L’uovo che compare nella copertina de Il dono di Antonia, l’ultimo romanzo di Alessandra Sarchi, si rivela sin da subito il leitmotiv verbovisivo che percorre l’intera trama del racconto, dalla soglia paratestuale che rappresenta l’opera di Adelaide Cioni (Ab ovo. White egg, 2020) e mostra in epigrafe i versi di Anne Michaels, Fontanelle, alle tante occorrenze del lemma legato a doppio filo al motivo della maternità e della generazione che costituisce il fulcro attorno a cui ruota tutta la storia.

Antonia, la protagonista, vive con la sua famiglia in campagna, in una casa poco lontano da Bologna, dove si dedica all’allevamento di capre, mucche e galline; «circondata di totem di maternità» si trova a fare i conti con il suo essere madre di Anna, la figlia adolescente e anoressica che prova a prendere le distanze da lei, e di Jessie, il quale vorrebbe conoscerla ed è figlio di Myrtha, un’amica conosciuta a Los Angeles quando era ancora studente, a cui ha donato un uovo e la possibilità di essere madre. Le forze di segno opposto esercitate dalle due creature generate da una parte del suo corpo, una che cerca di staccarsi, l’altro che prova ad avvicinarsi, la inducono a interrogarsi sul senso della maternità riallacciando i fili con il suo passato, ricominciando ab ovo appunto, cioè tornando non soltanto al punto in cui ha deciso di dare la vita ad Anna e una possibilità di esistere a Jessie, ma ripensando anche alla sua storia di figlia. Il grumo di gioie e sofferenza, responsabilità e paura, di forza e debolezza, di potere e fragilità, di libertà e vincoli che si dipana non soltanto dall’intreccio della linea diegetica principale, ma anche dai racconti di Alice e Sara (due donne conosciute da Antonia alle riunioni del gruppo di sostegno che frequenta), rende palese come il macrotema della pro-creazione si ponga come il nodo assolutamente centrale dei rapporti umani, in tutte le sue infinite e molteplici sfaccettature. Il dono di Antonia, in realtà, è un romanzo sulla maternità non meno di quanto non sia un apologo sull’amicizia, su quelle relazioni fra donne che danno forma all’immagine di ognuna di noi. «Ho imparato, in seguito, – dice Antonia a Jessie, quando decide di incontrarlo e spiegargli il senso della sua scelta – che accade spesso a una donna di capire chi vuole essere attraverso un’altra donna». Questo è stata Myrtha per lei, questo è stata lei per Myrtha in passato; questo continuano ad essere le due nuove amiche Alice e Sara, che le regalano le loro memorie di madri e di figlie e alle quali vorrebbe parlare di Anna e di Jessie. Con l’una ha spartito un pezzo del suo corpo, con le altre desidera condividere frammenti della sua vita (Antonia sente più volte l’impulso a «confessarsi e ad ascoltare una confessione»). C’è una corrispondenza molto stretta fra la costruzione della propria immagine e il racconto del proprio passato, che afferma inevitabilmente – lo ha detto una volta per tutte Adriana Cavarero in Tu che mi guardi, tu che mi racconti – la dimensione relazionale della soggettività. Tale dimensione in questo romanzo si avvolge e si addensa attorno al tema del materno, dove corpo e racconto si accordano come due tasti di uno stesso strumento. C’è un momento dell’incontro con Jessie in cui ciò appare in modo evidente:

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Colpisce nel guardare i due film di Alice Rohrwacher l’affiorare di un femminile che si incontra creando relazioni, echi e suggestioni e che rivela un punto di vista autoriale tra i più personali, maturi e immaginifici del nostro cinema contemporaneo. Sono contatti trasversali, legami simbolici (ma non solo) che risultano rivelatori dell’esperienza intellettuale e creativa della giovane regista (e sceneggiatrice) di Corpo celeste (2011) e Le meraviglie (2014).

Entrambi i film seguono, con trepidazione anche significativamente fisica – frutto anche della scelta di Rohrwacher di collaborare con Hélène Louvart, direttrice della fotografia e operatrice alla macchina (reduce, tra gli altri, da Pina [W. Wenders, 2011] e Les plages d’Agnès [A. Varda, 2008]) – le due protagoniste adolescenti, Marta e Gelsomina. «Nel continuo terremoto del crescere, nell’amarezza di scoperte inattese (dell’infelicità, del passare delle cose), sono stata presa da un senso di meraviglia, di emozione indicibile». La frase è tratta da Corpo celeste, raccolta di scritti (riflessioni, meditazioni autobiografiche) di Anna Maria Ortese pubblicata nel 1997. «Intuitivo e non strutturale», come dichiara la regista, il legame tra l’opera della scrittrice e quella di Alice Rohrwacher è denso e sofisticato. Più di un indizio, è quasi una dichiarazione, preziosa nell’esplorazione dello sguardo della regista, a cominciare ovviamente dal film del debutto, la cui suggestione riverbera tuttavia sorprendentemente anche ne Le meraviglie.

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Se abbiamo scelto questo noto autoritratto pasoliniano non è certo per tentare l’ennesima analisi critico-stilistica, per la quale rimandiamo agli studi di Achille Bonito Oliva e Francesco Galluzzi, bensì per evidenziare quella che ci è parsa costituire una delle molteplici incursioni dell’immagine nei processi narrativi dell’autore.

A quasi trent’anni dalla realizzazione del dipinto a olio, che segnò una delle ultime tappe dell’attività grafica pasoliniana prima di una temporanea eclissi, Pasolini sembra ispirarsene, in una delle sue consuete transcodificazioni tra generi, nelle pagine del metaromanzo Petrolio. Un’opera che non a caso costituisce un punto di osservazione privilegiato dell’officina pasoliniana, in cui sui travasi appena menzionati si innestano meccanismi di contaminazione definiti da qualche critico come propri di un’identità manieristica pasoliniana.

All’interno della visione del Giardino medioevale (Appunto 65 bis), una delle tappe culminanti dell’apparato allucinatorio di Petrolio, Carlo, il protagonista sdoppiato, specchio dell’autore-narratore, si ritrova dinanzi a uno strano consesso divino in cui figurano, immobili e ieratici, gli antichi «dei dell’Umile Italia», ipostasi allegoriche dei valori di una revoluta civiltà agreste annientata dal genocidio borghese. Tale episodio ci è apparso rappresentativo di quella costante «fuga dalla citazione» messa in atto dall’autore nell’attimo stesso in cui attinge a una fonte iconografica. Se nel preludio al frammento in questione il narratore cita su un tono di parodia didascalica la sua fonte – «per la descrizione delle divinità o idoli, ricorrere a descrizioni di figure sacre fatte da Longhi dalla pittura del Trecento (Cimabue, Stefano Fiorentino, Giotto ‘‘spazioso’’)» –, l’operazione è in realtà più complessa. Più che ai tre saggi longhiani, Pasolini sembra rifarsi piuttosto al Piero della Francesca sempre di longhiana memoria. Al centro del giardino emerge infatti isolata la figura del dio Dulcimascolo, incarnazione del sottoproletariato. Se l’ebano della pelle scura del dio costituisce un’evidente citazione dal Piero longhiano, altri dettagli sembrano riecheggiare ecfrasticamente l’autoritratto del ’47. Il giovane dio viene infatti immortalato disteso «con il gomito puntato a terra e la nuca appoggiata sul palmo della mano, masticando tra i denti qualcosa, forse il gambo lungo e leggero di una spiga».

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Care amiche, cari amici di «Arabeschi»,

ho pensato a lungo alla vostra proposta e alla fine ho deciso di mandarvi quattro fotografie di pagine di poesia. Proprio così: ho riprodotto quattro pagine del libro di Pasolini che mi è più caro, pagine un po’ ingiallite, che la riproduzione restituisce nella materialità della grana della carta, delle pieghe e degli svolazzi, con le mie sottolineature e qualche nota a margine.

Alcune righe di giustificazione, ve le devo.

In nessun luogo come nella poesia vedo manifestarsi in modo così netto la facoltà di Pasolini di ‘vedere le cose’ e di essere ‘visionario’: da qui, e non da altro, viene quello che avete chiamato il suo «spiccato interesse per la dimensione visuale».

In una nota (1962) in margine a La rabbia, riprodotta in Le regole di un’illusione, Pasolini dichiara:

C’è quindi in Pasolini, fin dai primi anni della sua attività cinematografica, la coscienza che essa si colloca nell’alveo della sua esperienza poetica.

Ricordo quello che Moravia disse, subito dopo la morte dell’amico: hanno ammazzato un poeta (cito a memoria). Non ha detto un intellettuale, un regista, un polemista. Ha detto un poeta.

Si impoverisce la portata di tutto quello che Pasolini ha fatto nella critica, nel romanzo, nel cinema e nel giornalismo se non si parte dal suo modo originario di esprimersi nella poesia, di vedere attraverso lo sguardo della poesia. Ho messo in quest’ordine i generi nei quali si è espressa l’attività artistica e intellettuale di Pasolini perché, secondo una scala di valore e importanza, io metto al primo posto la poesia e, di seguito, la critica letteraria, il romanzo, il cinema e, infine, il giornalismo.

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