Colpisce nel guardare i due film di Alice Rohrwacher l’affiorare di un femminile che si incontra creando relazioni, echi e suggestioni e che rivela un punto di vista autoriale tra i più personali, maturi e immaginifici del nostro cinema contemporaneo. Sono contatti trasversali, legami simbolici (ma non solo) che risultano rivelatori dell’esperienza intellettuale e creativa della giovane regista (e sceneggiatrice) di Corpo celeste (2011) e Le meraviglie (2014).
Entrambi i film seguono, con trepidazione anche significativamente fisica – frutto anche della scelta di Rohrwacher di collaborare con Hélène Louvart, direttrice della fotografia e operatrice alla macchina (reduce, tra gli altri, da Pina [W. Wenders, 2011] e Les plages d’Agnès [A. Varda, 2008]) – le due protagoniste adolescenti, Marta e Gelsomina. «Nel continuo terremoto del crescere, nell’amarezza di scoperte inattese (dell’infelicità, del passare delle cose), sono stata presa da un senso di meraviglia, di emozione indicibile». La frase è tratta da Corpo celeste, raccolta di scritti (riflessioni, meditazioni autobiografiche) di Anna Maria Ortese pubblicata nel 1997. «Intuitivo e non strutturale», come dichiara la regista, il legame tra l’opera della scrittrice e quella di Alice Rohrwacher è denso e sofisticato. Più di un indizio, è quasi una dichiarazione, preziosa nell’esplorazione dello sguardo della regista, a cominciare ovviamente dal film del debutto, la cui suggestione riverbera tuttavia sorprendentemente anche ne Le meraviglie.
Marta e Gelsomina sono adolescenti ‘impreviste’, per molti versi inedite nel nostro cinema (che pare piuttosto guardare al maschile per raccontare l’adolescenza, specie quella più complessa). Sono diverse le ragazze di Rohrwacher, a cominciare dalla loro presenza fisica: corpi ancora indeterminati (non sono bambine, tantomeno donne, ma non per questo piccole femmine) che proprio nell’indeterminatezza di «ragazza che non sa cosa vuole diventare», come spiega la regista, si impongono: ossute e leggere al tempo stesso, sono presenze icastiche, incarnazioni della purezza di sguardo con cui si addentrano nell’inconnu – entrambi i film si aprono con due sequenze nel buio costellato di piccole luci che man mano prendono forma – sottraendosi alla parola e osservando, senza paura né esaltazione, il reale in cui sono ‘capitate’. È un mondo in cui ogni stazione quotidiana è visione potente di accadimenti (di meraviglie) che rivelano crudeltà, tenerezza, stupore. È il «sentimento di stranezza che è nell’apparire del mondo a un giovane, a una piccola ragazza», come scrive Ortese. Entrambe immerse in contesti familiari che, come loro, sono fuori dal canone, scoprono un mondo (che non dà risposte adeguate: Marta che chiede cosa voglia dire «Elì, Elì, lemà sabactàni») in cui visibile e invisibile precipitano fluidamente l’uno nell’altro, facendo dell’esperienza un accadimento anzitutto corporale. Marta, lo sguardo inquieto, il volto pallido, il modo di vestire (i maglioni e i pantaloni larghi, sformati) e di camminare (lesto, un po’ maschile), che durante la sua settimana di ‘passione’, fatta di isolamento sociale, violenza antropologica e insieme iconografica che la circonda (con le periferie desolate in cui il cemento ha preso il sopravvento sulla natura aspra), vive anche la trasformazione di sé, vagheggiata e subita (indossa il reggiseno della sorella maggiore, poi ha le prime mestruazioni), incomprensibile, da lasciare sgomenti. «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». L’unica risposta finisce per essere definitivamente il corpo: sdraiata sulla terrazza, Marta si dispone alla forza del vento; l’ira la spinge a tagliarsi con furia i capelli [fig. 1]; la meraviglia dei gattini che le si aggrappano addosso è l’unica cosa che le suscita il sorriso; infine, come stigmatizza la lunga sequenza nella chiesa tra i monti, la ragazza tocca il Cristo – il corpo celeste per eccellenza – con l’obiettivo concentrato sul dettaglio delle mani che scivolano, accarezzano, afferrano le membra lignee come per cercare un senso, con un’ansia di comprensione che non accetta compromessi [fig. 2].
L’esplorazione delle protagoniste è silenziosa, restituita anzitutto da un’angolazione estetica: i campi lunghi pieni di vento, di luce, di cielo, di suoni, i primi piani e i dettagli concertano una intraducibile immediatezza sensoriale, e l’uso antiretorico della macchina a mano, impegnata in un corpo a corpo con la scena, anziché amplificare agitazione e violenza piuttosto rivela la concentrazione della regista nel seguire con tenerezza le personagge nell’attraversamento dell’esperienza, creando un senso di incantata o terribile sospensione.
Gelsomina è un’adolescente anomala e goffa rispetto alle coetanee (l’amica, ninfetta ‘televisiva’ degli anni Novanta), ma è diversa anche dalla sorella Marinella. La tuta da apicultrice [fig. 3], azzerando l’identificazione di genere (pare anzi farla diventare la replicante del padre, che forse avrebbe voluto un primogenito maschio) fa risaltare la sua estraneità da extraterrestre (al pari di Marta) che non le impedisce affatto di entrare fisicamente in contatto con ogni elemento naturale (le api, il miele, l’acqua, il vento, la luce fino al corpo del padre, per togliergli i pungiglioni delle api) che sprigiona nella sua tangibilità una forza ancestrale. Ortese: «Anche in una strada misera e silenziosa, pezzetti di vetro che splendono a terra: tutto mi sembrava un avvertimento o un messaggio».
Rohrwacher sceglie due adolescenti per il suo viaggio (cosa certo non insolita), ma – ed è qui la novità che colpisce del suo lavoro – con loro si inoltra, con una risolutezza, anche formale, sorprendente per il nostro cinema, compreso quello femminile, nel territorio poco frequentato della sacralità, in cui la sospensione del tempo e le dimensioni spaziali (che si imbevono di ortesiana ‘azzurrità’ nei toni cromatici e fotografici) si fanno materia e insieme segno.
Corpo celeste – «piccolo film massimalista», come lo definisce Emiliano Morreale – restituisce l’andamento di un’inchiesta ‘evangelica’ attraverso lo sguardo di Marta. Seguendola, con la Passione si incontra lo Scandalo: della commistione tra Chiesa, politica, potere ed educazione (complice di una arcaica e patriarcale considerazione ancillare delle donne); della religione, percorso d’elezione per l’identificazione di sé, ridotta a degenerazione folcloristica che riflette parte dell’Italia contemporanea (condannata a un quotidiano di matrice sempre più televisiva); della solitudine irosa di un vecchio prete ostinatamente fedele al Verbum, cioè al corpo; dell’immagine prodigiosa del crocefisso precipitato tra i flutti che, abbandonato, condanna a sua volta all’abbandono. Infine lo scandalo olistico di una desolazione cui Marta intuitivamente si ribella, sottraendosi infatti alla cerimonia della Cresima. Sola, infilata in un vestito donnesco in cui non si riconosce, la ragazza sceglie una forma goffa e tenerissima di libertà, che sa a sua volta di scandalo (e provocazione). Qui incontra il Miracolo, la meraviglia: la coda della lucertola che la ragazzina tiene fra le mani e che ancora si muove. Il prodigio è inafferrabile (come il raggio di luce che Gelsomina tocca e ‘fa bere’ alla sorellina), sempre imprevisto, e silenzioso. Sa di sacro e di fiaba.
È un soprannaturale che sta ovunque – perché tutto, come scrive Ortese «è divino e intoccabile: e più sacri di ogni cosa sono le sorgenti, le nubi, i boschi e i loro piccoli abitanti» – e trova dimora nello sguardo diverso di Marta e di Gelsomina. Gli occhi di quest’ultima, in contrappunto rispetto a quelli della protagonista del primo film, sono costantemente immersi nella bellezza e disposti sensualmente ad accoglierla, in un equilibrio tra realismo e surrealtà che vibra del mistero dell’esserci. Ortese: «Questa parola – meraviglioso – è anzi la più banale che io conosca tra quelle che intendono definire il vivere e il sentirsi vivere».
Lo sguardo di Gelsomina appartiene a una femminilità rara nel cinema italiano: è incantato e intelligente, totalmente privo di malizia, esaltazione o problematicità; sperimentando dolore e fatica, si mantiene pieno della grazia con cui può accogliere l’apparizione di una clamorosa donna-fata (una Madonna, una dea in lurex e piume); di un banale gioiellino di plastica; del fondale del mare visto attraverso l’oblò della lavatrice; di un cammello, di un volto intenso di ragazzo.
La trasparenza della messa in scena è liberatoria e travalica il dato esistenziale per imporre la magica imperfezione del reale, pieno di segno e sospensione. Rohrwacher si muove con sapienza nel Tempo, con le inquadrature che si colmano di nostalgia, specie ne Le meraviglie, suggellato dalla bella invenzione del movimento di macchina finale e della tenda fantasmatica che si muove nella casa ormai vuota.
Alle spalle delle protagoniste si incontrano altri sguardi femminili, primi fra tutti quelli delle madri: sono presenze intense e dolcissime, ancor più per la difficoltà con cui riescono a dire e a dirsi. La maternità silenziosa pare vegliare su Le meraviglie spandendo un mistero solenne. Nella sequenza della caverna, durante la diretta televisiva, colpisce l’antico canto popolare che un coro di anziane intona, che comincia con «Stava la madre, tutta d’oro». L’atmosfera è quella di un rituale, buffo ma guardato con tenerezza e comprensione (lo sguardo di Rohrwacher è sempre sicuro e gentile, mai giudicante, sottraendosi a beffe e amplificazioni grottesche). Poi, il primo piano di Gelsomina che al suono del fischio ipnotico dell’amico si fa uscire le api dalla bocca [fig. 4]: il tempo si ferma e l’inquadratura impone un’immagine di grande forza iconica, che diventa infatti il profilo femminile disegnato nella locandina del film [fig. 5]. Quasi una Vergine quattrocentesca, la Madre celeste: la bocca semiaperta con le api sembra rimandare all’apertura della veste della Madonna del Parto di Piero della Francesca. Meglio, alla sinestesia iconografica tra l’affresco e una delle sequenze rivelatrici di Nostalghia (1983) che Andrej Tarkovskij – il cui cinema sembra evocato ne Le meraviglie – gira nella cappella di Santa Maria di Momentana, a Monterchi, quando una donna, durante il rito per la fecondità, aprendo la veste dalla Vergine lignea posta accanto all’affresco di Piero fa uscire degli uccellini.
L’immagine prodigiosa fa tornare infine a Ortese:
All’adulto, e ai popoli molto colti, tutto il mondo è il mondo dell’ovvio, del luogo comune. […] Ma per il fanciullo, e l’adolescente, e anche per un certo tipo di artista… non è così! […] Egli capisce ciò che l’adulto non capisce più: il mondo è un corpo celeste, e tutte le cose, nel mondo e fuori, sono di materia celeste, e la loro natura, e il loro senso – tranne una folgorante dolcezza – sono insondabili.
Bibliografia
F. Betteni-Barnes, ‘La grazia bambina, intervista ad Alice Rohrwacher’, Cineforum, 505, giugno 2011.
F. Betteni-Barnes, ‘Devi sentire il mondo intorno. Conversazione con Alice Rohrwacher’, Cineforum, 536, luglio/agosto 2014.
A. Casali (a cura di), Tra cielo e terra. Cinema, artisti e religione, Bologna, Pendragon, 2011.
Le meraviglie, Press-book, 2014.
E. Morreale, ‘Piccolo film massimalista’, Cineforum, 505, giugno 2011.
E. Morreale, ‘La ricerca della grazia’, Cineforum, 536, luglio/agosto 2014.
A. M. Ortese, Corpo celeste, Milano, Adelphi, 1997.