2.3. Il fiore in bocca. Archetipi visivi pasoliniani tra «fuga dalla citazione» e autocitazione

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Se abbiamo scelto questo noto autoritratto pasoliniano non è certo per tentare l’ennesima analisi critico-stilistica, per la quale rimandiamo agli studi di Achille Bonito Oliva e Francesco Galluzzi, bensì per evidenziare quella che ci è parsa costituire una delle molteplici incursioni dell’immagine nei processi narrativi dell’autore.

A quasi trent’anni dalla realizzazione del dipinto a olio, che segnò una delle ultime tappe dell’attività grafica pasoliniana prima di una temporanea eclissi, Pasolini sembra ispirarsene, in una delle sue consuete transcodificazioni tra generi, nelle pagine del metaromanzo Petrolio. Un’opera che non a caso costituisce un punto di osservazione privilegiato dell’officina pasoliniana, in cui sui travasi appena menzionati si innestano meccanismi di contaminazione definiti da qualche critico come propri di un’identità manieristica pasoliniana.

All’interno della visione del Giardino medioevale (Appunto 65 bis), una delle tappe culminanti dell’apparato allucinatorio di Petrolio, Carlo, il protagonista sdoppiato, specchio dell’autore-narratore, si ritrova dinanzi a uno strano consesso divino in cui figurano, immobili e ieratici, gli antichi «dei dell’Umile Italia», ipostasi allegoriche dei valori di una revoluta civiltà agreste annientata dal genocidio borghese. Tale episodio ci è apparso rappresentativo di quella costante «fuga dalla citazione» messa in atto dall’autore nell’attimo stesso in cui attinge a una fonte iconografica. Se nel preludio al frammento in questione il narratore cita su un tono di parodia didascalica la sua fonte – «per la descrizione delle divinità o idoli, ricorrere a descrizioni di figure sacre fatte da Longhi dalla pittura del Trecento (Cimabue, Stefano Fiorentino, Giotto ‘‘spazioso’’)» –, l’operazione è in realtà più complessa. Più che ai tre saggi longhiani, Pasolini sembra rifarsi piuttosto al Piero della Francesca sempre di longhiana memoria. Al centro del giardino emerge infatti isolata la figura del dio Dulcimascolo, incarnazione del sottoproletariato. Se l’ebano della pelle scura del dio costituisce un’evidente citazione dal Piero longhiano, altri dettagli sembrano riecheggiare ecfrasticamente l’autoritratto del ’47. Il giovane dio viene infatti immortalato disteso «con il gomito puntato a terra e la nuca appoggiata sul palmo della mano, masticando tra i denti qualcosa, forse il gambo lungo e leggero di una spiga».

Nei cicli di (auto)ritratti pasoliniani emerge spesso l’elemento floreale, in un riaffiorare di simbologie di ascendenza tardo-simbolista. Un Pasolini in posa ieratica e immobile al pari degli dei di Petrolio stringe tra le labbra un fiore il cui colore richiama, in un evidente esprit de géométrie, quello del gilè. Se l’influsso dei grandi maestri del Novecento quanto a nervosità del tratto, e le reminescenze vangoghiane nella struttura compositiva, non lasciano ombra di dubbio, quel che colpisce qui è la sovrapposizione dell’immagine a un ritratto affisso alle spalle del poeta-pittore: un giovane contadino mastica a sua volta un fiore o una spiga. Si attua qui un processo in cui alla costante «ossessione autointerpretativa» dell’autore, il quale si proietta verso lo spettatore qualificandosi nella sua identità di pittore, si associa lo stilema velasqueziano del metaquadro. Ne consegue una stratificazione dell’immagine, ottenuta incastonando nell’autoritratto un ritratto che allude al primo in un sottile gioco di rimandi interni. Pasolini accosta a sé il risultato dell’atto demiurgico della creazione artistica, in una confusione tra «tempo dell’enunciazione» e «tempo dell’enunciato». Tale procedimento richiama da vicino quella stratificazione della visione allegorica descritta da Sandro Bernardi in Petrolio. L’amalgama di dati anacronistici caratterizzante la descrizione degli dei agresti della visione si pone su un stesso piano, a livello metanarrativo, della compenetrazione di marcescenza borghese e corporalità agreste propria del quadro. Notiamo infine come questa compenetrazione venga ulteriormente complicata nel quadro dall’inversione dei dati cromatici, ambiguamente vivaci nel volto di Pasolini quanto ridotti all’estrema essenzialità dei contorni nel contadino.

La sensazione è quella di un autore-narratore che in Petrolio riprende e rimescola alcuni elementi cardine del proprio campo visivo-pittorico, quasi a scongiurare una caccia alla citazione. Il prestito figurativo – anche in un contesto, come questo, di autocitazione – è sempre declinato secondo modalità allusive: se «il gomito puntato», «la nuca appoggiata sul palmo della mano» e quello che «forse» è il «gambo lungo e leggero di una spiga» riecheggiano i tratti del fantassùt del metaquadro, il cappello di quest’ultimo potrebbe aver originato il «cappelletto spavaldo» di un’altra divinità del giardino di Petrolio, quel dio Aprile colto nell’atto di tenere «un fiore di acacia, dal profumo acuto, e quasi indecente, di seme umano». La narrazione potrebbe allora fornirci, attraverso un distanziamento e una decontaminazione-dissociazione di elementi che pittoricamente erano stati combinati tra loro, un’ulteriore chiave di lettura per la comprensione del dipinto giovanile. Se la spiga masticata dal contadino tende in questo senso a configurarsi quale naturale appendice di un’immersione agreste, il fiore invece, stretto tra le labbra da un Pasolini dal volto terreo e consunto, confermerebbe la sua valenza simbolica erotico-mortifera. Ricollegandoci all’analisi di Pier Marco Santi, il quale sottolinea le valenze testamentarie e narcissiche dell’autoritratto pasoliniano, abbiamo intravisto nell’immagine stratificata del ’47 una contraddizione insolubile tra istanze osmotiche – un tentativo di contatto e di accesso a un mondo primigenio casarsese metaforizzato dall’elemento sessuale-floreale – e istanze dissociative – il dare le spalle al metaquadro quale percezione di una distanza incolmabile e assoluta con quello stesso mondo che Pasolini si apprestava a abbandonare una volta per sempre. Gli dei Aprile e Dulcimascolo si delineano quali eredi divinizzati, ma ormai vuoti e statici, dei contadini di un tempo. E così come il borghese di Petrolio si abbandonerà simbolicamente al possesso di Dulcimascolo, inizialmente a lui sconosciuto in una distanza che ricalca quella tra autoritratto e ritratto nel dipinto, anche il disperato confronto con la realtà sotteso ai processi mitopoietici pasoliniani sembrano volersi annullare e rigenerare al contatto con quel «profumo acuto, e quasi indecente, di seme umano».

A ben guardare però, l’impiego dello stilema floreale trae la sua origine altrove, in quella matrice poetica di fondo comune ai versi friulani e alle prime esperienze grafiche pasoliniane. Nelle quartine di Soreli – componimento del ’43 confluito nella Meglio gioventù – un zòvin appoggiato a un gelso fa brillare l’oscurità dei campi con la primuletta stretta tra le labbra.

È interessante sottolineare quel filo ininterrotto che lega l’immaginario archetipico-visionario pasoliniano – condensato intorno a un numero relativamente ristretto di ossessioni iconiche – seguendo il quale è possibile mettere a fuoco alcune evoluzioni nel trattamento degli stessi stilemi. Un medesimo motivo, il fiore stretto tra le labbra, da nodo focale di un bozzetto agreste pervaso di cosmica serenità, nello svolgersi degli anni e nello sconfinare impercettibile tra generi, si fa dapprima coagulo visivo di un’ambivalenza nata dalla distanza tra autoritratto e ritratto, e infine autocitazione a chiave allegorica nell’ultimo opus narrativo. Lungo il dipanarsi di questo filo immaginifico noteremo infine l’accrescersi di una dimensione metafigurativa e metanarrativa che tende a riplasmare, in un processo alchemico di contaminazione e dissociazione, le immagini del mondo pasoliniano.

 

Bibliografia

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