«Tutto potenza e ironia». Orson Welles nel cinema di Pasolini

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Nella Ricotta (1963) Pier Paolo Pasolini affida a Orson Welles alcune delle sequenze più rappresentative del film, tra le quali, ad esempio, quella in cui Welles, nelle vesti del regista, rilascia un’intervista al giornalista del Tegliesera. Il contributo propone non solo un’analisi dettagliata di tale sequenza, ma ricostruisce anche il rapporto tra Pasolini e Welles alla luce delle collaborazioni mancate tra i due autori, in particolare in relazione ai film del poeta-regista Edipo re (1967), Teorema (1968), Porcile (1969) e I racconti di Canterbury (1972).

In Ricotta (1963) Pier Paolo Pasolini entrusts Orson Welles with some of the most representative sequences of the film, including, for example, the one in which Welles, in the role of director, gives an interview to the Tegliesera journalist. The contribution not only offers a detailed analysis of this sequence, but also reconstructs the relationship between Pasolini and Welles on the basis of missed collaborations between the two authors, in particular in relation to the poet-director’s films Edipo re (1967), Teorema (1968), Porcile (1969) and I racconti di Canterbury (1972).

 
Io ho una specie di idiosincrasia per gli attori professionisti. Non ho però, sia ben chiaro, una prevenzione totale e ciò perché non voglio mai sottoporre la mia attività a delle regole precise, a delle coazioni. Questo mai. Io infatti non soltanto ho usato Anna Magnani, ma anche Orson Welles. […] Per Orson Welles la questione è stata un po’ diversa. È entrato molto meglio nel personaggio perché nella Ricotta ho fatto fare ad Orson Welles in parte se stesso. Ecco, faceva il regista, faceva se stesso, faceva la caricatura magari di se stesso e quindi rientrava perfettamente nel mio mondo (Pasolini 2001a, pp. 2856-2857).

Così, fin dai primi anni della sua attività di regista cinematografico, Pier Paolo Pasolini si era espresso sui motivi della propria predilezione per gli attori non professionisti, aggiungendo in un’altra, successiva occasione che «la differenza principale è che l’attore ha una sua arte. Ha il suo modo di esprimersi, la sua tecnica che cerca di aggiungersi alla mia – e io non riesco ad amalgamare le due. Essendo un autore, non potrei concepire di scrivere un libro insieme a qualcun altro, e, allo stesso modo, la presenza di un attore è come la presenza di un altro autore nel film».

D: Con Welles, come ha ottenuto un risultato che riteneva fruttuoso?
R: Per due motivi – prima di tutto in La Ricotta Welles non ha interpretato un altro personaggio. Ha interpretato se stesso. Quello che ha fatto è stata una caricatura di se stesso. E anche perché Welles, oltre ad essere un attore, è anche un regista intellettuale – così, in realtà, l’ho usato come regista intellettuale piuttosto che come attore. Poiché è un uomo estremamente intelligente, lo ha capito subito e non c’è stato nessun problema. Gli è riuscita bene. Era una parte molto breve e semplice, senza grandi complicazioni. Gli dissi la mia intenzione e lo lasciai fare con piacere. Ha capito quello che volevo immediatamente e lo ha fatto in un modo completamente soddisfacente per me (Blue 1965, p. 30).

Nella risposta di Pasolini, si avverte una contraddizione, perché da un lato egli nega l’apporto creativo di un attore che non può mai essere un altro ‘autore’ all’interno del suo film; dall’altra, ammette di avere ‘lasciato fare’ a Orson Welles, che quindi, sulla base delle indicazioni di massima del poeta-regista – che, com’è noto, non dirigeva ogni gesto, ogni intonazione e sguardo dei suoi attori, ma preferiva ‘metterli in situazione’ –, evidentemente ebbe piena libertà di forgiare come voleva il suo personaggio dato che lo plasmò in un modo che piaceva a Pasolini.

Come vedremo, il personaggio di Welles nella Ricotta – l’episodio di RoGoPaG (1963), prima e unica collaborazione fra Pasolini e l’attore-regista statunitense – è assai più complesso di una «caricatura di se stesso», anche se la fisionomia di quel ruolo era nutrita dalla realtà, dalla storia del suo interprete, scelto per la sua aderenza personale a quel personaggio, in quanto attore-regista e in quanto intellettuale colto e consapevole.

A conferma della sua rivendicata idiosincrasia, il poeta-regista ha raramente stretto durature collaborazioni artistiche con attori professionisti. Ha scelto ripetutamente soprattutto gli interpreti che aveva ‘creato’ egli stesso (come Franco Citti, per sette film, e Ninetto Davoli, dieci film) oppure quei pochi attori cui era legato da un rapporto di amicizia, come Adriana Asti (interprete di due film) e soprattutto Laura Betti (coinvolta in cinque interpretazioni e due doppiaggi per un totale di sette film). Gli unici attori professionisti che avessero già una lunga e importante filmografia quando Pasolini li ha interpellati furono Anna Magnani (per Mamma Roma, 1962) – una collaborazione che però, stranamente, lasciò del tutto insoddisfatto il poeta-regista – Totò (protagonista di Uccellacci e uccellini, 1966, e di due mediometraggi, La terra vista dalla luna, 1966, e Che cosa sono le nuvole?, 1967), un sodalizio che sarebbe continuato se il grande comico napoletano non fosse morto prematuramente), Silvana Mangano (quattro film, da La terra vista dalla luna a Il Decameron, 1971), Massimo Girotti (due film, Teorema, 1968, e Medea, 1969).

Il caso di Welles costituì, in effetti, un’eccezione perché si trattò di un sodalizio mancato: dopo La ricotta, Pasolini lo avrebbe voluto in altri quattro lungometraggi – Edipo re (1967), Teorema (1968), Porcile (1969) e I racconti di Canterbury (1972), cui si aggiunge un quinto titolo, San Paolo (1968-1975), che però rimase soltanto allo stadio di progetto. In tutti i casi (a parte San Paolo, che non si sa se gli fosse stato effettivamente proposto), Welles rifiutò sempre le proposte di Pasolini.

Oltre ad essere stato il primo attore straniero scelto da Pasolini, è stato anche il più emblematico fra gli attori-registi che egli abbia diretto (gli altri furono Carmelo Bene e Julian Beck, entrambi in Edipo re, e quest’ultimo nel ruolo originariamente previsto per l’autore di Citizen Kane).

L’insistenza a volere Welles è quindi significativa anche perché denota un interesse specifico del poeta-regista per la personalità del grande cineasta statunitense, dato che, appunto, il metodo pasoliniano consisteva nel ricorrere agli attori professionisti non perché recitassero un ruolo ma perché corrispondevano, in modo più o meno ideale, a quel personaggio. Nella fattispecie, Pasolini sceglieva i professionisti per incarnare personaggi borghesi e tutti i personaggi che Welles avrebbe dovuto interpretare nei suoi film, come vedremo, appartenevano, appunto, a quella classe sociale.

Pasolini non si soffermò mai a esprimere considerazioni sui film realizzati da Welles (ma indicò la riedizione italiana di Citizen Kane, insieme a quella di Der Letzte Mann (L’ultima risata, 1924) di Murnau, fra i migliori film distribuiti nelle sale nel 1966 [cfr. Pasolini 1966]), né lo menzionò mai fra i cineasti che prediligeva. Quindi lo interessava esclusivamente per la sua espressività, la sua mimica («tutto potenza e ironia» [Pasolini 1999b, p. 1514], lo definirà in un’intervista), la sua voce, anche se lo fece doppiare non da un doppiatore/attore professionista ma da un amico scrittore, Giorgio Bassani, che offrirà anche la voce ‘in poesia’ all’immediatamente successivo La rabbia (1963).

Un’ipotesi plausibile è che lo affascinasse la fisicità di Welles: gli occhi così luminosamente e acutamente penetranti da sembrare più grandi, la fronte altissima, le guance che cadevano intorno a un naso piccolo e regolare (spesso deformato ad arte dall’attore-regista con il make-up) e a una bocca carnosa che sembrava il relitto di una giovinezza perduta prematuramente; un corpo gigantesco, con un’autorità da sovrano in esilio e una risata omerica, che poteva anche essere minacciosa. Una fisionomia esotica, barbarica e arcaica, una presenza di altri tempi – non a caso Welles ha impersonato Cesare Borgia, Otello, Saul, il generale mongolo Burundai del XIII secolo, il cardinale cinquecentesco Wolsey, l’imperatore Giustiniano ecc.: questi potrebbero essere stati gli elementi che attiravano Pasolini al punto da insistere inutilmente per quattro volte [figg. 1-2].

Welles interpretò il film dopo avere terminato come autore e interprete Le Procès (Il processo, 1962), da Kafka, che sarebbe stato il suo quart’ultimo film compiuto e dopo avere recitato in costose produzioni come il francese La Fayette (La Fayette – Una spada per due bandiere, 1962) di Jean Dréville, dove impersonava Benjamin Franklin, e il britannico The V.I.P.S. (International Hotel, 1963) di Anthony Asquith, dove era il produttore Max Buda. Due film agli antipodi della Ricotta.

L’autore di Citizen Kane frequentò il cinema italiano sempre occasionalmente dalla fine degli anni Quaranta e dalla sua performance nella coproduzione italo-statunitense Black Magic (Cagliostro, 1949) di Gregory Ratoff, fino agli anni ’50 e ’60. Non esitò a esprimere giudizi negativamente sommari su alcuni cineasti italiani, come Rossellini e Antonioni, mentre amava De Sica e ammirava con riserve Fellini. Su Pasolini si è espresso nel celebre libro di conversazioni con Peter Bogdanovich, difendendo, non senza ironia, La ricotta dal giudizio negativo espresso dal regista di Paper Moon e soffermandosi soprattutto sulla mancata collaborazione per Porcile:

In quel film [La ricotta ndc] leggo una poesia, e Pasolini ha detto a tutti che non aveva mai sentito un attore italiano leggere una poesia in modo così semplice e diretto. Un paio d’anni fa, quando ero a Vienna, ha cercato di convincermi a interpretare la parte di un maiale.
(Ride) Un vero maiale?
Un maiale tedesco. Qualcosa di veramente osceno.
Ti piace Pasolini?
Tremendamente intelligente e dotato. Magari un po’ matto, un po’ confuso, ma di un livello superiore. Parlo del Pasolini poeta, cristiano andato a male e ideologo marxista. Non ha niente di confuso quando è su un set cinematografico. Autorità vera, e grande libertà nell’uso della tecnica (Bogdanovich 1993, p. 278).

 

Come si è detto, il personaggio del regista ne La ricotta è molto complesso: rappresenta in parte un autoritratto di Pasolini e in parte una figura assai differente da lui, per certi versi addirittura il suo opposto ed evidentemente antitetica era la fisicità di Welles rispetto a quella dell’autore di Accattone. Nella sceneggiatura, peraltro, manca una sua descrizione fisica ma l’unico accenno alla fisionomia sembra alludere allo stesso Pasolini: «Eccolo là, il “metteur en scène”, solo come Capaneo, sulla seggioletta da spiaggia: medita sprofondato nella coscienza dell’arte. È molto spirito e angoscia: non magna» (Pasolini 1998a, p. 843).

Si riconosce la fisionomia di Pasolini nei connotati che identificano un regista marxista in cui però convive, contraddittoriamente, un «intimo, profondo arcaico cattolicesimo», appassionato amante di pittori manieristi quali Rosso Fiorentino e Pontormo, tanto da mettere in scena due loro celebri Deposizioni nella forma di tableaux vivants. Alcune idee espresse dal regista corrispondono a quelle di Pasolini, in particolare l’anatema contro la società italiana e l’«uomo medio». Ma altri elementi sono più problematici: nella sceneggiatura originale, la richiesta di un giudizio di merito non riguardava Federico Fellini ma lo stesso Pasolini: questo costituiva già un indizio concreto che il personaggio del regista non doveva essere identificato completamente con l’autore del film. La risposta del regista – «Egli danza» – alludeva alla capacità di muoversi con leggerezza e disinvoltura all’interno nel mondo del cinema e dei rituali pubblici e sociali in genere. In un primo tempo, quindi, Pasolini pensò di attribuire a se stesso queste prerogative, poi ritenne che fossero più peculiari di Fellini.

Il cinismo, il disincanto, la stanchezza del regista, la sua stessa postura (rimane sempre seduto durante le riprese, in contrapposizione con Stracci, costretto dalla fame a corse spasmodiche) non corrispondono ai connotati del Pasolini regista che, probabilmente, ancora all’inizio della sua attività filmica (iniziata appena l’anno prima, con Accattone, 1961) intendeva ‘esorcizzare’ la propria, eventuale metamorfosi in un senso che rifiutava. Il regista della Ricotta, pur essendo marxista, vive in una bolla di splendido isolamento, distaccato dal mondo popolare e non si accorge neanche della sofferenza in cui la miseria trascina Stracci: l’esatto contrario di quella che era la concezione della propria vita che aveva Pasolini. Quando infatti il regista legge una delle Poesie mondane dello stesso Pasolini, ostentando la copertina del libro da cui è tratta (Mamma Roma, edito da Rizzoli), definisce l’autore «il poeta», mentre se ci fosse stata un’effettiva identificazione, avrebbe semplicemente detto «io». Infatti l’eventuale identificazione con se stesso venne smentita dallo stesso Pasolini: «il regista Orson Welles, ne La ricotta, non rappresenta me stesso, e quindi le cose che lui dice le dice in proprio: probabilmente il regista è una specie di caricatura di me stesso, un me stesso andato al di là di certi limiti e caricaturizzato e visto come se io fossi diventato, per un certo processo di inaridimento interiore e di conseguente cinismo, un ex comunista. E allora si spiegano le sue risposte ironiche, ciniche, scettiche, che colpiscono il mondo su tutti i fronti» (Pasolini 1999a, p. 758).

 

1. Un alter ego e la negazione di un alter ego

Il regista viene mostrato per tre volte mentre dirige il suo film ma in effetti, la sua immagine appare incombente quanto poco visibile sul set: Pasolini preferisce far risuonare la sua voce mentre interviene dal fuori campo per riprendere, sarcasticamente, gli errori o le insufficienze delle attrici (Valentina/Edmonda Aldini, Sonia/Laura Betti e una terza donna, sempre inquadrata di spalle).

Si sente riecheggiare più di frequente la voce dell’aiuto-regista che sembra un’emanazione nevrotica dell’autorità del cineasta e al tempo stesso, sembra dover assolvere alla funzione di risparmiare a quest’ultimo di ‘sporcarsi’ le mani con i contrattempi pratici e le inadempienze della troupe. È l’aiuto-regista a lamentarsi e ad inveire per i piccoli incidenti che ostacolano le riprese, mentre il regista, in quei casi, rimane silenzioso. Dirige senza avvicinarsi alla troupe, senza mai mescolarsi ad essa, ma rimanendo ad una regale distanza, seduto nella sua sedia-trono. Un’attitudine completamente diversa da quella di Pasolini che non stava mai seduto ma era spesso vicino ai suoi attori, quando non abbracciava la macchina da presa sostituendosi all’operatore. La sua voce non tradisce nessuna emozione, nessuna tensione creativa, se non la volontà di rendere gli interpreti aderenti all’immobilità ieratica delle figure da pala d’altare che devono mimare e quindi il fastidio, l’insofferenza per la loro ‘difettosa’ umanità che li induce a distrarsi, a assentarsi mentalmente dal contesto.

Il regista sembra spossato, stanco e il fisico appesantito di Welles rende anche plasticamente questa condizione. Una stanchezza forse originata dal disincanto di chi non crede più a nulla e ha perduto ogni utopia e quindi preferisce rifugiarsi nell’estetismo fine a se stesso. Non protesta quando la diva Sonia gli chiede di anticipare la sequenza che la riguarda, anzi la asseconda con passività rassegnata («Mi sembra giusto»). Anche gli ordini («Inchiodateli», «Schiodateli», «Lasciateli inchiodati») sono impartiti meccanicamente, mentre il suo volto rimane apatico e inespressivo [fig. 3]. Mentre proferisce uno di questi ordini, lo vediamo accarezzare senza troppo slancio un bambino ma non si saprà mai se si tratti di suo figlio o di una comparsa o altro.

L’unico momento in cui si alza e rimane a lungo in piedi, si verifica in occasione dell’arrivo del produttore, impersonato dall’avvocato di Pasolini, Giuseppe Berlingieri, perché, presumibilmente, le sue fattezze ricordavano vagamente quelle di Angelo Rizzoli, potente editore e distributore del film cui viene riservata un’apparizione allusiva, con il suo cranio rasato a zero inquadrato di spalle, quasi in un’eco grafica dei disegni di Grosz. Pasolini nutriva un vecchio risentimento nei confronti di Rizzoli, risalente ai tempi del provino per Accattone, che Rizzoli rifiutò di produrre nel 1960. È l’unico caso in cui il regista si produca in un sorriso ossequioso, un sorriso di opportunismo, di compiacenza e verrà inquadrato di profilo, confuso nella corte che accompagna il produttore.

L’unico momento in cui il regista abbandona la sua maschera di cinismo, indifferenza e disincanto, invece, è di fronte al cadavere di Stracci, alla sua morte. Fino a pochi istanti prima aveva gridato ripetutamente «Azione!», con la congestione confusa di chi, più esterrefatto che arrabbiato, non si capacita che all’ordine non venga dato immediatamente seguito. Davanti all’immobilità funebre di Stracci, il regista cambia volto e assume una gravità, una malinconia che celava dentro di sé ma che aveva già lasciato intravedere soltanto nella scena in cui leggeva la poesia.

Una gravità espressa nelle parole paradossali «Povero Stracci! Crepare! Non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo...» – ben più felici rispetto a quelle che Pasolini aveva scritto nella prima versione del film e a cui dovette rinunciare dopo il processo intentato alla Ricotta dal sostituto procuratore Giuseppe Di Gennaro: «Povero Stracci! Crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione».

Per «rivoluzione» si alludeva a quella proletaria ma anche, più prosaicamente, all’arresto obbligato e temporaneo delle riprese del film provocato dalla sua morte. Nella seconda versione assume un senso più profondo la presa di coscienza, conseguente solo alla sua morte, che Stracci fosse vivo, soffrisse la fame a pochi metri di un intellettuale che si professa marxista ma non si accorge del travaglio, della ‘via crucis’ reale del popolo.

 

2. Cinismo, sarcasmo, sdegno, malinconia e odio: il ‘regista’ pasoliniano di Welles

La sequenza più lunga interpretata da Welles nel film è l’intervista rilasciata al giornalista del Tegliesera, che dura meno di cinque minuti.

Pasolini aveva già sottolineato la lontananza ‘aristocratica’ del regista rispetto alla troupe, che assisteva al ballo improvvisato da due tecnici tarchiati, ballo che il cineasta non degna neanche di uno sguardo, mentre rimane seduto nella sua ombrosa solitudine, con il copione aperto davanti a sé, lo sguardo altrove e un braccio rilasciato verso il basso. Analogamente, non partecipava al pranzo della troupe e tantomeno ai traffici sessuali che si consumavano ai margini del set.

Quando il giornalista avanza curvo nella sua direzione e chiede «Permette una parola?», Welles lo squadra con disprezzo e sufficienza, tenendo l’estremità della stanghetta degli occhiali in bocca e senza rispondergli, in un silenzio che vorrebbe essere scoraggiante. Ciononostante, il cronista gli si avvicina, sussurrando un «Forse disturbo... sono del “Tegliesera”» e Welles, a quel punto, si è già tolto la stanghetta dalla bocca e continua a guardarlo con altezzosità. Sospirando con sussiego e noia, finalmente risponde: «Dica, dica...» ma non gli concede più di quattro domande e sorride in modo sprezzante dopo avere posto le condizioni [fig. 4].

Durante l’intervista, Welles rimane spesso con il capo inclinato verso il basso, chiuso nel suo cappotto come una tartaruga nel guscio e insiste a fissare il giornalista con un’attitudine oscillante fra noia, insofferenza e disprezzo: è evidente che non ha nessuna voglia di essere intervistato. Indizio del fatto che è un cineasta affermato e non ha più nessun bisogno di conquistare celebrità e onori. La prima domanda – «Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?» – gli suscita un accenno di smorfia, sembra che voglia dire ‘boh’ ma intanto il suo sguardo si muove, come se stesse cercando le parole più adatte. Dopo avere risposto «Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo» – una risposta che, come quasi tutte quelle che seguiranno, riflette fedelmente il punto di vista di Pasolini – sorride beffardo e ambiguo. Welles aguzza lo sguardo, concentrandovi ironia e derisione, sia nei confronti delle parole che ha appena proferito, dato che evidentemente la disillusione prevale su ogni sentimento, sia, ovviamente, nei confronti del proprio interlocutore.

Alla seconda domanda, su cosa pensi della società italiana, risponde con una freddezza e una sicurezza che non ammettono repliche: «Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa». Poi, a quale sia la sua idea della morte – morte che sarà l’evento conclusivo del film – replica con un secco: «Come marxista, è un fatto che non prendo in considerazione» ma forse questa è l’unica risposta dove Pasolini attribuisce al suo personaggio delle parole che non corrispondono veramente al proprio pensiero quanto un pretesto per affermare la propria fede ideologica. Prima di dichiarare la sua opinione sul «nostro grande regista Federico Fellini», ecco un’altra lieve perplessità, cerca le parole più adatte, poi dice: «Egli danza», quindi la ripete con convinzione, come se la ritenesse veramente la risposta più giusta [fig. 5].

Il regista contraddice poi la propria insofferenza con l’atto di trattenere il giornalista, non per continuare l’intervista ma forse per comunicargli una confessione con le parole di un altro, rivelando evidentemente un fugace desiderio di uscire dalla propria solitudine. Gli recita il primo verso della celebre poesia ‘mondana’ di Pasolini, «Io sono una forza del passato», specificando con imprevista timidezza «È una... poesia». Ma assume nuovamente il registro ironico evocando i primi versi, che non leggerà, dove il poeta evoca dei ruderi che nessuno capisce e delle orrende costruzioni moderne comprese invece da chiunque. Sul volto di Welles si disegna una piega di derisione dove la stanchezza rassegnata di chi constata il fenomeno, prevale sull’asprezza.

Quindi recita la poesia con asciutta serietà, senza nessuna enfasi, rivelando una particolare empatia soprattutto con gli ultimi versi («a cercare fratelli che non sono più»), cui fa seguire una pausa di riflessione silenziosa e dolorosa. Quei versi evocano la sofferta coscienza, il senso di appartenenza ad un altro mondo, ad un’altra cultura, quindi la solitudine che accomunano il regista e Pasolini. Ma il tono di sprezzante superiorità («Ha capito qualcosa?»), quindi la brutalità umiliante con cui il regista reagisce all’incapacità di comprensione del giornalista non corrispondono alla leggendaria pazienza ‘pedagogica’ del poeta-regista.

Welles stringe gli occhi con perfidia e si sposta sulla sedia, come per prendere slancio rispetto all’invettiva con cui sta per investire il malcapitato giornalista. Gesto e sguardo, nella mimica di Welles, sono sincroni e ora svelano il sentimento che già traspariva nei momenti precedenti: l’odio e il disprezzo per la piccola borghesia servile: «Scriva, scriva quello che le dico: lei non ha capito niente, è così? Perché lei è un uomo medio». Le parole «uomo medio» sono proferite con un’accentazione di particolare disgusto e Welles stringe ancora di più gli occhi. Il povero giornalista ammette: «Beh, sì». Per nulla rabbonito dall’umiltà e dalla schiettezza dell’interlocutore che ammette i propri limiti, Welles/regista lo aggredisce verbalmente con un disprezzo e un odio privi di qualsiasi infingimento: «Ma lei non sa che cos’è un uomo medio? È un mostro, un pericoloso delinquente», Welles aguzza lo sguardo e rimane in una posizione di tensione, con il capo leggermente proteso in avanti, come se stesse per scattare. «Conformista! Colonialista! Razzista! Schiavista! Qualunquista!».

Deformando lievemente il proprio volto, Welles esprime un crescendo di rabbia, sdegno, odio dove perde ogni stanchezza e disincanto per infervorarsi con livore. Non si inalbera quando il giornalista reagisce alle sue invettive sogghignando ma ritorna a insaccare la testa nel cappotto e a squadrarlo dal basso in alto, con superiorità e disprezzo più gelidi di prima. Sibila le parole più velenose del dialogo: «È malato di cuore lei? Peccato, perché se mi crepava qui davanti, sarebbe stato un buon elemento per il lancio del film. Tanto lei non esiste. Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione e il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale. Addio».

Dall’accaloramento dell’invettiva, Welles passa ad un registro cinico e crudele, anche con l’evidente intento di mortificare ancora di più l’interlocutore. Un cinismo che l’attore rende con un’estrema economia espressiva: lo sguardo gelido, di chi sta pensando alle parole più umilianti per chiudere la bocca all’interlocutore, dato che il senso del suo discorso è che la vita del giornalista non abbia il minimo valore. In realtà sono parole un po’ pretestuose, perché, in effetti, non sarebbe di nessuna utilità alla pubblicità di un film la morte di un giornalista, come non lo sarà la morte di Stracci, che avverrà davvero. Semmai, potrebbe essere dannosa. La frase, comunque, ha la funzione di anticipare, con il suo lugubre cinismo, la morte di Stracci, che creperà effettivamente sul set sotto gli occhi di tutti.

Alla fine il giornalista esita ad andarsene, indugia a guardare il regista, forse le sue parole gli hanno fatto venire dei dubbi ma Welles chiude senza complimenti l’incontro, spostandosi sulla sedia e voltando platealmente le spalle al giornalista che allarga le braccia e se ne va [fig. 6].

Welles offre quindi un’interpretazione modulata su registri molto differenziati e non certo esclusivamente autocaricaturali, esprimendo stati d’animo molto differenziati, in particolare le corde dei cattivi sentimenti sono quelle con cui tratteggia un personaggio privilegiato ma che lascia trasparire le sue frustrazioni, il suo malessere, la sua ira impotente.

3. Da Edipo re a Canterbury: i film di Pasolini rifiutati da Welles

La scelta di Welles come Tiresia, il cieco veggente che conosce la verità di Edipo, è confermata, fra le altre, da tre interviste. Nella prima Pasolini, a quattro mesi dall’inizio delle riprese, dichiara che «Edipo re verrà girato a colori ed il suo ‘cast’ sarà composto, oltre che da Citti, da Silvana Mangano, la quale incarnerà Giocasta, e Orson Welles, che apparirà nel ruolo di Tiresia» (Pasolini in C. 1966). Nella seconda, afferma che «per ora sono scritturati, Silvana Mangano, che ha voluto essere Giocasta a tutti i costi, Orson Welles come Tiresia, e Ninetto Davoli che sarà il Nunzio. Edipo sarà, forse, Franco Citti» (Pasolini in Ponzi 1966). Quindi l’attore-regista statunitense rientrava fra i primi nomi selezionati. Infine, quando il film era ormai stato presentato, ne parlò ai Cahiers du cinéma: «Per quanto concerne Tiresia, avevo in un primo momento pensato a Orson Welles. Non ho potuto averlo» (Pasolini 2001c, p. 2924).

È probabile che Pasolini avesse pensato a Welles fin dalla stesura della sceneggiatura, descritto come «la figura di un grande vecchio che suona un flauto» (Pasolini 2001b, p. 1019). Infatti sarebbe stato un Tiresia completamente diverso, sul piano corporale, da quello – calvo, ossuto e fisicamente fragile – di Julian Beck, che ha una determinazione e un’energia interiori in assoluto contrasto con il proprio aspetto. Nel caso di Welles, invece, la presenza esteriore sarebbe stata il fedele riflesso della forza vaticinante del personaggio e sarebbe stato più impari il confronto con Edipo/Franco Citti che, alla fine del loro scontro, gli si avvicina e lo strattona con aggressività. Un anno dopo, Welles accetterà lo stesso ruolo di Tiresia in una versione britannica della tragedia sofoclea, Oedipus the King (1968, inedito in Italia) di Philip Saville [fig. 7].

La seconda volta in cui Pasolini fece invano appello a Welles fu per il ruolo del padre in Teorema (1968). Ne parlò, fin dal 1966 (quindi prima ancora di Edipo re) a Alberto Arbasino: «un dio che arriva in una famiglia borghese: bello, giovane, affascinante, cogli occhi celesti. E se li fa tutti: dal padre, che è Orson Welles, alla serva che è Laura Betti» (Pasolini in Arbasino 1966). E in seguito confermò la sua scelta in un’intervista a Sipario: «quanto agli attori, per l’interpretazione del padre, l’industriale, avrei pensato ad Orson Welles» (Pasolini in Rusconi 1967, p. 27). Evidentemente, però, Pasolini non pensava al grande attore-regista per il ruolo del padre quando scrisse il romanzo, perché la sua fisionomia appare completamente diversa: «la sua età va dai quaranta ai cinquant’anni: ma è molto giovanile (il viso è abbronzato e i capelli sono appena un po’ grigi, il corpo ancora agile e muscoloso, come appunto quello di chi ha fatto in gioventù, e continua a fare, dello sport). Il suo sguardo è perduto nel vuoto, tra preoccupato, annoiato o semplicemente inespressivo: perciò indecifrabile» (Pasolini 1998b, p. 896).

Rispetto a Massimo Girotti, Welles avrebbe rappresentato un padre dal fisico appesantito e assai più imponente, che avrebbe giustificato in misura maggiore il malessere che lo colpisce, ispirato al racconto La morte di Ivan Il’ic (1886) di Tolstoj mentre il confronto fisico con l’Ospite (Terence Stamp), i loro approcci fisici in forma di giochi fra ragazzi, avrebbero avuto una valenza diversa dato il netto contrasto fra le corporalità dei due attori.

È ancora a un ruolo di padre e ancora ad un industriale al quale Pasolini pensa per il successivo Porcile (1969), ossia Klotz, esponente di un vetero-capitalismo legato alla cultura umanistica e infatti nella sceneggiatura si sofferma a descrivere uno spazio che non si vedrà nel film, come non si vedrà il personaggio leggere una poesia bensì suonare l’arpa: «La biblioteca-studio del signor Klotz, nella sua villa. Una stanza vasta, accogliente, grandi scaffali di libri rilegati, pareti rivestite di legno. Potrebbe essere una domenica pomeriggio: il signor Klotz legge un libro di poesia» (Pasolini 2001d, p. 1141).

Quando Pasolini pensò a Welles, il personaggio di Klotz non era ancora stato immaginato come paralitico, immobilizzato sulla sedia a rotelle (quale sarà nella personificazione di Alberto Lionello): lo si deduce dalla lettera che il poeta-regista scrisse a Jacques Tati nel novembre 1968, poco prima di iniziare le riprese, probabilmente dopo avere subìto il rifiuto di Welles, dove gli precisa che la fisionomia di Klotz dovrà essere simile a quella di Hulot, la ‘creatura’ dell’autore di Mon Oncle, e percorrere con la sua andatura dinoccolata gli spazi della villa neoclassica tedesca (cfr. Pasolini 2021, pp. 1374-1375).

Welles avrebbe dovuto incarnare, quindi, un’altra figura paterna, anch’essa soccombente, mentre in I racconti di Canterbury (1972) sarebbe stato January, ossia Gennaio, «un uomo di sessant’anni, dal pelo canuto, fitto come quello di un orso: è anche grosso e goffo come un orso: con l’occhio matto e sanguigno che gli scintilla sul naso rosso. È un uomo vecchio e malandato, ma nel tempo stesso ha la vitalità e la vivacità di un ragazzino» (Pasolini 2001e, p. 1498). In questo caso, è assai probabile che Pasolini avesse in mente proprio Welles mentre descriveva la fisionomia di Gennaio ed è possibile che pensasse alla sua sanguigna, selvaggia, patetica e bellissima performance nel suo Chimes at Midnight (Falstaff, 1966) perché Gennaio ha un’esuberanza clownesca e esagitata, con la differenza, rispetto al personaggio shakesperiano, che agisce su effetto del desiderio lubrico per una ragazza giovane [fig. 8]. L’attore che sceglierà dopo il rifiuto di Welles, il britannico Hugh Griffith, avrà una fisionomia simile alla sua, ancora più sanguigna. Non si sa esattamente a quale ruolo del San Paolo Pasolini avesse pensato per Welles ma è probabile che fosse proprio la parte del protagonista, quindi sarebbe stata una raffigurazione di età più avanzata rispetto agli altri attori cui aveva pensato (come Marlon Brando e Giancarlo Giannini). Perché Welles rifiutò sistematicamente i ruoli propostigli da Pasolini?

A giudicare da quanto dichiara a Bogdanovich e secondo altre testimonianze (come quella del produttore di Porcile, Gian Vittorio Baldi) è probabile che Welles, se era impegnato su altro set coevo alla lavorazione di Edipo re, invece fosse inibito, forse anche un po’ moralisticamente, dall’audacia erotica dei progetti di Teorema, Porcile e I racconti di Canterbury.

Si ringrazia Alessandra Lovino per la traduzione dell’intervista di James Blue e per le ricerche bibliografiche.

 

Bibliografia

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