di là del racconto singolare di chi narra. A partire da tre documentari guidati dal racconto femminile, Autobiografia di una casa (2002) di Alice Guareschi, Casa (2013) di Daniela De Felice e Quattro strade (2020) di Alice Rohrwacher, questo saggio propone di riflettere su come la narrazione del proprio ‘focolare’ avvenga spesso affidandosi al racconto dell’altro, riconoscendo il proprio spazio abitativo, in primo luogo, come materia esposta a chi, da un simbolico ‘fuori’, modifica, lavora e tutela i suoi contorni.

Ad essere in gioco nella narrazione di sé e del proprio spazio di vita è in genere, più di qualsiasi immagine, la voce di chi si sta raccontando. In tutti e tre i casi di studio scelti, sebbene in modo differente, gli sguardi delle autrici si manifestano nelle vesti di vocalità che, intervenendo dal fuori campo, guidano il piano di realtà presente nelle immagini. Si parla di voci non totalmente avulse dalle rappresentazioni sulle quali si muovono, bensì, nella migliore tradizione dell’«acusmetro» cinematografico (Chion 1991), costantemente sull’orlo di cadere nel dominio del visivo interagendo direttamente con quest’ultimo. Questo perché tutte e tre le registe scelgono di delegare ad altri il racconto del proprio spazio domestico. Il movimento di delega non può che avvenire attraverso la richiesta di ‘parlare in propria vece’, manifestando così l’intento di raccontare di sé nella forma spuria – «interattiva» o «partecipativa» (Nichols 2014) – di un dialogo il cui fine è paradossalmente non tanto quello di ascoltare una storia ‘altra’, quanto quello di incaricare chi sta di fronte di portare alla luce la propria storia. Il perimetro di quanto chiamiamo casa non finirebbe dunque con l’io-individuo, bensì continuerebbe con un tu-interlocutore capace di rispondere, dall’immagine, alle domande che (più o meno implicitamente) il soggetto gli rivolge dall’off dell’inquadratura.

Analizziamo un primo esempio filmico concreto, in modo da iniziare a chiarire la dinamica appena descritta. In Casa di Daniela De Felice la cineasta decide di documentare il momento del ritorno in quella che per tanti anni è stata la casa di famiglia (a Santo Stefano Ticino) prima che il padre nel 1997 venisse a mancare e lei, con la madre e il fratello, si trasferisse in Belgio. La narrazione consiste in un rituale di addio a spazi, oggetti, ricordi di un tempo lontano, da cui è arrivato il momento di distaccarsi (la casa è in vendita e i tre devono svuotarla). La voce off della regista passa dal racconto di alcuni episodi del passato – quasi sempre accompagnato dall’animazione di alcuni suoi disegni – a un’interazione fatta di poche parole pronunciate sottovoce da dietro la cinepresa, dirette alla madre e al fratello. Per l’intera durata del film la macchina da presa si muove negli spazi dell’abitazione seguendo i due familiari e chiedendo loro di raccontare qualcosa del luogo: la provenienza di un ninnolo, il ricordo di un Natale o di un’estate trascorsa tutti assieme [fig. 1]. La casa in questione, le sue stanze, i suoi oggetti – in primo luogo i cimeli archeologici e botanici raccolti nel tempo dalla madre (farfalle, conchiglie, residui minerali e animali di vario genere) – vengono echeggiati da una voce off, quella dell’autrice, che decide tuttavia di passare il testimone delle memorie che essi suscitano a chi sta, per così dire, intervistando. Quasi in un travaso di voce, di bocca in bocca, lo spazio domestico diventa così un’emanazione del collettivo più che del singolo sguardo o, in modo ancor più radicale, il risultato di un’abdicazione alle parole e alle emozioni dell’altro, a cui la cineasta assiste distante e partecipe al contempo, prendendo atto gradualmente di una familiarità abitativa (con gli spazi, i tempi, i ricordi della casa) che sono gli altri a presentarle.

In una scena, in particolare, emerge la trasfigurazione del fuori campo della voce in un controcampo sonoro profondamente legato all’immagine che sta registrando e con cui sta in quel momento intessendo un rapporto. Durante una ‘intervista’ al fratello, durante la quale quest’ultimo racconta il momento cruciale in cui venne presa la decisione di staccare la spina del respiratore a cui era attaccato il padre, De Felice sussurra da dietro la macchina un «Ti voglio bene» che spezza il margine tra il ‘fuori’ e il ‘dentro’ riallineando soggetto e oggetto su un’unica direttrice di cui ci è possibile avvertire entrambe le presenze [fig. 2]. L’altro di fronte alla camera è in questo caso per la regista un pezzo di sé – un pezzo di ‘casa’ – a cui si espone senza ancora sapere come risponderà emotivamente: in quella frase commossa percepiamo precisamente la sensazione della regista di essere spiazzata dalla sua stessa reazione e, tuttavia, il principio di una presa di coscienza che sta avvenendo proprio in quell’istante, nelle nostre orecchie di spettatori.

Ecco che davvero in questo caso l’alterità diventa ciò che separa il soggetto da sé stesso, dai suoi scarti, dalle sue falle, portandolo a un riconoscimento in cui persiste, nell’identificazione di ciò che si trova di fronte, l’identificazione di sé. Marie-Claire Ropars-Wuilleumier parlerebbe di «dislocazione» e, in un gioco di parole, di «dislocuzione» (Ropars-Wuilleumier 2009), là dove non esiste più una vera soglia tra una voce interna e una voce esterna all’immagine, ma l’elemento vocale si giostra piuttosto tra una «certezza della presenza» – lo vediamo interagire con il piano della rappresentazione – e un’«assenza mal definita» – lo sappiamo fuori dal campo visivo eppure, come abbiamo già detto, sempre sul punto di ‘cadere’ nell’immagine (Ivi, p. 193). La voce dà forma in questo caso a una dislocazione ancor più evidente a livello narrativo, quella che presuppone un atto appunto ‘dislocatorio’ del soggetto nel racconto dell’altro in modo da appropriarsi di uno spazio abitativo risalente alla propria infanzia, remoto e al contempo pericolosamente prossimo al sé, tanto da sentire il bisogno di spostare il «marchio di interiorità» (Doane 1980, p. 41) contenuto potenzialmente nel proprio timbro vocale dentro un «prelievo di linguaggio» (Comolli 2006, p. 124) dal corpo altrui.

In Autobiografia di una casa di Alice Guareschi questo si fa tanto più evidente. Nel documentario la regista racconta l’improvvisa scoperta di abitare (a Milano, in Corso Genova) sullo stesso pianerottolo dell’artista surrealista Giordano Falzoni. Lo scopre, per così dire, fuori tempo massimo, quando legge un annuncio funebre e una notizia sul giornale, che dischiudono un immaginario imprevisto su cosa fino a quel momento fosse accaduto dietro una porta da sempre chiusa ermeticamente al suo passaggio. La voce attraverso la quale Guareschi racconta l’episodio e le sue successive evoluzioni è, in questo caso, impressa ‘scritturalmente’ nello schermo. Leggiamo fin dall’inizio, su sfondo nero e a fasi alterne (cifra dell’autrice anche in altri suoi lavori), brevi pensieri che risuonano nella nostra coscienza di spettatori come se li ascoltassimo pronunciati dalla sua stessa voce in fuori campo. Utilizzando le categorie interpretative di Chion, potremmo definirla «excrit» (Chion 2013, p. 207), una fusione tra écran (schermo) ed écrit (testo scritto). In questo caso la dimensione abitativa della casa, in un ipotetico percorso di allontanamento dal dentro verso il fuori, fa un passo in più spostandosi sul pianerottolo di un appartamento milanese [fig. 3].

Non cambia tuttavia l’intenzione fondamentale che accomuna i tre lavori che abbiamo scelto, quella cioè di delegare a qualcun altro l’atto di raccontare una storia ignota all’autrice ma di colpo percepita da quest’ultima come necessaria, al fine di appropriarsi più nel profondo del suo spazio abitativo. La voce in vece della regista è in questo caso quella di Alberto Grifi, a una lezione del quale anni dopo, a Bologna, la cineasta assiste riconoscendo durante la proiezione di Il grande freddo (1983) il volto di Falzoni. Guareschi racconta di aver avvicinato Grifi mettendolo a parte dell’esperienza straniante di imbattersi in una figura mai conosciuta eppure così prossima fino a qualche tempo prima. Grifi, colpito, decide di donarsi alla donna come ‘serbatoio’ di memoria, comparendo nelle successive inquadrature del film che la regista decide di dedicare all’artista come corpo di intervistato e, al contempo, strumento protesico di un’autobiografia che cerca attraverso di lui di costruire una ‘casa’ fino ad allora incompleta. Prima a Milano e poi a Roma, negli archivi della Fondazione Baruchello, Grifi dialoga con la regista – che rimane rigorosamente in fuori campo, apparendo solo, di tanto in tanto, attraverso la sua strana ‘voce-scrittura’ – mostrando alla camera scatti sfocati, fotografie di vecchi premi Strega, disegni di farfalle, calendari terapeutici, i famosi ‘schiacciaparole’ inventati dall’artista, la lunga lettera che André Breton scrisse a Falzoni rispondendo all’ennesimo tentativo di mettersi in contatto con lui [fig. 4]. E infine, nell’ultima parte del film, le immagini di un documentario, Corso Genova, che Grifi dedica all’amico poco prima della morte. Il cerchio così si chiude e, quella casa che Guareschi ci mostra all’inizio, tra una porta aperta (la sua) e una chiusa (quella di Falzoni), ci viene mostrata ora dall’interno. I corridoi «sporchi e sonori» degli androni parigini descritti da Georges Perec e citati dalla regista a inizio film diventano così quelli milanesi in grado di spingere un po’ più in là, oltre il pianerottolo, uno spazio casalingo sempre vacillante e bisognoso di un’altra voce per conoscersi in modo più autentico.

«La sua compagnia mi suggerisce l’idea di uno stato d’equilibrio che chiamo autosufficienza aperta»: la frase compare su sfondo nero, in riferimento all’incontro con Grifi, ad un certo punto del film. L’espressione scelta da Guareschi, «autosufficienza aperta», è decisamente rappresentativa del movimento che stiamo cercando di descrivere. Se ‘casa’ è sinonimo ad un primo sguardo di ‘autosufficienza’, è nell’apertura verso una voce altra e uno spazio oltre che il domestico sembra potersi reinnestare su fondamenta più salde. È in altre parole l’«esercizio acrobatico» (Gauthier 2009, p. 272), come lo definirebbe Jean Rouch, che la voce dell’autore è chiamata a compiere con la voce dell’altro, al confine tra il fuori e il dentro il campo dell’immagine, a costruire una dimora abitativa dinamica, pronta ad espandere le sue soglie ed emergere da una «danza a due» (Comolli 2006, p. 137).

L’ultimo movimento ossimorico verso un ‘fuori casa’ che riporta a un ‘dentro’ lo fa Alice Rohrwacher con il corto girato durante la pandemia, Quattro strade. Il film (di soli otto minuti) decide di raccontare il primo periodo di quarantena nella primavera del 2020 filmando con una vecchia cinepresa il microcosmo che circonda la sua abitazione, un incrocio di quattro strade di campagna che l’autrice percorre da est a ovest in cerca dei volti familiari di chi le abita vicino. «È aprile. Non possiamo avvicinarci gli uni agli altri, a causa di un virus»: anche in questo caso è la voce fuori campo della regista a guidare il racconto. Nella prima scena la cineasta si mostra allo specchio mentre, sperimentando la camera e giocherellando con lo zoom, riflette sul fatto che quell’«occhio magico» può zoomare avvicinando corpi che al contrario, nella realtà non mediata, il virus condanna alla lontananza [fig. 5]. Ma ad avvicinare davvero i suoi vicini di casa, più che lo zoom, sono i piccoli quadri fiabeschi che, mentre inquadra le figure una ad una, dipinge verbalmente dall’off dell’inquadratura: la tenace ed elegante Elsa, contadina solitaria che vive sola con il cane Tigre e alla quale le capita di pensare quando ha paura; il poeta Claudio, che si prende cura degli animali del bosco e raccoglie fiori in un luogo segreto, insegnando agli altri «la poesia dello stare al mondo»; Emanuele, Alessandra e la loro «tribù» di figli, che corrono giocando con i soffioni nel tramonto e insegnano ai grandi «il potere dell’immaginazione».

In questo caso non avviene un reale ‘travaso’ di voce dall’io all’altro, ma è lo stesso racconto orale di Rohrwacher, fatto di brevi ed essenziali scampoli descrittivi, a far suo il racconto dei vicini di casa prendendo in prestito le loro parole, assumendo la loro tonalità emotiva, immedesimandosi, mentre li filma tenendosi alla dovuta distanza in corpi fisicamente lontani [fig. 6]. Nel corto della regista lo spazio del domestico fuoriesce definitivamente dai suoi confini spaziali e, in un tempo storico in cui ‘casa’ rischia di diventare sinonimo di ‘prigione’, rende protagonista del racconto chi al contrario quello spazio può osservarlo dall’esterno, restituendo alla cineasta uno sguardo di ‘soglia’ che permetta alla funzione individuale di abitare un luogo, di respirare di nuovo, nella sua definizione più articolata. Se la macchina del cinema, come scrive Jean-Louis Comolli, è in grado di «fabbricare il vicino con il lontano» (Ivi, p. 11), qui Rohrwacher utilizza la sua voce e l’occhio della sua cinepresa con il fine di riconfigurare un distanziamento forzato nella distanza naturale che l’io percorre verso l’altro per ritrovare la sua storia.

Non è certamente un caso che, in tutti e tre gli esempi riportati, sia uno ‘sguardo-voce’ femminile a raccontare la propria casa proiettandosi su corpi e racconti altrui. Come scrive Britta Sjogren è spesso la narrazione femminile – più di quella maschile (classicamente la narrazione così detta ‘onnisciente’) – a dimostrarsi capace di aderire emotivamente alla materia rappresentata e di conseguenza adeguarsi in modo più radicale a un racconto del reale aperto all’imprevisto insito nell’incontro con un’alterità. Quella della narratrice femminile si manifesta cioè il più delle volte come la «Coscienza eterogenea di un sé che è sempre anche altro» (Sjogren 2006, p. 17), un ‘io multiplo’ i cui confini egocentrici di un’identità singolare si slabbrano in favore di una compromissione con una materia ad esso estranea. In tutti questi casi, tolte le differenze di carattere diegetico su cui ora non torniamo, il racconto dell’io vive un continuo moto di «possessione e spossessione» (Cavarero 2003, p. 158) della propria identità, ritrovando nella presenza dell’altro – in quella zona che Laura Rascaroli definisce «in-betweenness» (Rascaroli 2014, p. 16) – il racconto differito dello spazio in cui il proprio sé sceglie di prendere dimora.

 

Bibliografia

A. Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Milano, Feltrinelli, 2003.

M. Chion, La voce nel cinema, Parma, Pratiche Editrice,1991.

M. Chion, L’écrit au cinéma, Parigi, Armand Colin, 2013.

J-L. Comolli, Vedere e potere. Il cinema, il documentario e l’innocenza perduta, Roma, Donzelli, 2006.

M.A. Doane, ‘The voice in the Cinema: The Articulation of Body and Space’, Yale French Studies, Cinema/Sound, 60, 1980.

D. Dottorini, ‘Vite che (non) sono la mia. La scrittura di sé nel cinema del reale’, in A. Cervini, G. Tagliani (a cura di), La forma cinematografica del reale. Teorie, pratiche, linguaggi: da Bazin a Netflix, Palermo, Palermo University Press, 2020.

G. Gauthier, Storia e pratiche del documentario, Torino, Lindau, 2009.

B. Nichols, Introduzione al documentario, Milano, Il Castoro, 2014.

L. Rascaroli, The Personal Camera. Subjective Cinema and The Essay Film, New York, Wallflower Press, 2014.

M-C. Ropars-Wuilleumier, ‘Christian Metz et le mirage de l’énonciation’, in Id., Le temps d’une pensée. Du montage à l’esthétique plurielle, Parigi, Pu Vincennes, 2009.

B. Sjorgen, Into the Vortex. Female Voice and Paradox in Film, Chicago, University of Illinois Press, 2006.