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Pier Paolo Pasolini non ha mai codificato una puntuale e organica teoria della recitazione cinematografica ma ha sempre prestato grande attenzione alle scelte di casting, intervenendo continuamente su questioni relative al rapporto con gli attori e le attrici. La sua sensibilità verso la dimensione corporale, l’interesse per la relazione tra spazi e figure fanno sì che ogni film rilanci sempre nuove traiettorie di senso legate alla presenza e alle dinamiche di interazione fra interpreti. L’importanza delle pose, dei gesti, degli sguardi dei personaggi determina una frizione costante fra verità e artificio, puntando alla perfetta combinazione fra carattere e atto performativo.

Con la Galleria «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini si vuole disegnare una mappa delle pratiche e delle teorie attoriali messe in atto dal regista, tema finora poco indagato dalla critica ma decisivo per intendere gli equilibri e le dinamiche del suo sguardo. La struttura prevista sarà quella di un dizionario-atlante, con voci dedicate ad attori e attrici che ricostruiscano – dove è possibile sulla base della documentazione disponibile – la relazione fra il regista e l’attore, le peculiari caratteristiche performative che il viso e il corpo di ogni interprete assumono nei film di Pasolini, oppure (nel caso degli attori professionisti e delle star) le modalità con cui lo scrittore si confronta con la loro immagine divistica.

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Abstract: ITA | ENG

Nella Ricotta (1963) Pier Paolo Pasolini affida a Orson Welles alcune delle sequenze più rappresentative del film, tra le quali, ad esempio, quella in cui Welles, nelle vesti del regista, rilascia un’intervista al giornalista del Tegliesera. Il contributo propone non solo un’analisi dettagliata di tale sequenza, ma ricostruisce anche il rapporto tra Pasolini e Welles alla luce delle collaborazioni mancate tra i due autori, in particolare in relazione ai film del poeta-regista Edipo re (1967), Teorema (1968), Porcile (1969) e I racconti di Canterbury (1972).

In Ricotta (1963) Pier Paolo Pasolini entrusts Orson Welles with some of the most representative sequences of the film, including, for example, the one in which Welles, in the role of director, gives an interview to the Tegliesera journalist. The contribution not only offers a detailed analysis of this sequence, but also reconstructs the relationship between Pasolini and Welles on the basis of missed collaborations between the two authors, in particular in relation to the poet-director’s films Edipo re (1967), Teorema (1968), Porcile (1969) and I racconti di Canterbury (1972).

  Io ho una specie di idiosincrasia per gli attori professionisti. Non ho però, sia ben chiaro, una prevenzione totale e ciò perché non voglio mai sottoporre la mia attività a delle regole precise, a delle coazioni. Questo mai. Io infatti non soltanto ho usato Anna Magnani, ma anche Orson Welles. […] Per Orson Welles la questione è stata un po’ diversa. È entrato molto meglio nel personaggio perché nella Ricotta ho fatto fare ad Orson Welles in parte se stesso. Ecco, faceva il regista, faceva se stesso, faceva la caricatura magari di se stesso e quindi rientrava perfettamente nel mio mondo (Pasolini 2001a, pp. 2856-2857).

Così, fin dai primi anni della sua attività di regista cinematografico, Pier Paolo Pasolini si era espresso sui motivi della propria predilezione per gli attori non professionisti, aggiungendo in un’altra, successiva occasione che «la differenza principale è che l’attore ha una sua arte. Ha il suo modo di esprimersi, la sua tecnica che cerca di aggiungersi alla mia – e io non riesco ad amalgamare le due. Essendo un autore, non potrei concepire di scrivere un libro insieme a qualcun altro, e, allo stesso modo, la presenza di un attore è come la presenza di un altro autore nel film».

Nella risposta di Pasolini, si avverte una contraddizione, perché da un lato egli nega l’apporto creativo di un attore che non può mai essere un altro ‘autore’ all’interno del suo film; dall’altra, ammette di avere ‘lasciato fare’ a Orson Welles, che quindi, sulla base delle indicazioni di massima del poeta-regista – che, com’è noto, non dirigeva ogni gesto, ogni intonazione e sguardo dei suoi attori, ma preferiva ‘metterli in situazione’ –, evidentemente ebbe piena libertà di forgiare come voleva il suo personaggio dato che lo plasmò in un modo che piaceva a Pasolini.

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Care amiche, cari amici di «Arabeschi»,

ho pensato a lungo alla vostra proposta e alla fine ho deciso di mandarvi quattro fotografie di pagine di poesia. Proprio così: ho riprodotto quattro pagine del libro di Pasolini che mi è più caro, pagine un po’ ingiallite, che la riproduzione restituisce nella materialità della grana della carta, delle pieghe e degli svolazzi, con le mie sottolineature e qualche nota a margine.

Alcune righe di giustificazione, ve le devo.

In nessun luogo come nella poesia vedo manifestarsi in modo così netto la facoltà di Pasolini di ‘vedere le cose’ e di essere ‘visionario’: da qui, e non da altro, viene quello che avete chiamato il suo «spiccato interesse per la dimensione visuale».

In una nota (1962) in margine a La rabbia, riprodotta in Le regole di un’illusione, Pasolini dichiara:

C’è quindi in Pasolini, fin dai primi anni della sua attività cinematografica, la coscienza che essa si colloca nell’alveo della sua esperienza poetica.

Ricordo quello che Moravia disse, subito dopo la morte dell’amico: hanno ammazzato un poeta (cito a memoria). Non ha detto un intellettuale, un regista, un polemista. Ha detto un poeta.

Si impoverisce la portata di tutto quello che Pasolini ha fatto nella critica, nel romanzo, nel cinema e nel giornalismo se non si parte dal suo modo originario di esprimersi nella poesia, di vedere attraverso lo sguardo della poesia. Ho messo in quest’ordine i generi nei quali si è espressa l’attività artistica e intellettuale di Pasolini perché, secondo una scala di valore e importanza, io metto al primo posto la poesia e, di seguito, la critica letteraria, il romanzo, il cinema e, infine, il giornalismo.

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